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Squarci di settima arte: il grande cinema italiano post-boom
Il nono episodio degli squarci di cinema di Stefano Oddi: da Pasolini a Leone, passando per l’immensa poliedricità del panorama cinematografico italiano sorto in seguito alla rivoluzione socio-culturale del boom economico.
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11 anni fail
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Stefano OddiDopo le due rapide incursioni nel cinema nostrano dedicate rispettivamente al neorealismo e al meraviglioso trittico costituito da Visconti, Fellini e Antonioni, il nostro cammino vira per l’ultima volta verso l’Italia, nel tentativo di descrivere e celebrare l’ultima grande stagione della cinematografia tricolore, la mareggiata definitiva prima dell’urto e della secca. Prima di iniziare, voglio sottolineare che illuminare il periodo che dal ’60 distende le sue propaggini fino agli anni ’80 (prolungandosi spesso decisamente oltre o arrestandosi a volte molto prima) non costituisce di certo un pretesto per gettare discredito sullo stato attuale del cinema italiano -dominato da un’invidiabile rosa di nomi- quanto semmai sull’assenza di apertura al futuro che lo domina e soprattutto sulla pressione ingombrante di un contesto ormai privo di quel fervore culturale coraggioso e testardo che aveva costituito il solido terreno di appoggio per le grandi prospettive autoriali -e non- nate tra la fine degli anni ’50 e l’inizio del decennio successivo.
Proprio un anno dopo quel 1960 che, con la vittoria a Cannes de La dolce vita e L’avventura e il trionfo morale a Venezia di Rocco e i suoi fratelli, pose in modo totale e definitivo il cinema italiano sul punto più alto dell’empireo internazionale della settima arte, una nuova generazione di cineasti segnò il simbolico passaggio di testimone con quella precedente (che in ogni caso continuerà -come abbiamo già avuto modo di vedere- a sfornare capolavori per almeno due decenni) grazie all’esordio sulle scene di Pier Paolo Pasolini, artista totale, intellettuale di lungimiranza rara, in generale una delle menti più brillanti del Novecento italiano, ovviamente orientato a far della pellicola solo uno dei possibili sistemi di analisi della contemporaneità all’interno di un’opera eterogenea e vastissima in grado di fondere il cinema con la letteratura, la critica militante e la saggistica con la poesia. Un circuito sterminato del quale non potrò indagare la complessità globale, impegnandomi però a chiamarlo in causa -quando necessario- attraverso brevi riferimenti intertestuali, sempre connessi a quel nostro orizzonte di riferimento costituito dal cinema.
Accattone e Mamma Roma, le due opere di esordio di Pasolini, portavano alla luce lo scandaglio del sottoproletariato romano in cui l’autore friulano si era già prodigato con i suoi primi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ma l’intento pasoliniano era ben distante da quel tentativo di ripercorrere con coscienza mutata l’atteggiamento neorealista a cui spesso i suoi primi lavori sono accostati, e da connettere più che altro a un’ideale di poetica che costituirà l’asse portante della sua intera filmografia. L’attenzione nei confronti degli strati sociali più bassi e disagiati infatti non va connessa a quell’ansia rosselliniana di documentare una realtà in crisi, tesa verso il rinnovamento e la speranza di un futuro più roseo. Gli sconfitti di Pasolini restano (quasi) sempre tali e la realtà nella quale sono rinchiusi senza via di scampo non è connessa a un anelito di rifondazione. Il regista tenta piuttosto di documentare il disordinato slancio di vitalità -opposto alla strutturante razionalità borghese- che anima le classi basse della popolazione, di fotografare con rigore e candore i ripetitivi e non pianificati ritmi di chi non possiede che la propria corporeità.
I due film illuminano inoltre l’indistricabile intreccio tra sacro e profano di cui il cinema pasoliniano è intimamente pervaso, attraverso il pedinamento esistenziale dei due poveri cristi interpretati da Franco Citti e Anna Magnani, in un percorso di graduale avvicinamento alla figura cristologica tout court avvenuta prima con La ricotta(episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G.) in cui un sottoproletario veste i panni di Gesù di Nazareth in un film in costume e muore in croce a causa di un’abbuffata di ricotta, poi con il magistrale Il vangelo secondo Matteo, che rompe la tradizionale iconografia cattolica della sacra figura e mette in scena un figlio di dio carico di titubanze, incertezze, tutto umano nella sua ineliminabile corporeità, e infine con Uccellacci e uccelliniin cui la riflessione socio-politica sulla sinistra italiana post-Togliatti si mescola a un episodio religioso che proietta i protagonisti (Totò e Ninetto Davoli) nei panni di due monaci francescani dediti al compito arduo di evangelizzare i volatili.
Nell’ultima metà del decennio ’60, Pasolini alterna il dittico di film ispirati alla tragedia greca (Edipo Re e Medea) con quello aperto a un ritratto feroce e dissacrante della classe borghese costituito da Teorema e Porcile, operando in ogni pellicola un melange quanto mai affascinante dei propri leitmotiv. Seguono a questo dittico due film ispirati al mito greco, primo dei quali è il magnifico Edipo re in cui, seguendo le riflessioni di Massimo Fusillo, il regista friulano ribalta la prospettiva tradizionale di “dramma della conoscenza” e trasla la tragedia sofoclea nei termini propriamente personali di ricerca di una purezza assoluta, non contaminata dalla razionalità borghese, di un’ignoranza ingenua e arcaica che sostituisce all’intelletto una fisicità selvaggia, irriflessiva e impulsiva. L’Edipo di Citti si propone come un’eroe anti-intellettuale, caratterizzato da un netto offuscamento della dimensione razionale -rispetto a Sofocle– e viceversa viene analizzato nelle sue pulsioni inconsce, nei suoi tic corporei che emergono in una natura arcaica e tutta fisica. Una dicotomia tra corporale e razionale che pervade anche Medea, anch’esso prodotto di una rilettura rispetto all’originale euripideo, tesa – secondo Fusillo – a mettere in primo piano lo scontro fra culture, ovvero il contrasto tra quella primitiva, magica e sacrale di Medea e quella moderna, razionale e borghese (nel suo formarsi) di Giasone in un film evidentemente fondato sulla logica del doppio, del duplice, della dicotomia oppositiva tra due mondi in antitesi – quello pragmatico, razionalista, desacralizzato, dominato dalla parola e basato su una temporalità lineare greco e quello dominato dal sacro e caratterizzato da un tempo ciclico (riflesso in immagini curvilinee, oblique e circolari) della Colchide. Profondamente intrisa delle ossessioni pasoliniane risulterà non a caso la scena del contatto archetipico, quella in cui le due polarità si trovano a contatto: l’innamoramento avviene in un tempio e scaturisce senza scambio dialogico, senza parole. Questa scena esplicita al massimo, secondo Fusillo, la pasoliniana “sfiducia nel Logos”, la sua aspirazione a un cinema non verbale basato su fisicità, onirismo, forza barbarica che sublimi la nostalgia per uno stato prelinguistico e prerazionale (per lo stesso motivo nei primi film usa il dialetto, sentito come più vicino alla sacralità della comunicazione arcaica).
