Nelle sale dal 13 marzo con Movie Cinema Italia il nuovo film di Vittorio Rifranti Altrove.
Il film, scritto dallo stesso Rifranti insieme a Cinzia Masòtina, è prodotto da Engagement, con il contributo del Ministero della Cultura, con il sostegno di Genova Liguria Film Commission. Il produttore è Mario Chiavalin, al montaggio c’è Claudio Bonafede e alla fotografia Patrizio Saccò.
Il cast è composto da Alioune Badiane, Nicolò Mantovani, Camilla Tedeschi, Elisabetta Tozzato, Samuele Satta, Giorgia Wurth, Filippo Lanzi, Beatrice Sabaini, Mauro Negri.
Altrove è allo stesso tempo un film e tanti film diversi. Mescola i linguaggi, incrocia continuamente i diversi mezzi con cui è possibile oggi raccontare la realtà. Tanti film quanti sono i personaggi, sperimentando e indagando i modi con i quali la macchina da presa, una piccola videocamera, un telefono cellulare possono mostrare quello che ci circonda e allo stesso tempo modificarlo con il loro sguardo specifico (Fonte: altrovefilm.com)
In occasione dell’uscita di Altrove nelle sale abbiamo fatto alcune domande a Vittorio Rifranti.
Altrove di Vittorio Rifranti
Ho visto che Altrove viene presentato come un film e contemporaneamente tanti film insieme. In linea di massima mi trovo d’accordo con questa definizione, anzi credo che sia un insieme di punti di vista raccontati dai quattro (cinque) protagonisti, così diversi tra loro eppure così in sintonia, così come lo sono le parti del film. Sei d’accordo?
Sì, condivido l’idea di un film e allo stesso tempo tanti film. Questo fatto nasce da un’idea di partenza che io avevo, ma che mi sembrava un po’ troppo teorica e che ho in parte abbandonato. La mia idea era che quella videocamera, che loro condividono e che ha lasciato loro Stefano, dovesse essere usata da ognuno di loro e ognuno la usava in una modalità diversa. L’idea di partenza doveva essere questa, ma poi mi sembrava troppo metacinematografica e quindi la videocamera è rimasta, ma la usa soprattutto Marco, che è quello che si protegge anche un po’ dietro questa videocamera, perché filmando è dentro e fuori le situazioni allo stesso tempo. Alla fine è rimasta questa sensazione di una storia raccontata emotivamente da diversi punti di vista, perché ognuno dei quattro/cinque ragazzi vive a proprio modo quello che è accaduto, ma allo stesso tempo è un film unico, omogeneo e una storia corale perché il gruppo dei ragazzi è, più o meno, sullo stesso piano.
Ma infatti si percepisce questa differenza di sguardi che poi sono riassunti un po’ dalla videocamera, un po’ da te in quanto regista. A proposito di quello che dici mi viene in mente, per esempio, la scena iniziale in pizzeria dove lo stesso avvenimento viene poi analizzato o comunque vissuto in maniera diversa (c’è chi insulta il cameriere, chi prova pietà per lui, chi cerca di mediare…). Già da lì si capisce che poi la storia si baserà su questi punti di vista, in qualche modo.
Sì, esatto, quella scena è già, in qualche modo, un inizio di caratterizzazione del loro modo di essere, che si manterrà nel corso della storia, ovviamente portato un po’ più all’estremo dopo l’incidente che avviene a un certo punto. Così come è esplicativo anche del modo di rapportarsi del gruppo a Simone in generale.

Mi è sembrato un preambolo che aiuta molto a capire anche gli aspetti a cui facevi riferimento prima. Alla fine, oltre ai punti di vista, c’è anche quello che si potrebbe definire un insieme di più generi. Perché è un film su un viaggio, fisico e metaforico di alcuni giovani che cercano di crescere in qualche modo, ma è anche un film drammatico e un thriller vero e proprio.
Sì, in un certo senso sì, anche perché capiamo progressivamente ciò che è accaduto che non è proprio immediato. Quindi c’è anche il discorso relativo alla tensione e del cercare di capire cos’è avvenuto.
