Tra i vari film che l’edizione 2025 del Florence Korea Film Fest ha portato per la prima volta in Italia, c’è anche il biopic The Himalayas (히말라야). Il film del 2015, diretto da Lee Seok-hoon, vede come protagonista Hwang Jung-min, noto attore sudcoreano a cui il film festival fiorentino ha dedicato una rassegna omaggio, nei panni dell’alpinista Um Hong-gil. All’interno del vasto cast possiamo trovare anche Jung Woo, Kim In-kwon, Ra Mi-ran, Kim Won-hae e Jeon Bae-soo.
La (vera) storia di The Himalayas
Il film è la trasposizione cinematografica della vita dell’alpinista Um Hong-gil (Hwang Jung-min), il primo alpinista sudcoreano ad aver raggiunto la cima di tutte le ottomila (così vengono chiamate le 14 montagne che superano gli 8000 metri). La narrazione di The Himalayas si concentra principalmente sulla forte amicizia tra Um Hong-gil e Park Moo-taek (Jung Woo), aspirante alpinista che Um Hong-gil prende sotto la sua ala da mentore e con cui scala il Kangchenjunga, la terza montagna più alta della Terra. La vicenda, però, proprio come nella vita vera, prenderà purtroppo delle pieghe drammatiche…

La montagna, tra la bellezza e la paura
The Himalayas inizia con una sequenza in soggettiva che segue un gruppo di alpinisti durante una scalata tra le cime innevate. E come ben sappiamo, la soggettiva, in campo cinematografico, ha sempre un suo valore. Basti pensare, per esempio, all’uso voyeuristico e metacinematografico che ne fa Alfred Hitchcock in La finestra sul cortile o all’utilizzo totalmente (video)ludico che ne viene fatto in Hardcore!. O ancora ad Arca russa di Aleksander Sokurov, a Enter The Void di Gaspar Noè e, più recentemente, a I ragazzi della Nickel, un’immersione negli orrori della segregazione razziale.
Nel caso di The Himalayas, la soggettiva ci pone faccia a faccia con il senso di meraviglia che un paesaggio come quello può generare, ma anche con la sensazione di pericolo e di fatica. In poche parole, la prima sequenza del film vuole suscitare un senso di sublime. Ebbene sì, parliamo proprio di quel concetto tanto caro al movimento culturale e artistico del Romanticismo. Quella sensazione che sta tra la bellezza e la paura, tra lo splendore e il terrore, quando ci si ritrova davanti alla natura e alla sua immensità, in effetti, esprime alla perfezione quelli che sono i temi principali che stanno alla base del film di Lee Seok-hoon.

Vivere e morire per la montagna
I protagonisti di The Himalayas sono costantemente mossi da un desiderio primordiale di spingersi sempre oltre, di raggiungere la tanto agognata vetta della montagna. Anche se sono ben consci che ogni scalata potrebbe essere l’ultima. E forse è proprio questa pulsione di morte a portare questo gruppo di alpinisti verso i limiti più estremi della natura. Come se, solo sulle punte della catena montuosa dell’Himalaya, in quella specie di linea di confine tra la terra e il cielo, fosse possibile trovare la vera e più profonda essenza della vita.
In effetti, durante tutto il corso del lungometraggio, si percepisce una visione quasi buddista, o quantomeno sicuramente spirituale, del rapporto tra l’uomo e la natura, o in questo caso la montagna. Gli alpinisti di The Himalayas invocano la protezione delle divinità di quelle vette innevate e non utilizzano mai la parola ‘conquistare’. La montagna non si conquista, neanche quando si raggiunge il picco. Raggiungere la vetta è un privilegio che la montagna potrebbe concedere all’uomo. Così come potrebbe non concederlo. E chi decide di sfidare il tempo spesso avverso, conosce bene questo rischio.

Un classico biopic, tra amicizia e paesaggi mozzafiato
Questi sono gli insegnamenti che l’esperto alpinista Um Hong-gil cerca di impartire al giovane Park Moo-taek. È divertente assistere agli inizi di questo loro rapporto. Quella che parte come una tipica relazione tra maestro severo e allievo scapestrato, condita da simpatici momenti comici, si sviluppa poi, nella più classica delle maniere, in un profondo affetto. Forse The Himalayas è anche troppo agiato nella sua classicità. Soprattutto nella seconda parte, emotivamente più sofferta, il film cade facilmente in alcune ingenuità tipiche del genere biografico. Ma l’emozione c’è, si percepisce. Inoltre, il film crea un – non così scontato – senso di affetto nei confronti dei suoi personaggi, quantomeno quelli principali.
Ma ciò che ruba veramente la scena sono le scenografie, che riescono a creare un paesaggio mozzafiato. Non si parla di pure e semplici vedute da cartolina (anche se, in realtà, l’effetto cartolina nasce un po’ spontaneo). Mostrandoci l’immensità di questi ambienti, insieme alla loro freddezza e durezza, ciò che il film comunica è proprio il già citato senso del sublime. Anche se non sempre funziona. Talvolta le scenografie appaiono fin troppo artefatte, irrealistiche, rompendo un po’ il gusto naturalistico che il film cerca di esprimere. Ciononostante, The Himalayas rimane una visione interessante, che offre una diversa prospettiva sull’ambiente montano e sul rapporto tra uomo e natura.