Quest’attenzione per la letteratura (non solo teatrale), riplasmata in concordanza con le proprie personali ossessioni, plasma anche quella trilogia della vita che prende il via nel 1971 con Il Decameron e continua fino al 1974 con I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte e che nella sua totalità si propone -di nuovo- come un’esaltazione dell’esistenza nelle sue componenti gioiose, carnali, legate al gioco, al divertimento, all’appagamento delle passioni, al sesso e al cibo. In pratica una celebrazione della vita nelle sue componenti istintuali e anti-razionali, un’esistenza bucolica e agreste che Pasolini riteneva ancora esistente nel Meridione, capace di preservare attraverso il ritmo ciclico e sospeso del proprio incedere quell’innocente, eterogenea e poliglotta molteplicità italiana minacciata dal livellante consumismo mediatico e televisivo. Nel 1975, comprendendo in modo rassegnato e definitivo che quello stupro culturale ormai in atto aveva raggiunto un punto di non ritorno, che quella vitalità istintiva e legata ai ritmi quieti della natura e il complesso agglomerato di tradizioni, linguaggi e saperi locali, eco di un mondo puro e arcaico, non potevano sopravvivere in un mondo mass-mediale capace di omogeneizzare e narcotizzare su larga scala un’intera nazione, Pasolini abiurò la trilogia della vita e progettò il suo controcanto nella mai conclusa trilogia della morte di cui riuscì a realizzare solo il primo capitolo, il celebre Salò o le 120 giornate di Sodoma, nato ancora una volta dall’adattamento di un’opera letteraria (Le 120 giornate di Sodomadi De Sade) nel tragico contesto della Repubblica di Salò durante la Seconda Guerra Mondiale. Organizzato in quattro parti, in un crescendo terrificante di violenza e disgusto, il film descrive le sevizie perfettamente pianificate da quattro “signori” a un gruppo di giovani italiani, ritratti in uno stato di totale annientamento psichico, come lobotomizzati da uno stile di vita irrimediabilmente teso all’isolamento, all’autismo e alla sottomissione nei confronti di un sistema di potere invisibile e privo di volto. Il capolavoro di Pasolini si costituiva -tra le altre cose- come l’agghiacciante metafora di un paese seviziato da quel terribile e onnipervasivo strumento di controllo costituito dalla televisione, responsabile di un’uniformazione generalizzata e di una progressiva perdita di identità, corporeità e vitalità. L’accoglienza fu devastante e la valenza allegorica e profondamente lungimirante della pellicola non venne compresa. Fu aperto un procedimento penale nei confronti del produttore Alberto Grimaldi e si diede il via a un’odissea che terminò solo nel 1991. A cui Pasolini non poté assistere: nella notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975 fu barbaramente ucciso a Ostia da uno di quei sottoproletari della periferia romana che nei suoi film e nei suoi romanzi aveva narrato tante volte, privando l’Italia di una delle più grandi personalità artistiche e intellettuali del secolo scorso.
“Debitore della lezione pasoliniana” -anche a causa di una diffusa tradizione accademica che li vuole apparentati artisticamente- è un epiteto con cui viene spesso erroneamente etichettato il cinema di Bernardo Bertolucci, soprattutto in virtù di quell’esordio al lungometraggio costituito da La commare secca, scritto dallo stesso Pasolini e imperniato sulle vicende di alcuni rappresentanti della Roma popolare analizzate da un tutore della legge alla ricerca dell’omicida di una prostituta. In realtà più che l’attenzione propriamente pasoliniana per la vitalità sottoproletaria o per l’analisi sociale del mondo invisibile degli sconfitti della periferia romana, Bertolucci struttura il suo esordio attraverso una struttura insolita basata sul progressivo susseguirsi dei flashback dei sospettati, che rispondono alle domande di un maresciallo mai mostrato in campo, raccontando da punti di vista drasticamente diversi un arco di tempo molto limitato. Un pattern narrativo che non può che richiamare alla mente Rashomon il celebre capolavoro di Akira Kurosawa leggibile come un’interrogazione rigorosa sui concetti incerti e labili di verità e realtà, che già nel 1950 si poneva come imprescindibile punto di riferimento per la modernità filmica.
Sin dall’inizio della sua carriera dunque, e a dispetto delle accuse di pasolinismo che sorsero all’epoca, Bertolucci si fa latore di un progetto cinematografico propriamente personale. Da intellettuale cinephile, amante del cinema -soprattutto francese- a lui contemporaneo e dunque attratto dalla rivoluzione operata dalla Nouvelle Vague nei modi di fare e intendere la settima arte, il regista parmense si svincola dalle claustrofobiche etichette estetiche che potevano derivare dal suo legame professionale con Pasolini (a cui aveva fatto da aiuto-regista per Accattone) e plasma il suo cinema sui modelli del nascente cinema moderno (francese e -nel caso della Commare secca– giapponese) proponendosi immediatamente come il più internazionale degli autori italiani, lontano dalla “fame di realtà” o dall’analisi sociale propria di Pasolini o del cinema politico di autori come FrancescoRosi ed Elio Petri e altrettanto distante dalla tendenza onirica e simbolista di un Fellini. Nel suo sforzo di narrare lo sterminato quanto instabile spettro dell’animo umano, di penetrare la psiche e il sentire di personaggi in crisi, coinvolti in cambiamenti drastici di fronte ai quali si rivelano impotenti, nel suo procedere per dicotomie, giustapponendo l’immensità della Storia, la grandezza accerchiante degli eventi collettivi con l’altrettanto abissale profondità della quotidianità individuale, Bertolucci si pone come uno dei massimi esponenti italiani del modernismo cinematografico, in questo senso accostabile -se proprio è necessario far similitudini- più che a Pasolini a cineasti come Michelangelo Antonioni -che come abbiamo avuto modo di notare nell’episodio a lui dedicato è per eccellenza il cantore nostrano del “moderno” e insieme l’autore italiano più “europeo”- o al Rossellini di Stromboli, Europa ’51e Viaggio in Italia, tutti film imperniati capaci di evidenziare il guado modernista da un occhio vigile su un mondo da ricostruire a uno immerso nelle anime dilaniate dei personaggi della Bergman.
