La seconda edizione del festival C-MOVIE è giunta al termine. I tre giorni, ricchi di incontri e proiezioni, hanno generato tra gli ospiti e il pubblico grande entusiasmo. Abbiamo così avuto opportunità di intervistare la torinese Emanuela Piovano, che oltre ad essere la fondatrice e direttrice artistica del festival, è anche una grandissima regista, sceneggiatrice, produttrice e distributrice. Tra la sua filmografia troviamo Amorfù (2003), Le stelle inquiete (2011), L’età d’oro (2016) e Finale allegro, attualmente in lavorazione e con protagonista Barbara Bouchet.
L’intervista
Questa è la seconda edizione del C-MOVIE, un Festival nato da poco ma che sta progressivamente acquistando importanza. Come è nata l’idea?
L’idea è nata da un incontro. Sono venuta spesso a Rimini, una città molto attiva culturalmente. In particolare, ho fatto delle bellissime proiezioni di miei film al Tiberio, addirittura in piazza. C’è un pubblico molto attento. Ancora, sono stata anche invitata dalla vicesindaca per una giornata su Nilde Iotti, creando una docufiction sulla stessa che ha avuto un successo strepitoso.
Il mio discorso, però, non si incentra tanto sul successo, quanto sul pubblico che ha rispecchiato quello che era il nostro sogno, cioè un pubblico attento ai contenuti e che si trovava lì veramente per vedere ciò che mostravamo.
È stato bellissimo anche il dibattito con la vicesindaca Chiara Bellini. L’anno scorso c’era come presidente dell’assemblea regionale un’altra donna: Emma Petitti. Era presente anche Livia Turco, facente parte della Fondazione Iotti, che aveva sponsorizzato e finanziato questo film. Si è creato proprio un bellissimo incontro con loro. Noi come Kitchen film appena avuto un finanziamento da “Aide aux cinémas du monde” per promuovere un film arabo intitolato The Last Queen. Da qui proponemmo, in cambio di questo finanziamento, di fare un piccolo Festival, cioè un convegno sul cinema arabo e magari inserendo anche due o tre film per contestualizzarlo. Quando con la vicesindaca abbiamo discusso su dove collocare questo festival, abbiamo scelto questa cineteca che risultava così accogliente e così particolare, tanto da riportarmi indietro ai momenti del Movie Club a Torino, dove io sono cresciuta. Luogo per giunta particolare, poiché potevi andare a vedere anche dei film che nessuno trasmetteva.
Così è nato il primo C-MOVIE. Abbiamo preso i nostri tre film e l’anno scorso è stato un mero esperimento. La città ha risposto benissimo, anche le Istituzioni erano contentissime. È stato tutto completamente autofinanziato, anche perché io sono terrorizzata per certi versi, essendo stata testimone della deriva del gruppo fondatore, animatore e promotore del Torino Film Festival, aprendo una parentesi su di esso.
Il gruppo, dopo vent’anni, è stato completamente esautorato a favore di sedicenti, persone che avrebbero portato più in pubblico (cosa che non è stata, fortunatamente, perché la città di Torino ha sempre risposto benissimo). La peculiarità di Torino era quella di essere un Festival urbano e che in genere i Festival sembrano località turistiche. Era, dunque, una novità assoluta per una città essere in grado di rispondere a un cinema di nicchia. Questo ha costituito un fenomeno unico in Italia, tanto da provare a ricreare lo stesso fenomeno a Roma. Nella capitale, però, la città non ha risposto allo stesso modo. Il festival di Roma è un evento dove tutto il mondo si raduna per vedere Roma, ma poi il festival stesso si riduce a tutti gli ospiti, che sono sempre tantissimi. La “città” non esiste a Roma, c’è il turismo, ma non c’è una città vera che vive. Adesso Torino è diventata una città di studenti, ma noi parliamo di anni in cui Torino era ancora una città operaia, con la sua centenaria tradizione della FIAT. È una città dove, tra l’altro, c’era stato un conflitto sociale altissimo e quindi il cinema aveva riportato la popolazione ad una dimensione politica, però più culturale e non più di lotta. C’è una storia molto interessante.