Poi c’è anche una parte un po’ più leggera nel senso che ci sono anche dei momenti in cui i ragazzi sono davvero ragazzi e passano il tempo scherzando, prendendosi in giro. Diciamo che Altrove è comunque un coming of age che poi tende ad andare verso una parte più drammatica, più thriller, più cupa.
I titoli di testa
Partendo dall’inizio vorrei chiederti qualcosa a proposito del mare che accompagna i titoli di testa. Come mai questa scelta? Perché è un luogo asettico, un non luogo che può essere in qualche modo ovunque, così come la storia che vediamo? Alla fine non ho notato nessun accento particolare o nessun elemento che possa collocare geograficamente la storia in un determinato luogo. Potrebbe essere ovunque, così come quel mare di cui non si vede né l’inizio né la fine, non si sa è calmo o agitato e può essere la metafora della vita e dei temperamenti dei protagonisti.
È vero che non ci sono riferimenti in questo senso. C’è solo una battuta, a un certo punto, di un personaggio che chiede se vengono da Milano e la risposta è positiva, però il venire da Milano è legato all’università, non necessariamente alle loro origini, quindi potrebbero venire da luoghi diversi e essere confluiti lì dopo essersi conosciuti in università.
Sulla questione dell’acqua iniziale è stata una decisione presa in post-produzione, nel senso che una prima forma dei titoli era molto più neutra, poi, però, mi ha convinto l’idea di quest’acqua che è abbastanza calma, ma che fa un rumore che dà un po’ la sensazione che possa da un momento all’altro agitarsi. L’immagine che avevo era quella di un ponte che passa sopra l’acqua e che dà, quindi, un senso di sicurezza perché da una parte superi l’acqua, ma allo stesso tempo quella stessa acqua che si trova sotto è viva, per cui è come se ci fosse sempre qualcosa di inquieto. L’immagine dell’acqua mi dava un po’ questa sensazione di calma apparente e su questa idea ho proposto in post-produzione di provare a mettere dell’acqua sotto una parte consistente dei titoli di testa in modo da poter cominciare a entrare in questa atmosfera apparentemente calma, ma continuamente increspata. A tal proposito si potrebbe citare la scena iniziale in treno dove viene fuori l’argomento Stefano, che ci fa capire che c’è un’ombra in qualche modo che aleggia su di loro. E poi, ancora, la prima cosa che accade quando loro sbarcano nella località di mare è che vedono sulla spiaggia questo gruppo di persone e il corpo di un ragazzo affogato, di cui non sappiamo nulla, ma che è un’altra ombra.
Una scena significativa
Hai citato una scena di cui ti avrei chiesto. Siamo sulla spiaggia e i ragazzi vedono il corpo di un uomo riverso sulla sabbia a riva. C’è già un capannello di curiosi che lo osservano in silenzio. I ragazzi si limitano a fare lo stesso e a riprendere la scena. Si può leggere anche in un’altra ottica oltre a quella dell’ombra che aleggia su di loro?
In origine questa scena c’è sempre stata però avrebbero dovuto parlarne subito dopo essere arrivati nella casa di Serena. Ne avrebbero parlato perché qualcuno aveva filmato. Alla fine, poi, è rimasta solo una battuta di Luca con Serena sugli scogli (ho cancellato le immagini del ragazzo sulla spiaggia). Ho deciso di provare a fare una cosa, cioè togliere tutto quello che stava attorno a quel momento, che per me era come una prefigurazione, un’anticipazione di quello che sarebbe poi accaduto, come a dire che la morte, in qualche modo evocata vagamente sul personaggio di Stefano, è poi vista sul corpo di uno sconosciuto. Effettivamente poi non se ne parla più. E mi interessa sapere dal pubblico quanto quella scena rimane nella memoria dello spettatore e quanto la si dimentica non costruendoci attorno dei dialoghi, delle analisi, delle riflessioni o dei ricordi espliciti. Mi sembrava interessante capire se ha lasciato un segno o meno, perché i ragazzi tendono un po’ a rimuoverla anche perché lì sono solo spettatori che arrivano, vedono e se ne vanno. Non sono coinvolti più di tanto emotivamente, a differenza di quello che accadrà dopo.