Un cinema dunque proiettato nel lacerato e perennemente instabile limbo di un intimo nascostamente influenzato dalla grandi pagine di una Storia inafferrabile, nella sfera inquieta e devastata degli umori personali: dalle contraddizioni del Trintignant fascista che ne Il conformista fa dell’apparenza il suo principio ispiratore e in un mondo in cui “tutti vorrebbero sembrare diversi dagli altri” decide di somigliare a tutti, alle tensioni, le passioni e i turbamenti che animano una fattoria emiliana descritta nella sua evoluzione durante la prima metà del XX secolo nel fluviale e straordinario Novecento; dal morboso, gelido e insieme appassionato legame che unisce (e divide a fasi alterne) una madre sola e un figlio eroinomane neLa luna, al complesso itinerario di crisi e rinascita amorosa di una coppia inglese strappata all’algido conformismo britannico e immersa nelle sterminate e pulsanti distese africane de Il tè nel deserto. Senza dimenticare il film che probabilmente resta l’apice e il paradigma più esemplare del cinema moderno di Bernardo Bertolucci, la pellicola che più evidenzia quei caratteri di rottura, anticonformismo e innovazione che già la Nouvelle Vague aveva fissato come criteri di riferimento di un’arte rinnovata. Un opera-spartiacque, spesso ricordata esclusivamente per il clamore mediatico e la serie di scandali a cui ha dato -e ahimé continua a dare- vita e in realtà imprescindibile per la straordinaria -e raramente eguagliata nella storia del nostro cinema- capacità di proporre un canone cinematografico nuovo, diverso, animato da un’intrinseca volontà di ribellione strutturante allo stesso modo strutture e contenuti, tecnica e tematiche. Si tratta ovviamente di Ultimo tango a Parigi, capolavoro torbido e burrascoso, passionale ed esasperato, condannato a più riprese dalla censura che ne ordinò il rogo prima di riscattarlo quindici anni più tardi. A far nascere la contesa fu il carattere decisamente peculiare della pellicola che si apre con un rapporto sessuale tra due sconosciuti e prosegue su una lunghezza d’onda fortemente improntata alla carnalità, con un picco raggiunto in una scena di sodomizzazione con l’uso del burro.
Come per tutte le grandi opere, ovviamente, a un’accoglienza piuttosto dura seguì presto una rivalutazione che fece giustizia, riconoscendole pieno statuto artistico. Fu la critica americana Pauline Kell a riscontrare per prima la grandezza del film di Bertolucci, definendolo sul New Yorker “the most liberating movie ever made”, evidenziando non solo il carattere liberatorio della narrazione che, coraggiosamente, sfatava il tabù del sesso e lo confermava come immancabile -ma fino ad allora sempre aggirato, nel cinema- componente della relazione amorosa, ma soprattutto la forte carica di libertà e ribellione che il film opponeva alle sclerosi della classicità cinematografica, al canonico sistema dei generi e all’ipocrisia dei valori sociali precostituiti. Tale liberazione che Ultimo tango attua nei confronti delle strutture narrative tradizionali appare evidente già a un’analisi superficiale della trama. L’intreccio è praticamente inesistente, mancano nodi problematici, ostacoli, tutto si risolve nel complesso dei rapporti -amorosi e non- che legano i protagonisti tra loro e con altri comprimari: più che di fronte a una storia (nel senso hollywoodiano di percorso narrativo caratterizzato da un’evoluzione fenomenologica governata da legami causali), siamo di fronte a una situazione. Gli stessi personaggi diventano presenze prive di nome (quel che Roland Barthes definiva “resto prezioso”, ultimo depositario di individualità) e si fanno portatori di psicologie complesse, spesso indecifrabili come il cinema della modernità vuole. Spariscono, in Ultimo tango, anche la chiarezza e l’invisibilità del cinema tradizionale; la regia di Bertolucci si fa sentire attraverso movimenti azzardati e immotivati, i particolari vengono spesso offuscati, nascosti (frequente l’espediente di riprendere oggetti o persone attraverso la superficie di finestre o vetrate deformanti), la macchina da presa si disinteressa in più occasioni dei personaggi, adagiandosi a caso su porte o elementi d’arredo, la musica rabbiosa e dissonante violenta le immagini più che accompagnarle.
Una simile libertà anticonformista prende d’assalto la stessa struttura della love story tradizionale. Il romanticismo lascia spazio alla fisicità barbarica: i due amanti si incontrano per la prima volta in un cesso pubblico, poi in un locale vuoto e spoglio che diventerà una gabbia amorosa estranea allo scorrere del tempo e delle cose. Le presentazioni, i rituali, tutto scompare. L’amore inizia dal sesso e si configura come sublimazione di due corpi anonimi in una sola essenza, come rapporto eterno capace di estraniarsi dal flusso della storia (“Non abbiamo bisogno di nomi qui dentro. Dimenticheremo tutto ciò che sappiamo, tutto. Cose, persone, gli altri, tutto ciò che siamo stati. Gli amici, la casa. Dobbiamo dimenticare ogni cosa”). Proprio a questa esigenza di sovvertire i canoni della classica love story va ricondotto il personaggio di Tom (interpretato da Jean-Pierre Leaud, non a caso volto simbolo della Nouvelle Vague francese), regista e fidanzato di Jeanne che cerca di filmare una “storia d’amore pop”, classica nella sua banalità affrettata e priva della tensione che caratterizza quella tra la stessa ragazza e Paul, con tanto di baci alla stazione del treno, passeggiate romantiche e gioiosi preparativi per il matrimonio. Bertolucci fa di questa “relazione pop” il contraltare attraverso cui deridere e stigmatizzare le banalità della love story hollywoodiana. Esemplare a questo proposito la scena -a prima vista insignificante- del rapido litigio consumato da Jeanne e Tom sulla banchina del metrò, rappresentazione ironica di una crisi amorosa che sfocia negli schiaffi e subito si risolve pacificamente, e metafora ironica dell’inconcludente banalità del cinema commerciale. Diversamente viene concepita la storia di Paul e Jeanne che, nonostante riesca a palesare in modo quasi palpabile la potenza del sentimento, ha tutto per essere anticonvenzionale. Dai modi in cui evolve e alla voluta anonimia di chi la vive, dal topo che infesta il letto degli amanti al celebre ultimo tango che, lungi dal costituirsi come danza della passione, finisce per diventare un balletto sgangherato e ubriaco.
L’ultimo carattere che aiuta a plasmare il film sotto il segno dell’anticonformismo è, infine, la vibrante vena critica che si scaglia animosamente contro tutti le istituzioni-cardine della società occidentale: dalla religione al potere bellico (“Tutte le uniformi sono merda”), dall’infanzia (“I bambini sono peggio dei grandi: fanno la spia, non sanno ammirare che l’autorità, si vendono per una caramella”) alla famiglia (“Santa famiglia, sacrario di buoni cittadini, dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia, dove la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo”). In questo senso, l’albergo-bordello che Paul gestisce e nel quale conserva la salma di una moglie adultera dalla quale non riesce a separarsi, diventa l’oscuro simulacro di tutti i mali di una società che rotola: puttane, drogati, spacciatori.
La volontà di rottura, libertà e ribellione che anima Ultimo tango a Parigi, dunque, è ben più profonda di quanto molta critica ha pensato di segnalare, individuando banalmente tutto lo spietato spirito antiautoritario del film nel presunto pansessualismo che pare animarlo.