Ritornando a Rimini, per me è stato tutto magico. Vedere, per esempio, persone di altre città tutte qui radunate per assistere ai nostri film, coinvolte da quello che stavamo presentando, è davvero molto bello. Inoltre, filmiamo tutto visto che viviamo in un’era digitale. Basti pensare che l’anno scorso abbiamo organizzato delle dirette streaming, per raggiungere più persone.
Tuttavia, penso sia molto bello avere un nucleo in presenza che diventa quasi protagonista insieme agli ospiti e che poi si irradia dappertutto. A grande richiesta, poi, mi è stato chiesto di fare una seconda edizione, e, dopo un periodo di titubanza, ci siamo decisi. Non ci speravo ma ha funzionato. A questo punto si pensa alla terza edizione!
Io penso che si sia creata veramente una bellissima energia in questi giorni. In programma troviamo film come The Brink of Dreams, Oleg, The Sower, accompagnati da tante altre proiezioni. Come avete scelto questi film?
La peculiarità del nostro Festival è la vetrinetta della Kitchenfilm. Non vogliamo far concorrenza agli altri Festival, anche se abbiamo una lunga esperienza di Festival, avendo una certa età e avendo avuto una certa frequentazione dell’ambiente. Per noi sono quarant’anni che frequentiamo Festival, noi li conosciamo tutti, anche nel mondo, per cui, volendo, sappiamo come si organizza uno, però bisogna sempre rispettare la propria storia, la propria collocazione.
Io sono laureata in storia e critica del cinema a Torino, ho inaugurato il primo Torino Film Festival però con un film, e non come critica, anche se scrivevo; quindi, ho fatto un percorso che non mi vede candidata per fare la direttrice di un Festival. Non lo vorrei neanche fare. Invece, vorrei mantenere quest’idea di essere il “capo bottega” di questa Kitchenfilm, un luogo dove cerchiamo sempre di scambiarci varie esperienze per fare determinate scelte sui film che mostriamo. E di questa piccola bottega C-MOVIE è pressoché una vetrina. Noi prendiamo circa tre o quattro film all’anno, massimo cinque, sempre in base ad un criterio non competitivo. Siamo dell’idea che comunque il mercato sia saturo, quindi comportarsi da competitors risulta anacronistico. Non puoi, oggi, pensare di fare la guerra alla Nomad o alla Ubu perché non esiste competizione. Esiste invece l’idea di creare una rete dove una serie di persone che amano il cinema si riuniscono, visto che ci sono dei film molto belli che vengono fatti in tutto il mondo, perché un po’ in tutto il mondo vi sono scuole che si occupano di formare individui in questo campo, a differenza dell’Italia, la quale è un po’ più sofferente sotto questo punto di vista, anche se rimane un territorio valido in fatto di cinematografi. Basti pensare all’anno scorso, quando abbiamo presentato un bellissimo film di Yuri Ancanari, un regista italiano creatore di un bellissimo film, Il popolo delle donne. Abbiamo anche presentato Gaudino e Sandri, ma anche riscoperto Piscicelli.
Io sono molto ottimista anche sulle cose che si stanno facendo in Italia, soprattutto dai giovani. Noi scegliamo sempre dei film che riteniamo molto meritevoli e che in qualche modo, però, non avrebbero uno spazio sul mercato se non lo prendessimo noi. La Kitchenfilm ha sempre perseguito una logica autoriale, se vuoi. Ci potremmo definire dei “Conoscitori”.
Nell’Ottocento, facendo un esempio, non c’era il mercato dei quadri, c’erano i connaisseurs. I conoscitori non erano i galleristi, ancora, perché non vi era gente normale che comprava quadri. I quadri si potevano trovare nelle chiese. I conoscitori iniziano a portare questo fenomeno riconoscendo il valore dei quadri in vendita e portandoseli a casa. Ecco, noi abbiamo questa logica, secondo me moderna, perché sono opere dove forse non vi è un mercato. Magari io sono anche una persona competitiva e provo a scovare qualcosa di unico, ma siamo in una fase di transizione in cui probabilmente i film belli verranno solo esposti nei musei. Ciò sarebbe un peccato perché, secondo me, l’aspetto popolare del cinema è sempre un aspetto che lo rende affascinante e unico.