Da parte mia posso dirti che l’avevo letta, oltre che come presagio, come una sorta di critica a una società disposta a spingersi sempre oltre, invadendo la privacy e facendo spesso venire meno il buon senso. Anche le notizie che arrivano quotidianamente cercano sempre di mostrare crudeltà ed efferatezza come se queste apportassero effettivamente qualcosa alla notizia in sé.
Questa cosa che dici c’è effettivamente. Il film è anche per me un porsi la domanda fino a che punto può arrivare il racconto attraverso le immagini? Fino a che punto ci possiamo spingere?. Non a caso, senza anticipare nulla, il momento clou del film avviene fuori campo. Si tratta di un momento estremo, ma in realtà il momento non viene inquadrato da questa camera fissa che loro hanno poggiato sul tavolo. Quindi c’è anche una riflessione sul rapporto con l’immagine e con l’etica.
Qual è il genere di Altrove di Vittorio Rifranti?
Rimanendo sempre sull’inizio del film c’è la scena in cui Luca si trova in questo edificio distrutto e presumibilmente abbandonato e sta guardando un video che si intuisce essere un pestaggio o qualcosa di simile, ma non capiamo (lo capiremo solo al termine). Si può definire questo momento come un riavvolgere il nastro della storia? Come nella migliore delle tradizioni di un thriller.
Sì, un po’ sì. Anche questa è un’idea di montaggio. In sceneggiatura le cose avvenivano tutte in ordine cronologico, quindi in realtà quella scena sarebbe stata molto più avanti nella storia, come è realmente poi.
Al montaggio, con il montatore Claudio Bonafede, ci siamo detti che sentivamo un po’ l’esigenza di dare un segnale iniziale, anche lì una sorta di prefigurazione (percepiamo che qualcosa è avvenuto, perché è stato filmato, ma non capiamo cosa). Mi sembrava interessante che poi da lì si entrasse in una dimensione più tranquilla, almeno per una parte del film.
Forse a un certo punto ce lo siamo anche dimenticati quel momento finché poi improvvisamente capiamo. E capiamo che dentro quella videocamera c’è quella che io chiamo la loro coscienza. Le immagini di quello che è accaduto e il modo in cui ognuno di loro si rapporta a quelle immagini è come il rapporto che ognuno di loro ha con se stesso, con la propria coscienza.
La camera, alla fine, diventa un po’ un tabù, non a caso la prendono in mano, la appoggiano, ne guardano un pezzo, poi spengono.
Un filo conduttore
Comunque questa videocamera è centralissima. Se i protagonisti sono i quattro (poi cinque) ragazzi, complessivamente si può aggiungere anche la videocamera. Mi piace pensare che sia anche un tuo tratto distintivo perché quando ci eravamo sentiti per l’altro film, Ferite, c’era anche in quel caso il mezzo cinematografico, la proiezione di filmati. Potrebbe essere quasi una continuazione in questo senso.
Sì, è una cosa che torna, me ne rendo conto anche io anche se non la pianifico. Ti do una curiosità, però: Altrove è un progetto che nasce molto prima di Ferite. Altrove ha avuto un percorso produttivo molto accidentato, è un film che ha preso il finanziamento del Ministero della Cultura addirittura nel 2014. Da lì poi ci sono state un paio di false partenze e tutta una serie di problematiche che meriterebbero quasi un film a parte. Quindi, in realtà, dal punto di vista del tipo di storia, Ferite è un film che nasce e viene prodotto in un anno e mezzo circa (un tempo abbastanza veloce). Nel frattempo Altrove esisteva già da diversi anni, quindi cronologicamente verrebbe prima. È vero però che un film esiste nel momento in cui si fa.

A prescindere da tutto questo, però, l’idea di filmare, di archiviare è una mia ossessione anche nella vita, tendo a fermare molto il tempo, filmando o scrivendo, ma fissando delle cose e credo sia anche il mio rapporto con il cinema. Anche in un altro mio lavoro, Lo sguardo nascosto, questo concetto è centrale (in quel caso specifico con le registrazioni delle voci).