Per chi scrive, il carattere anticonformista del capolavoro di Bertolucci continua a stare soprattutto nella capacità -mai più espressa in modo così intenso- di rappresentare lo stato di grazia dell’amore in modo nuovo, vero, tramite l’attrito ruvido di due corpi sconosciuti in una casa vuota e attraverso quella domanda pronunciata dall’indimenticabile Paul di Marlon Brando (“Andrò a comprare un porco e ti farò scopare da quel porco, ti farò vomitare addosso da quel porco e ti farò ingoiare il suo vomito. Poi scannerò quel porco mentre ti sta scopando e poi ti farò annusare le sue budella mentre sta morendo. Lo faresti tutto questo per me?”) seguita dalla celebre risposta della Jeanne di Maria Schneider (“Sì, lo farò. E di più anche”).
Ma la fortuna del cinema italiano del boom economico fu fatta anche e soprattutto da quell’eterogeneo complesso di opere e registi che attraverso il filtro della leggerezza ironica e appassionata si propose di illustrare le contraddizioni dell’Italietta che si faceva potenza industriale o più universalmente il ritmico oscillare dell’esistenza tra vita e morte, paradiso e inferno. Un orientamento inizialmente poco compreso ma successivamente riabilitato tra le luminose vette del grande cinema italiano sotto la macro-categoria di “commedia all’italiana”, nata dalle ceneri del neorealismo rosa di De Sica e Zavattini, abile nel fondere il dato umano e sociale con una tendenza ironica se non propriamente visionaria, e portata ai suoi vertici da autori straordinari come Mario Monicelli, Dino Risi, Pietro Germi ed Ettore Scola dei quali purtroppo non potremo che ripercorrere in modo rapido e incompleto le folgoranti carriere, rinviandovi alle filmografie integrali elencate a fine articolo per riscoprire il fascino delle loro magnifiche opere.
Nel suo complesso, la commedia all’italiana si mosse in modo trasversale, abbracciando generi e stili sempre differenti, mantenendo però come punto di riferimento insostituibile lo scandaglio della società italiana dal dopoguerra agli anni ’70, componendo forse l’affresco più sincero, dolorosamente affezionato e affettuosamente critico di una nazione che, sotto la superficie di una conquistata modernità capitalistica, conservava le radici stantie di una mentalità incapace di stare al passo coi tempi, di un divario mai sanato tra nord e sud.
I film ricollocabili nell’orizzonte della grande commedia all’italiana si fecero coraggiosi interpreti di tutti gli spinosi interrogativi dell’Italia post-boom economico e spesso aprirono le danze per un dibattito che accoglieva in sé le più disparate facce dell’opinione pubblica, instillandosi in modo definitivo nella memoria collettiva di un paese in crescita.
E’ al 1958, con l’uscita deI soliti ignoti, che viene fatta risalire la nascita di questo “genere” propriamente italiano, in cui la commedia abbandona i toni caricaturali e “da varietà” e i personaggi svestono la classica caratterizzazione teatrale da “maschera comica”, trasformandosi in gente comune, colta all’interno di una diegesi che si fa specchio di una contemporaneità in bilico tra vecchio e nuovo, tradizione e condizionamenti culturali esterni. La stessa scelta di Monicelli di far convivere sul set un’ormai leggendaria icona del comico come Totò e tutta quella serie di giovani interpreti -tra cui Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Renato Salvatori– che della nuova ondata del cinema italiano diventeranno i protagonisti assoluti, segna metaforicamente un passaggio forte e programmatico, una transizione rigorosa da un vecchio modo a uno nuovo e frizzantemente attuale di fare commedia.
Ma se il capolavoro di Monicelli, incentrato sull’organizzazione e la realizzazione di un furto da parte di un esiguo gruppetto di delinquentelli romani, segna la genesi della commedia all’italiana,la denominazione di questa macro-categoria filmica tutta italica viene desunto a posteriori dal Divorzio all’italianadi Pietro Germi, che attraverso una struttura propriamente riferibile al genere comico, riflette -come farà Pasolini nel suo straordinario documentario Comizi d’amore– sulla scottante questione della legge sul divorzio -che in Italia arriverà solo nel 1970- e su quella altrettanto assurda del delitto d’onore, aggredendo attraverso il filtro del sarcasmo l’arretratezza legislativa italiana ed enfatizzando su celluloide il divario di mentalità che separa nord e sud.
D’altronde i temi della famiglia, dell’adulterio, della sessualità si costituiscono come leitmotiv fissi della commedia all’italiana, attraversando trasversalmente opere come Romanzo popolaredi Monicelli, Sedotta e abbandonatadi Germi, Dramma della gelosia e Brutti, sporchi e cattividi Ettore Scola, Io la conoscevo benedi Antonio Pietrangeli; spesso connessi a una sbandierata critica alle istituzioni, alla difficoltà di emergere all’interno di un mondo senza scrupoli dominato da corruzione, cinismo e arrivismo perfettamente raffigurato in opere come Una vita difficile di Dino Risi o Il medico della mutuadi Luigi Zampa, entrambi imperniati sulla figura gigiona del mitico Alberto Sordi, volto-cardine del cinema italiano di quegli anni.
Un altro carattere fortemente innovante del nuovo filone cinematografico è inoltre l’irruzione -nell’universo della commedia- della morte, legata alla nostalgia di un mondo scomparso, alla malinconia di un’era passata, alla tragica consapevolezza dell’inevitabile scorrere del tempo e degli affetti. Tutti elementi tematici la cui “densità” si potenzia e cresce in modo quasi proporzionale al passare degli anni. Da momento isolato, spesso collocato in chiusura, nei film degli anni ’50 e ’60 come Il sorpassodi Dino Risi o La grande guerrae L’armata Brancaleonedi Monicelli, la morte si trasforma in un fantasma invisibile e strisciante, capace di strutturare l’intero flusso filmico caricandolo di note tragiche, impregnate di rimpianto, nostalgia e dolore, nelle pellicole più tarde (anni ’70 e ’80) tra le quali è impossibile non citare quel meraviglioso affresco di un trentennio italiano che è C’eravamo tanto amati di Scola oltre che Un borghese piccolo piccoloe il dittico di Amici miei di Monicelli, veri e propri canti del cigno in cui il dramma finisce inevitabilmente e definitivamente per prevalere sulla leggerezza, in un riflesso della mutata condizione storico-sociale in cui la saturazione delle contraddizioni del boom, giunta a un punto di non ritorno, ha frantumato in modo tragico le speranze in un futuro di crescita, instaurando la consapevolezza di un’inevitabile -e ahimé tuttora visibile- regressione.