La popolazione di Rimini è molto variegata, ci sono ancora molte persone semplici, sai. Io vedo queste facce di persone molto autentiche, vere. Un po’ in tutta Emilia-Romagna in realtà, una regione che ha mantenuto moltissimo radicamento nell’etica del lavoro. Sono persone genuine. Questo aspetto sarebbe un peccato perderlo sul lato cinematografico.
Recentemente ho visto a Parigi una mostra riguardo a Chantal Akerman, che è una regista che noi abbiamo molto amato. L’ho anche conosciuta prima che morisse prematuramente. Questa artista non è mai riuscita a fare un passaggio vero al cinema commerciale, anche se è un personaggio molto amato nel mondo. Adesso hanno fatto una mostra su di lei, dove hanno privilegiato assolutamente il suo aspetto sperimentale di videoarte, che comprende una minima parte del suo lavoro. Addirittura, dalla sua figura nasce la Fondazione Akerman, la quale ha preso tutti i suoi lavori, anche narrativi, e li ha spezzettati, sezionati e fatti diventare una mostra d’arte vera e propria.
Un altro esempio sono le scelte di Berlino di quest’anno, dove son stati presi dei film non narrativi, opere molto lontane dal pubblico. Noi, fino ad adesso, ci siamo orientati verso un cinema che sia anche molto fruibile, che trascini e che entusiasmi i non intenditori. Non l’abbiamo mai fatta ancora quella scelta di fare un cinema d’arte. Cerchiamo sempre dei film che abbiano dei forti contenuti, ma certamente che siano anche fatti con maestria.
La giornata di giovedì si è incentrata sulla diva del cinema muto di Diana Karenne. Questo può essere stato un modo per riavvicinare sempre più persone al mondo quasi elitario del cinema muto?
Sì, beh, noi siamo partite dal libro di Melania Mazzucco, pazzesco a mio dire, dove in realtà si compie un grande attraversamento del cinema degli anni Dieci e Venti. Io stessa non capisco il cinema muto, mi annoio da morire, anche quello comico, non importa che siano attori sconosciuti o miti del calibro di Buster Keaton, mi sento come quando vado al circo, percependo un misto di paura e di fascinazione.
Tuttavia, è molto interessante il lavoro che fa Melania, anche il discorso riguardo al corpo dell’attrice. Se io penso al cinema muto, lo attribuisco alla generazione di una nonna; quindi, non è poi così lontano come sembra. Ciò fa parte della ricerca delle nostre radici. È come quando si legge un libro di Storia.
La cosa che mi ha colpita di più, però, è stata la passione del pubblico di questi giorni, che nonostante fosse semplice e privo magari dell’occhio critico dei cinephile, ha apprezzato tantissimo i film di Gaudino e di Sandri, che sono due opere anche molto sperimentali, quindi con un linguaggio molto insolito. Magari, effettivamente, Berlino, con la sua scelta, ci ha visto lungo. Sembra di avere di nuovo un pubblico, soprattutto formato da giovani, che ha voglia di vedere determinate cose, frutto di sperimentazioni o di ricerche.
Tra gli ospiti è stata presente anche Giovanna Gagliardo. Qual è l’impatto che Giovanna ha avuto su di lei, essendo anche lei una regista? Crede che in futuro, scusi, crede che in futuro al C-movie possa esserci una retrospettiva a lei dedicata? 14:00
Certo, io auspico e ambisco a fare una retrospettiva riguardo a Giovanna Gagliardo. Mi piacerebbe che la facessero anche a Venezia.
Il primo lavoro che ho fatto in vita mia, di quando mi affacciavo, ventenne, in questo campo e appunto venivo dall’esperienza già di Torino Film Festival, è stato il primo Festival nazionale delle donne e dell’unità. Si svolse a Torino, presso il parco Ruffini e mi ricordo all’epoca due giovanissimi Livia Turco e Fassino che mi convocarono. Noi avevamo appena fondato un’associazione che si chiamava “Camera Woman”. Allestimmo, quindi, una grande arena nel parco Ruffini e io mi occupai della figura di Giovanna Gagliardo, che all’epoca aveva fatto Maternale, Via degli specchi e le sceneggiature di Miklós Jancsó. Quindi per me era certamente una regista di riferimento. Poi aveva diretto anche Caldo soffocante.
