Venerdì 14 marzo, in presenza del regista, Oleg è stato presentato presso la Cineteca di Rimini. Il lungometraggio del 2019 è diretto da Juris Kursietis.
Il regista lettone ha iniziato la propria carriera come corrispondente di notizie estere presso il dipartimento di notizie della televisione lettone. Dopo sei anni dedicati alla televisione, Juris ha intrapreso un percorso cinematografico, perseguendo un master in regia cinematografica alla Northern Media School, nel Regno Unito, e dirigendo i suoi primi film. Modris (2014) gli ha permesso di debuttare, realizzando poi Oleg (2019), la miniserie Soviet Jeans (2024) e l’ultimo lungometraggio The Exalted (2014).
Oleg è stato già presentato in concorso al 72esimo Festival di Cannes e alla 31esima edizione del Trieste Film Festival.
L’intervista
Oleg è una storia che mostra le difficoltà subìte da molti immigrati, come lo sfruttamento. La tua opera sembra quasi raccontare una storia universalmente valida. Com’è nata l’idea di realizzare questo film e come ti ha fatto sentire raccontare questa storia?
Per iniziare, ritengo che le storie più universali siano quelle più vicine a noi. Per questo motivo, il lungometraggio è quasi interamente basato su fatti realmente accaduti.
Nel 2013, mentre lavoravo a un mio vecchio film, conobbi questo giornalista che mi raccontò di un suo articolo riguardante le istituzioni per i centri di accoglienza sociale in Belgio. Me lo fece leggere e rimasi davvero sbigottito scoprendo quanto fosse brutale quel mondo. Ogni volta che creo un film, ho bisogno di uno stimolo che parta dentro di me. Quella storia che lessi lo fece decisamente partire.
Un altro dei motivi che mi ha portato alla creazione del film è stata la giustizia. Giustizia per quelle persone che cercano di guadagnare soldi da portare a casa per poter sfamare le proprie famiglie, ma che vengono assiduamente sfruttate e manipolate nel bel mezzo dell’Europa, nella quale ci dovrebbero essere Paesi sviluppati, non di certo giungle dove regna il caos (scherzosamente).
Il protagonista viene spesso associato a carne da macello, costituendo la principale metafora del film. L’utilizzo di immagini forti credi possa, in qualche modo, risvegliare la coscienza del pubblico, facendogli porre più attenzione al problema?
La ragione per cui giro film è perché voglio che scaturiscano una reazione all’interno dello spettatore. Forse sono una persona davvero ingenua, ma ritengo che i film, in particolar modo quelli europei, commentino il modo in cui la società venga influenzata da quel che succede intorno ad essa. Per questo motivo, credo valga la pena creare un film in grado di contrastare l’opinione della società o di provocare una reazione all’interno della stessa. Ovviamente l’uso di immagini e simboli all’interno di un’opera non deve per forza avere un’accezione referenziale. Certo, la ragione principale è quella di raccontare una storia, di mostrare un personaggio e il suo mondo interiore. Tuttavia, inconsciamente, cerco anche di comunicare qualcosa agli spettatori tramite questi simboli e metafore, anche se non bisogna soffermarsi solo su questi, ma è necessario considerare ogni singolo aspetto dell’opera.
Il linguaggio visivo e non verbale, il luogo in cui viene registrata o il modo in cui si lavora con gli attori fanno percepire questo film come una sorta di documentario, in modo che il pubblico possa immedesimarsi nel protagonista e nella situazione in cui si ritrova, e, forse, mettere gli spettatori in una situazione di disagio, ponendoli di fronte al muro che è l’estraneità di un mondo che a loro non appartiene, in modo che possano poi attraversarlo. Spero che la mia risposta sia stata esaustiva.
Come stavi dicendo, Oleg è stato girato in un modo abbastanza documentaristico. Si potrebbe dire che la scelta aiuti lo spettatore a immedesimarsi di più in ciò che sta guardando, facendolo sentire sempre più parte della storia?
Certamente. In generale giro ogni mio film in questo modo poiché voglio rompere quella distanza che separa il semplice guardare una storia e il viverla a pieno. Sul set, inoltre, ci basiamo molto sull’improvvisazione. Ovviamente ci saranno alcune scene che devono prendere una determinata direzione alcuni giorni, ma lascio sempre ai miei attori spazio di improvvisare. Anzi, li incoraggio a non attenersi esclusivamente al copione, perché vorrei che si servissero della loro conoscenza del personaggio che stanno interpretando, di cui avranno fatto ricerche in precedenza, trovando degli archetipi di essi nella vita vera. Con questa loro conoscenza acquisita, quindi, li aiuto a sviluppare la scena sul set stesso.