Riepilogando la complessa poliedricità del grande cinema italiano post-boom economico -un percorso il mio, lo ammetto, programmaticamente costellato di imperdonabili ma necessarie esclusioni (da Ermanno Olmi al sottostimato Mauro Bolognini, da Valerio Zurlini a Marco Bellocchio)- è impossibile non dedicare qualche riga al più controverso e anticonvenzionale autore nostrano che la storia ricordi, nato artisticamente sotto i dettami della commedia all’italiana, viziati però dai miasmi vibranti di una poetica personalissima, condizionata fortemente dai principi delle filosofie pessimiste e vagamente accostabile al quella diLuis Buñuel. Sto parlando di Marco Ferreri, cineasta acclamato dalla critica europea e odiatissimo in patria, cantore privilegiato del male di vivere, della disumanizzazione operata dalle società capitalistiche, dell’alienazione provocata da uno stile di vita consumistico, e dissacratore di tutti i valori della civiltà occidentale e borghese. Sin da quell’esordio italiano costituito da L’ape regina infatti Ferreri si opera nel lanciare violente e feroci bordate contro l’istituzione ecclesiastica, gli incomprensibili dettami morali del cattolicesimo ma soprattutto nell’irridere con un sarcasmo che sfocia nella tragedia lo stato di coppia, il matrimonio e in generale le relazioni umane, dichiarando con la didascalia che apre il film di voler rappresentare “in chiave paradossale e satirica quanto squallida è una vita matrimoniale deviata da una volgare ed egoistica concezione del piacere e da un formalismo bigotto, frutto di una interpretazione del tutto superficiale ed esteriore dei solidi ed immutabili principi della morale e della religione”. Insomma, un’affermazione chiara e programmatica dell’impossibilità della relazione tra sessi e più universalmente tra esseri umani che pervade con forza distruttiva tutta la sua filmografia. Si pensi alla Deneuve deLa cagnache sveste i panni dell’amante di un Mastroianni alienato -unico abitante di un’isola deserta- e si degrada al ruolo di vero e proprio animale domestico oppure al Tognazzi meschino e arrivista de La donna scimmia che sposa un’orfana ricoperta di peli per sfruttarla come fenomeno da baraccone, senza dimenticare il Depardieu dell’Ultima donna, che nell’evirarsi con un coltello elettrico nega la possibilità di formazione di un nucleo familiare oppure quello di Ciao maschio, padre privo di valori che preferisce prendersi cura di una piccola scimmia piuttosto che di sua figlia. Fino, ovviamente, a quel vertice apocalittico rappresentato da Il seme dell’uomo,costruito come (il raro caso riuscito di) fantascienza distopica minimalista, in cui gli ultimi esseri umani sopravvissuti a un’ignota catastrofe si ritrovano a dover ripopolare una terra che nel finale si sgretola sotto i loro piedi, negando la possibilità di continuazione della specie. Eppure è probabilmente con La grande abbuffatae soprattutto Dillinger è mortoche Ferreri mette a punto una vera e propria sintesi della sua riflessione disperata e nichilista sull’esistere. Con il primo, il regista milanese si lega concettualmente al Salòpasoliniano, e opera una sorta di ripresa variata e traslata alla contemporaneità di alcuni spunti delle 120 giornate di Sodomadi Sade, mettendo in scena la storia di quattro ricchi borghesi che decidono di porre fine alla propria noiosa vita, ritirandosi in una villa per mangiare fino alla morte. I 130 minuti di pellicola si trasformano così nella successione di un catalogo disturbante e demonicamente liturgico di eccessi corporali: lo stile di vita borghese viene ridotto dal regista a un’inquietante e sgradevole progressione di funzioni elementari, l’esistenza viene evidenziata nelle sue componenti scatologiche e contemporaneamente la società dei consumi -di cui i quattro protagonisti sono i perfetti depositari- viene riletta come una spirale marcia e difettosa, inevitabilmente tendente all’insofferenza, al suicidio, all’autodistruzione.
Con Dillinger (di tre anni precedente) la stessa apocalissi dell’uomo e del suo mondo viene professata nei modi di un film che rasenta lo sperimentale, con la macchina che bracca per 95 minuti i movimenti inutili e annoiati di un ingegnere industriale quasi sempre solo sulla scena, perso tra gli oggetti insignificanti di un abitazione che si fa sineddoche del generalizzato universo consumista, passivamente subordinato al rumore assordante della televisione (che annuncia, appunto, la morte di Dillinger) e al flusso luminoso di un proiettore che duplica le immagini della sua vita, in un riferimento alla disgregazione (e dunque confusione) identitaria causata da un mondo dominato da una smodata proliferazione di immagini virtuali. Un “happening notturno sulla nevrosi” (come lo definisce Morandini) che racconta una realtà malata da cui -come testimonia il disperato finale che vede il protagonista salire su una nave diretta verso un’orizzonte palesemente fittizio- non è più possibile scappare.
Altro nome imprescindibile del grande cinema italiano sviluppatosi a partire dal 1960 è poi ovviamente quello di Sergio Leone, cineasta leggendario entrato di diritto non solo nella storia della settima arte ma in generale in quella del costume grazie a una filmografia compatta ma decisamente esigua, costituita da appena sei film (se si escludono i due -decisamente meno interessanti- peplum che accettò di dirigere a inizio carriera), tutti diventati nel giro di mezzo secolo cult insostituibili, marchiati a fuoco nella mente e nel cuore di ogni cinefilo e omaggiati a più riprese da generazioni di cineasti. Se il cinema di Bertolucci -insieme a quello di Antonioni– costituiva l’anelito italiano alla modernità europea, quello di Leone si dà nella sua globalità come un atto ancor più fondativo e -insieme- distruttivo, capace cioè di superare le istanze del modernismo per porsi come punto di partenza di quella postmodernità (la cui definizione rigorosa resta tuttora un nodo teorico controverso, sfaccettato e fin troppo abusato di cui ci occuperemo nell’ultimo episodio del nostro viaggio) che si dà come orizzonte estetico di esistenza della maggior parte del cinema contemporaneo. I caratteri di mescolanza, revisionismo e citazione propri di tanto cinema odierno sono presenti in nuce già nei celeberrimi episodi della trilogia del dollaro leoniana. Il silenzioso protagonista interpretato in tutti e tre i film da un giovane Clint Eastwood (che proprio a Leone deve la sua ascesa folgorante) si presenta come un uomo senza nome, come un antieroe su cui grava un ego ingombrante e opportunista, incapace di scegliere una posizione univoca tra l’emisfero dei buoni e quello dei cattivi e libero anzi di muoversi a suo piacimento in un West selvaggio che galleggia nel sangue (secondo una linea revisionista già percorsa da Peckinpah), tra sterminati deserti della morte e territori di frontiera che non valgono più per sé stessi ma come omaggi citanti espliciti a un genere morente o ad altri universi artistici e diegetici (si pensi solo a Per un pugno di dollari che si costituisce come un volontario remake de La sfida del samurai di Kurosawa). Una tendenza che si amplifica in Giù la testa ma soprattutto nel magnifico C’era una volta il West, ultima decostruzione possibile del mito della frontiera, canto del cigno del western propriamente detto oltre che nostalgica, citante e rassegnata riflessione sulla fine di un’era (anche cinematografica). Ma è senza dubbio con il colossale e definitivo C’era una volta in Americache il progetto leoniano si articola in tutta la sua potenza e lungimiranza.