È un tratto che trovo molto interessante anche perché secondo me, oltre al discorso di fermare il tempo, al quale facevi riferimento, ti dà anche la possibilità di inserire il cinema nel cinema e di giocare con il mezzo stesso.
Esatto e credo sia anche un modo per descrivere i personaggi e dire come sono, come si rapportano al tempo che passa.
La scena clou di Altrove di Vittorio Rifranti
A tal proposito ti chiedo della scena alla quale hai fatto riferimento prima: la scena clou del film. Ho apprezzato molto che noi la possiamo vedere tramite la videocamera stessa, come se fossimo una sorta di grande fratello, però poi il momento clou, appunto, non lo vediamo perché avviene fuori campo. Siamo, o forse pensiamo di essere, onniscienti come il regista, ma in realtà ci manca un pezzo.
Sì, e quello che succede lo capiamo dalle reazioni dei ragazzi, perché loro si rendono conto di quello che è accaduto. Mi piace lavorare sui punti di vista. Mi si è chiarito nel tempo che quella scena volevo che venisse raccontata esclusivamente dalla videocamera. E mi piaceva anche l’idea della fissità, cioè che loro la appoggiassero. Perché stanno creando un piccolo spettacolo quella notte, è come se mettessero in scena un piccolo film che però va in una direzione totalmente inaspettata.
Per me quella scena è, in piccolo, un po’ il film stesso.
Sì perché è inaspettato, così come il film stesso che va in una direzione e poi improvvisamente cambia completamente.
Tra l’altro è un film costruito sull’idea dei due atti più che dei tre. Poi ovviamente all’interno degli atti ci sono dei momenti.
La scena in questione, che è più o meno a metà, è quella attorno alla quale gira tutta la storia. Devo anche dire che sono stati molto bravi i ragazzi perché in quella scena io ho dato una serie di indicazioni e li ho lasciati molto liberi. Loro conoscevano la sceneggiatura, ho fatto vedere loro qual era il campo di ripresa, ho ricordato loro di rimanere all’interno dei ruoli e poi li ho lasciati liberi. Abbiamo fatto solo due riprese. Era piena notte e devo dire che sono stati bravissimi perché sono riusciti a rendere la scena molto credibile e vera e perché sono stati liberi, pur dentro uno schema.
Alcuni presagi
È vero che quella scena divide un po’ il film in due parti, ma è anche vero, come dicevamo, che prima di quella ci sono dei momenti che anticipano quello che potrebbe accadere. In relazione a questo c’è, per esempio, anche una frase che mi ha colpita: è il tempo migliore quando tutto deve ancora avvenire. Credo sia un po’ l’emblema del film.
Sì, hai ragione. Ricordo che colpì subito anche me quella frase appena letta e pensai subito che sarebbe stata perfetta per Altrove.
Anche io, come te, credo che sia l’essenza del film perché loro stanno, in un certo senso, vivendo il loro tempo migliore. E quando tutto deve ancora avvenire fa riferimento al fatto che sono comunque giovani. Poi ovviamente questo può voler dire tante cose.
Tra l’altro dopo quella scena arriva Francesca, che per loro rappresenta una figura destabilizzante (anche se lei non lo vuole essere) che crea un po’ di scompenso dentro il gruppo perché i ragazzi ne sono attratti e affascinati. Mi piaceva l’idea che l’arrivo di Francesca fosse un altro elemento che comincia lentamente a spostare degli equilibri nel gruppo.
Lei li destabilizza a tal punto che dal momento in cui arriva comincia a essere più evidente anche uno scambio di sguardi tra i protagonisti. Sono sguardi reciproci, sguardi di intesa, ma anche sguardi per studiare l’avversario e osservare quello che succede.
Sì, si creano all’interno del gruppo le prime incrinature e la cosa che mi piaceva è che lei provoca questo in maniera totalmente involontaria perché non ha nessun atteggiamento particolare. È semplicemente se stessa.

Altrove di Vittorio Rifranti è un film ciclico?