Questo, in qualche modo, riesce a dare al film quella sensazione documentaristica di cui parlavamo prima, poiché mi fido degli attori e del fatto che sono liberi di interpretare una scena nel miglior modo che essi ritengono. Ovviamente li reindirizzerò verso un punto preciso, ma bisogna considerare il tutto come un lavoro di squadra. Essi prendono parte alla storia, credono nella stessa, poiché interpretano un determinato personaggio e, che sia buono o cattivo, voglio che prendano vita sul set. Per questo motivo trovo l’improvvisazione la scelta migliore da utilizzare e da trasmettere poi sul grande schermo.
Il protagonista del film è Valentin Novopolskij. Che cosa ti ha particolarmente colpito di lui, tanto da sceglierlo come protagonista?
È semplicemente un bravissimo attore (ride).
Ho lavorato con lui anche sul set di Soviet Jeans. Riesce a stare davanti allo schermo senza richiedere attenzioni, poiché è in grado di attirarle naturalmente. Ritengo siano due cose distinte: vi possono essere degli attori che le ricercano in tutti i modi possibili, e quando capita di vederne uno mi sento davvero a disagio. Se qualcuno, invece, riesce a stare davanti alla telecamera recitando già un minimo, lo trovo davvero cinematografico e Valentin è veramente naturale davanti a una cinepresa. Lotta veramente per il suo personaggio, ci entra in intimità, chiedendosi sempre dopo ogni ripresa: è andata bene?, come è stato?, si può fare qualcosa per migliorare?.
Questo è sostanzialmente lo stesso modo in cui lavoro anche io sul set. A volte per me è difficile finire una scena perché mi domando come sia stata o se la si può migliorare. Sono molto autocritico. Per questo sono del parere che il modo in cui io e Valentin lavoriamo sia simile. Qualche volta si presentano per me dei momenti ostici durante le riprese. Lo rassicuro dicendo che la scena è andata come volevo, ma lui ci tiene sempre a sapere se è andato tutto bene.
Credo che la qualità che un attore debba avere sia il non amarsi troppo, che preferisca lottare per il personaggio e per la storia, aggiungendo più sfumature, specialmente in una storia come Oleg, dove credo sia necessario che l’attore utilizzi le esperienze che ha vissuto per mostrare la caduta emotiva e psicologica del suo personaggio nel modo più efficace possibile. Mi ritengo davvero fortunato ad avere avuto la possibilità di lavorare con lui.
L’ambiente circostante, che alterna spazi innevati, la natura selvaggia e gli ambienti cupi, sembra riflettere il sentimento di straniamento e di oppressione provato da Oleg. Puoi spiegarci il rapporto tra il protagonista e gli ambienti attorno a lui e in che modo, attraverso la fotografia, siete riusciti a restituire al meglio i suoi stati d’animo?
Ad essere onesti, non ho dovuto fare molto, Mentre stavo preparando il film, infatti, ho girato tra le aree in cui la storia è realmente accaduta e ho avuto un’epifania riguardo a ciò che è davvero accaduto, tramite immagini dei luoghi reali e degli avvenimenti letti in quell’articolo all’inizio. Queste stesse immagini esplicavano nel migliore dei modi la situazione precaria di questa persona. In questo modo, mentre facevo delle ricerche, andai a Gent per trovare un macello in cui girare la storia e, per puro caso, andai in questa fabbrica che ci diede il permesso di girare. I proprietari mi colsero alla sprovvista chiedendomi: «vuoi vedere la tua gente?».
«Quale gente?» risposi. Mi dissero che in fabbrica ci lavoravano persone che provenivano dalla Lettonia.
Vi era un’intera brigata di circa 15 uomini che si guadagnavano da vivere smembrando maiali su dei nastri trasportatori e dividendoli in vari pezzi. Venni invitato a casa loro. Lì potei constatare il mondo in cui vivevano, lo stesso che viene ripreso nel film.
Il loro mondo reale, però, non era molto colorato e ciò viene tradotto anche nella pellicola. Facendo le mie ricerche, dopo aver visitato persone, i luoghi in cui vivevano e in cui lavoravano, risultava il tutto davvero molto ironico. Le zone periferiche della città e quella principale sono agli antipodi. Nel centro di Gent trovi vecchie cattedrali e monumenti che attraggono numerosi turisti, ma non appena ti distacchi da lì, già a quindici minuti di macchina, trovi macelli e maiali sgozzati. Il mio compito è stato quello di trovare questi luoghi e di rappresentarli nel modo più reale possibile.
Questo mondo è ciò che ha fatto scaturire una scintilla al mio interno quando lessi quell’articolo. Inoltre, fare ricerche in quegli stessi luoghi mi ha spinto ancor di più a raccontare il tutto, anche perché queste situazioni non sono di certo anelate, ma sono lì, basta porsi con un occhio di riguardo verso di loro. Il problema principale risulta che noi, da società, ci nascondiamo da tutto ciò e proviamo ad ignorare, ma anche solo quando si va al supermercato a comprare carne a buon mercato, non ci si ferma a riflettere sulla provenienza della stessa, ed è ciò che voglio si veda nel film.
Clicca qui per leggere l’intervista a Melania Mazzucco al C-MOVIE di Rimini.