Con i suoi duecentoventi minuti (diventati duecentoquaranta con la versione restaurata del 2011) di scene girate in tre stati (USA, Italia e Francia), le centinaia di comparse e un progetto di lavoro decennale (la leggenda vuole che nel 1984 Robert De Niro fece coniare una serie di medagliette ironiche con su scritto “Complimenti, siete sopravvissuti alla lavorazione di C’era una volta in America!”), l’ultimo -e più grande- film di Leone mette fine a un’era della storia del cinema e, come una cicatrice mai rimarginata, decreta l’adozione di una nuova coscienza estetica, imponendosi nell’immaginario collettivo come una delle più rilevanti opere cinematografiche mai realizzate. In effetti, l’unico termine in grado di racchiudere tra i ticchettii di una tastiera la grandezza di C’era una volta in America è la sua ineffabilità. L’opera-testamento di Sergio Leone rifugge da ogni giudizio di sorta, dalla soggettività di ogni interpretazione, per porsi al di sopra di una qualsiasi scala di valori. Si tratta di un film-evento o di un film-vita, capace di ricatalogare su celluloide l’intera esperienza artistica ed esistenziale del grande maestro romano (“Questo film sono io. Non sarebbe stato lo stesso se l’avessi girato a quarant’anni perché è un film sulla memoria, sulla solitudine, la morte e il tempo che passa”), in grado di esibire un immenso compendio alla cultura -cinematografica e non- dell’intero XX secolo e allo stesso tempo di fungere da indispensabile chiave di volta per la nascita di quel “cinema postmoderno” che proprio oggi si esprime ai suoi livelli più alti. Una mistione di omaggio al passato e inevitabile propensione al futuro, dunque. Dialettica questa, che riecheggia e si amplifica a livello diegetico all’interno della stessa narrazione filmica. In C’era una volta in America, infatti, i tempi già dilatati dei precedenti C’era una volta il West e Giù la testa (tradizionalmente accomunati con l’ultimo film di Leone in un’ipotetica trilogia del tempo) si sfaldano del tutto, si aggrovigliano in una matassa complessa come i meccanismi della memoria, si spostano e ritornano su sè stessi dimostrando come nulla è mai ciò che sembra. Più che riferirvisi indirettamente, C’era una volta in America incarna materialmente il tempo con la sua vertigine. Lo fa attraverso la stessa struttura narrativa: l’epopea gangster di Noodles, Max, Patsy e Cockeye si sviluppa in una cronologia impazzita e labirintica che fa esplodere ogni riferimento sicuro in un gioco di scatole cinesi in cui il presente sembra cessare di esistere. Le stesse indimenticabili sequenze, i dialoghi o più semplicemente gli oggetti di scena sottolineano la rilevanza dell’elemento tempo, quella del ricordo e del rimorso, capaci di diventare protagonisti assoluti ancor prima di quelli in carne ed ossa. Così gli orologi ricorrono nelle scene iniziali con un intensità magnetica e le fotografie costituiscono il leitmotiv ricorrente dell’angusto locale di Fat Moe (“Cosa hai fatto in tutti questi anni?”; “Sono andato a letto presto.” ). I primi o i primissimi piani, così peculiari del cinema di Leone, incanalano negli occhi il peso del ricordo e per tutta la durata del film, diventano gli strumenti delegati a preannunciare i salti temporali. E proprio in questa struttura cronologica, vorticosa e slabbrata, uniformata dall’indimenticabile colonna sonora – una delle migliori mai realizzate- di Ennio Morricone (che collaborò a tutti i film di Leone, esclusi i peplum), il regista romano fa rinascere una New York scomparsa e riporta alla luce cinquant’anni di storia americana. Ispirandosi al romanzo semi-autobiografico del gangster Harry Grey (all’anagrafe David Aaronson), Leone evoca Proust e costella il film di riferimenti alla psicanalisi di Freud (“Corri Noodles, che mamma ti vuole!”), guardando nel frattempo alla grande storia del cinema passato (“Guardare C’era una volta in America è stato come aprire un’enciclopedia sul cinema” dirà Tarantino molti anni dopo la sua uscita) e facendo convergere nel suo fluviale e testamentario affresco le strutture temporali frante e rielaborate dal ritmo soggetto della memoria del Quarto potere di Orson Welles, dell’8½ di Fellini , passando per quelle dell’Alba tragica di Marcel Carnè o di Hiroshima mon amour di Alain Resnais. Il tutto senza perder di vista la propria personalissima vena autoriale, coronata in quella tensione epica -e quasi biblica- di cui colora alcune scene pressochè indimenticabili tra bambini mai cresciuti e poliziotti corrotti, violenza che si fa valere a suon di piombo, ingordigia, asfalto, soprusi sessuali, vecchi teatri di ombre e fumerie d’oppio. Proprio in una fumeria d’oppio il film si apre ed esattamente nella stessa finisce, chiudendo circolarmente sull’inquadratura dall’alto di un sorriso drogato ed eterno del protagonista Noodles. E’ proprio quel sorriso a frantumare di nuovo il puzzle intricato che poco prima lo spettatore sembrava aver definitivamente ricostruito una volta per tutte. La scena finale getta perciò un alone di mistero sull’intero significato della pellicola e la apre a nuove infinite interpretazioni, compresa quella di non averne nessuna davvero oggettiva. Ed è esattamente la strada del finale aperto quella che il maestro Leone sembra suggerire, salvo poi ricordare il curioso aneddoto per il quale, dopo la sera della prima nel 1984, alla richiesta di chiarimenti di uno spettatore entusiasta, il regista rispose fermamente “Vede, il film inizia e finisce in una fumeria. Quindi potrebbe anche essere che tutta la vicenda non sia stata altro che una…”. Lo spettatore lo pregò di non continuare, preferendo cullarsi nella speranza della veridicità di tutta la vicenda, così carica di valori morali e simbolici. E in ogni caso, qualunque sia la nostra personalissima interpretazione, il valore epocale della pellicola di Leone sta prima di tutto nell’aver proposto un nuovo modo di fare cinema: rifiutando la linearità consequenziale (ripristinata nella prima edizione americana, che tagliò inoltre quasi due ore di girato e non a caso fece flop), adeguando la narrazione all’incantato ritmo della memoria, facendo dell’omaggio e della citazione delle strutture discorsive di riconosciuta rilevanza estetica, ponendo per la prima volta la molteplicità, il potenziale e non più l’essere e la presenza univoca (di matrice positivistica) come orizzonte dell’essere al mondo, il maestro romano pose di fatto le basi per la (quasi) totalità della produzione autoriale contemporanea, autodecorandosi inevitabilmente come primo regista postmoderno della storia. Cioè come padre fondatore di un cinema che riflette il disordine meticcio del nostro mondo mass-mediale, dominato da una sempre più incontrollata frammentazione delle identità causata dalla moltiplicazione virtuale dell’esistenza su più livelli, e di conseguenza riproduce l’impossibilità di percepire la realtà attraverso un punto di vista unitario. Di un’arte in cui è sostanziale la proliferazione di temporalità differenti e convergenti come di chiavi di lettura innumerevoli, prive di gerarchie e di una qualsiasi possibilità di soluzione. In questo senso C’era una volta in America si propone come archetipo primo del cinema contemporaneo, modello di riferimento a cui non è affatto difficile accostare opere a prima vista lontane anni luce per generi e temi trattati. Le strategie di fondo di un film come Pulp Fiction o, traslando l’argomentazione su un territorio quanto mai distante dal cinema tarantiniano, Mulholland Dr. sono ancora legate con un indelebile filo rosso all’ultimo straordinario capolavoro di Sergio Leone che morì cinque anni dopo l’uscita di tale opera totale in cui aveva concentrato tutto il suo essere. “Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film ma vedo il mio…non ho mai visto De Niro sul set ma sempre il mio Noodles”.