In seguito, però, per una sorta di censura italiana, tutta una serie di figure, tra cui anche quella di Piscicelli, sono state improvvisamente emarginate dall’emergere di un cinéma du papa. La cosa mi è spiaciuta davvero tanto. Mi ricordo che dicevo sempre che sarebbe arrivato il giorno in cui le avrei portato giustizia perché secondo me i suoi film, visti da una certa prospettiva, risultano dei grandi film. Se invece uno lo vede senza cognizione di causa, allora non capirà le chiavi di lettura. Tutte le opere hanno bisogno di essere lette attraverso alcune chiavi di lettura, che a volte maturano all’interno della stessa. Personaggi come Picasso non sarebbero famosi senza chiavi di lettura! Ecco, quindi, che un film del calibro di Via degli specchi, con una prospettiva diversa, assume un significato simbolico molto importante.
Lei ha realizzato, prodotto, distribuito opere che indagano la condizione femminile. In che modo il cinema aiuterebbe ad avvicinare diversi tipi di pubblico a tematiche così importanti? In che modo, poi, un film è in grado di sensibilizzare efficacemente riguardo a questioni di grande rilievo?
Sai, il cinema ha perso molto il suo impatto di propaganda. Come si era solito dire: Mussolini ha fatto il grande cinema italiano, anche se poi quest’ultimo ha preso una strada indipendente, tramutandosi nella sua migliore espressione: il neorealismo. Il cinema italiano era il più importante del mondo negli anni Dieci e negli anni Quaranta. Tuttavia, anche quello degli anni Trenta possedeva una certa importanza, in quanto l’industria cinematografica messa in piedi da Mussolini era molto importante. L’Italia ha sempre creduto molto nel potere prettamente seduttivo del cinema, fino all’avvento della televisione. Ciò è successo anche con l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti.
Adesso non so se i giovani hanno ancora come modello i film o le fiction. Io non conosco questo aspetto, anche perché la mia generazione non ha più pensato il cinema in questa direzione.
Ad esempio, ho avuto il piacere di conoscere Beppe De Santis, regista di Riso amaro, ma soprattutto uno dei grandi artefici del neorealismo. È stato uno dei grandi teorici, insieme a Mario Alicata. Di lui ricordo che mi disse di essere venuto a Torino per voler fare un remake di Roma ore 11. Egli è venuto a intervistarci, in quanto noi avevamo realizzato Le rose blu. La prima cosa che mi ha chiesto è stata: «che rapporti avete con il partito?». Non avevamo nessun rapporto. Camera Woman era nata come un gruppo di studentesse amiche; perciò, avevamo un approccio improntato verso la ricerca. Poi all’epoca c’era tutto un movimento in cui il cinema, più che propaganda, costituiva un campo di sperimentazione. Non vi era l’idea di produrre dei contenuti che influenzassero le masse. Era più un laboratorio. Questo è stato frutto del clima che aleggiava tra gli anni Sessanta e Settanta, che incentivava l’individuo a partire da sé, portare la propria esperienza. Prima, invece, si pensava al cinema come educazione delle masse. Io questo aspetto qua non so che cosa voglia dire, né tantomeno mi interessa.
Io quando prendo un film e lo distribuisco, cerco di portare le persone a vederlo, rispondendo proprio a un desiderio di condivisione di una cosa che mi piace.
Ieri si è conclusa l’ultima serata del C-MOVIE. Può ritenersi soddisfatta della risposta del pubblico? Cosa si aspettava e cosa, invece, l’ha sorpresa?
Sono contentissima, anche perché portare il pubblico in sala è diventata un’impresa. Io già non dormo la notte pensando di presentare un film mio. Quando il film è di un altro, percepisco addosso a me una responsabilità ancora più grande. Se nessuno viene al mio film posso prendermela con me stessa, ma se nessuno viene al film di un altro regista io mi sento veramente responsabile in queste situazioni, quindi mi spiacerebbe il doppio. È un patema d’animo pazzesco! Arrivare, però, a vedere la sala piena è una soddisfazione enorme, anche se è soltanto una sala.