Stefano Oddi
FILMOGRAFIA PARZIALE
PIER PAOLO PASOLINI
- Accattone (1961)
- Mamma Roma (1962)
- La ricotta (1963)
- La rabbia (1963)
- Comizi d’amore (1964)
- Il Vangelo secondo Matteo (1964)
- Uccellacci e uccellini (1965)
- Edipo re (1967)
- Teorema (1968)
- Porcile (1968-1969)
- Medea (1969)
- Il Decameron (1971)
- I racconti di Canterbury (1972)
- Il fiore delle Mille e una notte (1974)
- Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)
BERNARDO BERTOLUCCI
- La commare secca (1962)
- Prima della rivoluzione (1964)
- Partner (1968)
- Il conformista (1970)
- Strategia del ragno (1970)
- Ultimo tango a Parigi (1972)
- Novecento (1976)
- La luna (1979)
- La tragedia di un uomo ridicolo (1981)
- L’ultimo imperatore (The Last Emperor) (1987)
- Il tè nel deserto (The Sheltering Sky) (1990)
- Piccolo Buddha (Little Buddha) (1993)
- Io ballo da sola (Stealing Beauty) (1996)
- L’assedio (Besieged) (1998)
- The Dreamers – I sognatori (The Dreamers) (2003)
- Io e te (2012)
SERGIO LEONE
- Il colosso di Rodi (1961)
- Per un pugno di dollari (1964)
- Per qualche dollaro in più (1965)
- Il buono, il brutto, il cattivo (1966)
- C’era una volta il West (1968)
- Giù la testa (1971)
- C’era una volta in America (1984)
MARIO MONICELLI
- I ragazzi della via Paal (1935)
- Pioggia d’estate (1937)
- Totò cerca casa (1949)
- Al diavolo la celebrità (1949)
- È arrivato il cavaliere (1950)
- Vita da cani (1950)
- Totò e i re di Roma (1951)
- Guardie e ladri (1951)
- Totò e le donne (1952)
- Le infedeli (1953)
- Proibito (1954)
- Un eroe dei nostri tempi (1955)
- Totò e Carolina (1955)
- Donatella (1956)
- Il medico e lo stregone (1957)
- Padri e figli (1957)
- I soliti ignoti (1958)
- Lettere dei condannati a morte (1959)
- La grande guerra (1959)
- Risate di gioia (1960)
- Boccaccio ’70 (1962) – episodio Renzo e Luciana
- I compagni (1963)
- Alta infedeltà (1964) – episodio Gente moderna
- Casanova ’70 (1965)
- Le fate (1966) – episodio Fata Armenia
- L’armata Brancaleone (1966)
- La ragazza con la pistola (1968)
- Capriccio all’italiana (1968) – episodio La bambinaia
- Toh, è morta la nonna! (1969)
- Le coppie (1970) – episodio Il frigorifero
- Brancaleone alle crociate (1970)
- La mortadella (1971)
- Vogliamo i colonnelli (1973)
- Romanzo popolare (1974)
- Amici miei (1975)
- Caro Michele (1976)
- Signore e signori, buonanotte (1976)
- Un borghese piccolo piccolo (1977)
- I nuovi mostri (1977)
- Viaggio con Anita (1979)
- Temporale Rosy (1980)
- Camera d’albergo (1981)
- Il marchese del Grillo (1981)
- Amici miei – Atto II (1982)
- Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984)
- Le due vite di Mattia Pascal (1985)
- Speriamo che sia femmina (1986)
- I picari (1988)
- Il male oscuro (1990)
- Rossini! Rossini! (1991)
- Parenti serpenti (1992)
- Cari fottutissimi amici (1994)
- Facciamo paradiso (1995)
- Panni sporchi (1999)
- Le rose del deserto (2006)
DINO RISI
- Vacanze col gangster (1951)
- Il viale della speranza (1953)
- L’amore in città – episodio Paradiso per 4 ore (1953)
- Il segno di Venere (1955)
- Pane, amore e… (1955)
- Poveri ma belli (1957)
- La nonna Sabella (1957)
- Belle ma povere (1957)
- Il vedovo (1959)
- Poveri milionari (1959)
- Venezia, la luna e tu (1959)
- Il mattatore (1959)
- Un amore a Roma (1960)
- A porte chiuse (1961)
- Una vita difficile (1961)
- Il sorpasso (1962)
- Il successo (1963)
- La marcia su Roma (1963)
- Il giovedì (1963)
- I mostri (1963)
- Le bambole – episodio La telefonata (1965)
- Il gaucho (1965)
- I complessi – episodio Una giornata decisiva (1965)
- L’ombrellone (1966)
- I nostri mariti – episodio Il marito di Attilia (1966)
- Operazione San Gennaro (1966)
- Il tigre (1967)
- Straziami, ma di baci saziami (1968)
- Il profeta (1968)
- Vedo nudo (1969)
- Il giovane normale (1969)
- La moglie del prete (1971)
- Noi donne siamo fatte così (1971)
- In nome del popolo italiano (1971)
- Mordi e fuggi (1973)
- Sessomatto (1973)
- Profumo di donna (1974)
- Telefoni bianchi (1976)
- Anima persa (1977)
- La stanza del vescovo (1977)
- I nuovi mostri – episodi Con i saluti degli amici, Tantum ergo, Pornodiva, Mammina e mammone e Senza parole (1977)
- Primo amore (1978)
- Caro papà (1979)
- Sono fotogenico (1980)
- Fantasma d’amore (1981)
- Sesso e volentieri (1982)
- …e la vita continua (1984) (TV)
- Dagobert (1984)
- Scemo di guerra (1985)
- Il commissario Lo Gatto (1986)
- Teresa (1987)
PIETRO GERMI
- Il testimone (1946)
- Gioventù perduta (1947)
- In nome della legge (1948)
- Il cammino della speranza (1950)
- La città si difende (1951)
- Il brigante di Tacca del Lupo (1952)
- La presidentessa (1952)
- Gelosia (1953)
- Amori di mezzo secolo (1954)
- Il ferroviere (1956)
- L’uomo di paglia (1958)
- Un maledetto imbroglio (1959)
- Divorzio all’italiana (1961)
- Sedotta e abbandonata (1964)
- Signore & signori (1966)
- L’immorale (1967)
- Serafino (1968)
- Le castagne sono buone (1970)
- Alfredo, Alfredo (1972)
ELIO PETRI
- L’assassino (1961)
- I giorni contati (1962)
- Il maestro di Vigevano (1963)
- Alta infedeltà, episodio Peccato nel pomeriggio (1964)
- La decima vittima (1965)
- A ciascuno il suo (1967)
- Un tranquillo posto di campagna (1968)
- Ipotesi in Documenti su Giuseppe Pinelli (1970)
- Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
- La classe operaia va in paradiso (1971)
- La proprietà non è più un furto (1973)
- Todo modo (1976)
- Le mani sporche (1978)
- Le buone notizie (1979)
FRANCESCO ROSI
- Kean – Genio e sregolatezza, co-regia con Vittorio Gassman (1956)
- La sfida (1958)
- I magliari (1959)
- Salvatore Giuliano (1962)
- Le mani sulla città (1963)
- Il momento della verità (1964)
- C’era una volta… (1967)
- Uomini contro (1970)
- Il caso Mattei (1972)
- Lucky Luciano (1973)
- Cadaveri eccellenti (1976)
- Cristo si è fermato a Eboli (1979)
- Tre fratelli (1981)
- Carmen (1984)
- Cronaca di una morte annunciata (1987)
- Dimenticare Palermo (1990)
- Diario napoletano (1992)
- La tregua (1997)
ETTORE SCOLA
- Se permettete parliamo di donne (1964)
- La congiuntura (1965)
- L’arcidiavolo (1966)
- Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968)
- Il commissario Pepe (1969)
- Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca (1970)
- Permette? Rocco Papaleo (1971)
- La più bella serata della mia vita (1972)
- Trevico-Torino – Viaggio nel Fiat-Nam (1973)
- C’eravamo tanto amati (1974)
- Brutti, sporchi e cattivi (1976)
- Signore e signori, buonanotte (1976)
- Una giornata particolare (1977)
- I nuovi mostri (1977) – episodi L’uccellino della Val Padana, Il sospetto, Hostaria, Come una regina, Cittadino esemplare, Sequestro di persona cara ed Elogio funebre
- La terrazza (1980)
- Passione d’amore (1981)
- Il mondo nuovo (La Nuit de Varennes) (1982)
- Ballando ballando (1983)
- Maccheroni (1985)
- La famiglia (1987)
- Splendor (1989)
- Che ora è? (1989)
- Il viaggio di Capitan Fracassa (1990)
- Mario, Maria e Mario (1993)
- Romanzo di un giovane povero (1995)
- La cena (1998)
- Concorrenza sleale (2001)
- Gente di Roma (2003)
- Che strano chiamarsi Federico (2013)
MARCO FERRERI
- El pisito (1958) co-regia di Isidoro Ferry
- Los chicos (1959)
- La carrozzella (1960)
- Le italiane e l’amore – episodio L’infedeltà coniugale (1961)
- Una storia moderna (1963)
- Controsesso – episodio Il professore (1964)
- La donna scimmia (1964)
- Oggi, domani e dopodomani – episodio L’uomo dei 5 palloni (1965)
- Marcia nuziale (1965)
- Corrida! – documentario (1966)
- L’harem (1967)
- Dillinger è morto (1969)
- Il seme dell’uomo (1969)
- L’udienza (1971)
- La cagna (1972)
- La grande abbuffata (1973)
- Non toccare la donna bianca (1974)
- L’ultima donna (1976)
- Ciao maschio (1978)
- Chiedo asilo (1979)
- Storie di ordinaria follia (1981)
- Storia di Piera (1983)
- Il futuro è donna (1984)
- I Love You (1986)
- Come sono buoni i bianchi (1988)
- Il banchetto di Platone (1989)
- La casa del sorriso (1991)
- La carne (1991)
- Diario di un vizio (1993)
- Nitrato d’argento (1996)
ERMANNO OLMI
- Il tempo si è fermato (1958)
- Il posto (1961)
- I fidanzati (1963)
- E venne un uomo (1965)
- Un certo giorno (1969)
- Durante l’estate (1971)
- La circostanza (1974)
- L’albero degli zoccoli (1978)
- Camminacammina (1982)
- Lunga vita alla signora! (1987)
- La leggenda del santo bevitore (1988)
- Il segreto del bosco vecchio (1993)
- Il mestiere delle armi (2001)
- Cantando dietro i paraventi (2003)
- Tickets (2005) – co-regia con Abbas Kiarostami e Ken Loach
- Centochiodi (2007)
- Il villaggio di cartone (2011)
MAURO BOLOGNINI
- Ci troviamo in galleria (1953)
- I cavalieri della regina (1954)
- La vena d’oro (1955)
- Gli innamorati (1955)
- Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956)
- Marisa la civetta (1957)
- Giovani mariti (1958)
- Arrangiatevi! (1959)
- La notte brava (1959)
- Il bell’Antonio (1960)
- La giornata balorda (1961)
- La viaccia (1961)
- Agostino (1962)
- Senilità (1962)
- La corruzione (1963)
- Madamigella di Maupin (1966)
- Arabella (1967)
- L’assoluto naturale (1969)
- Un bellissimo novembre (1969)
- Metello (1970)
- Bubù (1971)
- Imputazione di omicidio per uno studente (1972)
- Libera, amore mio… (1973)
- Fatti di gente perbene (1974)
- Per le antiche scale (1975)
- L’eredità Ferramonti (1976)
- Gran bollito (1977)
- La storia vera della signora delle camelie (1981)
- La venexiana (1986)
- Mosca addio (1987)
- La villa del venerdì (1991)
VALERIO ZURLINI
- Le ragazze di San Frediano (1954)
- Estate violenta (1959)
- La ragazza con la valigia (1961)
- Cronaca familiare (1962)
- Il paradiso all’ombra delle spade
- Le soldatesse (1965)
- Seduto alla sua destra (1968)
- Come, quando, perché (1969) terminato dopo la morte di Antonio Pietrangeli
- I gabbiani d’inverno o l’inverno sull’Adriatico (1972)
- La prima notte di quiete (1972)
- Il deserto dei tartari (1976)
MARCO BELLOCCHIO
- I pugni in tasca (1965)
- La Cina è vicina (1967)
- Nel nome del padre (1972)
- Sbatti il mostro in prima pagina (1972)
- Marcia trionfale (1976)
- Salto nel vuoto (1980)
- Vacanze in Val Trebbia (1980)
- Gli occhi, la bocca (1982)
- Enrico IV (1984)
- Diavolo in corpo (1986)
- La visione del sabba (1988)
- La condanna (1991)
- Il sogno della farfalla (1994)
- Il principe di Homburg (1996)
- La balia (1999)
- L’affresco (2000)
- Elena (2002)
- Appunti per un film su Zio Vania (2002)
- L’ora di religione (2002)
- Buongiorno, notte (2003)
- Il regista di matrimoni (2006)
- Sorelle (2006)
- Vincere (2009)
- Sorelle Mai (2010)
- Bella addormentata (2012)
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