Ad esempio, consideriamo il film di Marine Francen, che si basa sul racconto di Violette Ailhaud. Se in letteratura è normale tradurre un testo che è uscito nel proprio paese anche cent’anni prima, nel cinema vale, invece, la regola del mercato. Un film deve essere sempre fresco. Io la trovo una legge abbastanza stupida perché, se, per esempio, vedo un film bello che ritengo un classico, per me non va fuori moda. Chi se ne frega! Non mi interessa l’anno in cui è stato fatto un film. Contravvengo a questa logica, andando contro, quindi, anche alla concorrenza che, invece, si preoccupa di queste sciocchezze. Se un film ha le caratteristiche di essere un classico, come il film di Marine Francen, o come anche Oleg di Juris Kursietis, e percepisco che possano esprimere determinate cose, poi mi viene voglia di condividerlo con altri.
Devo dire che persone in sala hanno risposto più che positivamente a questi film! Quando vedo che le persone normali, che valutano i film senza magari possedere grandissima cultura cinematografica, non essendo degli studenti di cinema o dei frequentatori di festival, che vengono a vedere dei film così e rispondono in modo positivo, sono contenta delle scelte che facciamo. Non facciamo solo cinema d’arte, scegliamo film che abbiano cose da dire.
Rispondendo alla domanda di prima, io non so se questa cosa possa sensibilizzare di più sulla condizione femminile. Io, ribadisco, ritengo che ci siano delle persone che hanno delle cose da dire o da mostrare.
Per esempio, io sono contrarissima a quando vengono giovani a chiedermi come si fa a fare il regista e a lavorare in questo mondo. Non è una professione fare il regista. Certamente, se esci da una scuola di cinema saprai seguire quelle quattro regole per fare il montatore, oppure il regista.
Io penso, invece, che, come dicono i Greci, non conti tanto la grammatica, ma conta maggiormente ciò che hanno fatto gli autori precedenti. È lì che ti devi collegare. E quando tu aspiri realmente a fare il regista, oppure lo scrittore, in realtà tu vuoi fare solo ed esclusivamente quello. Non vuoi semplicemente seguire delle regolette. Sono due cose ben diverse. Devi sapere cosa voler fare nella tua vita: se vuoi seguire delle regolette, ci sono spazi dedicati. Ci sono anche dei lavori più semplici. Lavorare allo sportello delle poste è più o meno come fare il montaggio campo-controcampo, quasi la stessa cosa. Non c’è bisogno di spendere tanti soldi per frequentare una scuola di cinema se poi vuoi solo seguire delle regolette.
Vuoi fare realmente il regista, lo scrittore o il musicista? Allora devi sapere che non c’è spazio per te. Nessuno ne ha bisogno. Invece c’è bisogno di qualcuno che metta in ordine gli scaffali, oppure di uno che faccia l’impiegato alle poste. Non c’è bisogno di qualcuno che abbia delle cose da dire. Devi essere tu, quindi, che veramente non puoi fare a meno di esprimerti. E se proprio non ne puoi fare a meno, a volte diventa anche una persecuzione personale.
Quindi, dico al giovane: se sei su quella linea lì, non ti devi nemmeno porre il problema, in quanto è come una malattia che ti spingerà ad esprimerti lo stesso, non potendone fare a meno. La mia amica poetessa Jolanda Insana diceva: «la poesia, chi ce l’ha, se la gratta come rogna».
Dopodiché, non c’è nessuno che ti possa insegnare per davvero un modo di fare. Tuttavia, è necessario imparare. Non si nasce già formati. Se vuoi scrivere è perché, fondamentalmente, hai letto delle cose che sono ti tanto piaciute, devi solo continuare a leggere, a imparare, devi continuare a dialogare con chi scrive, leggere e dialogare a poco a poco. Pian piano se avrai delle cose da dire, le dirai.
Ritornando sempre allo stesso discorso, quando prendiamo un film è perché chi lo ha creato voleva comunicare veramente qualcosa. Prendere l’ultimo film di moda, oppure uno che ha fatto già degli ottimi incassi, non costituisce proprio il nostro lavoro. Ci sono altri che lo fanno meglio e credo che lo rovinerei anche, perché proprio non lo so fare.