Secondo te è giusto definire Altrove un film ciclico? Al di là di tutto quello che succede, all’inizio e alla fine siamo nello stesso (non) luogo, quasi allo stesso modo. Ovviamente i ragazzi sono cambiati, sono cresciuti, ma stanno tornando alla loro vita di sempre che probabilmente guarderanno, però, da un’altra prospettiva. Nonostante questo li abbiamo conosciuti in treno e li ritroviamo in uno dei non luoghi per eccellenza, come la stazione. Sarà la visione recente, ma l’ho associato a A real pain che, così come Altrove, è un viaggio.
Innanzitutto è sempre stato molto chiaro che il film sarebbe cominciato e finito in treno, con viaggio di andata e viaggio di ritorno. Naturalmente, come giustamente dici, nel frattempo loro sono sicuramente cambiati, sono cambiate delle cose. Per esempio non distruggono le immagini (cosa che sarebbe naturale), ma le inviano a Stefano. Non le distruggono perché quelle immagini sono simbolicamente la loro coscienza e la coscienza non la puoi distruggere, cioè non la puoi cancellare. Quello che hai vissuto rimane, puoi provare a rimuovere, a fare tante cose, consciamente o inconsciamente, ma poi quello ti resta sempre dentro e ti condiziona.
Per questo secondo me questa cosa è anche un’assunzione di responsabilità. Non sono cinici e incapaci di provare emozioni.
Quindi secondo me è vero che è assolutamente ciclico, torna da dove è partito ma ovviamente con tutta un’altra atmosfera: la gita scolastica è finita male, la gioia dello stare insieme è diventata qualcosa d’altro; loro sopravviveranno, e per me è importante come loro elaboreranno quello che è accaduto. Forse la loro giovinezza è finita e adesso sono adulti, devono prendere consapevolezza delle cose.
In qualche modo il finale è aperto. Ed è l’emblema del quello che succede qui rimane qui. È qualcosa che li ha legati e che li legherà per sempre, a prescindere dalle strade che prenderanno.
Assolutamente sì. Da un lato il gruppo si è un po’ sfaldato perché ognuno è andato alla deriva, però allo stesso tempo si è unito in un modo più profondo, perché a unirli è quello che è successo e che li ha coinvolti tutti. Non c’è mai, per esempio, un momento in cui qualcuno punta il dito su qualcuno, perché è come se tutti si sentissero responsabili di quello che è accaduto.
Il cast
Una domanda sugli interpreti che, nonostante la giovane età, sono molto bravi. Sono tutti molto giovani e con, penso, considerando l’età, relativamente poca esperienza alle spalle. Quanto ti ha aiutato questo nello sceglierli e quanto questo ha aiutato loro a immedesimarsi in personaggi che, per certi aspetti, sembrano anche spaesati?
La loro provenienza è abbastanza eterogenea. Camilla Tedeschi, che interpreta Serena, quella più razionale, più ragionevole, più equilibrata, è un’attrice che ha già fatto dei film, e con me aveva già fatto Ferite. Poi Nicolò Mantovani, che è Luca, è un attore che conosco da diversi anni e che ha fatto con me un cortometraggio, La guarigione, e lo trovo molto istintivo e naturale. Alioune Badiane, che è Marco, l’ho conosciuto in un laboratorio, così come Elisabetta Tozzato, che è Anna. Per Elisabetta è stata la primissima esperienza e devo dire che è stata anche coraggiosa, soprattutto in alcune scene delicate. Poi c’è Samuele Satta, Simone, che ho conosciuto nella scuola dove insegno e che mi è sembrato subito perfetto per questo ruolo anche un po’ ingenuo e semplice.

I ragazzi sono stati molto bravi, ma vorrei citare anche i tre adulti: Giorgia Wurth, la più conosciuta, ma che ha fatto con me il primissimo film, Tagliare le parti in grigio, e che conosco ormai da 18 anni, e mi ha fatto piacere ritrovarla in questo film, Filippo Lanzi, che stavo per scegliere già per Ferite, e poi Beatrice Sabaini, che ho conosciuto seguendo i corti dei miei studenti.
In generale i percorsi sono abbastanza eterogenei, però credo che alla fine si siano abbastanza amalgamati, pur avendo esperienze molto diverse.
E soprattutto sono tutti credibili. Anche il fatto di avere provenienze diverse dà proprio l’idea del gruppo di ragazzi che si incontra all’università e che non per forza proviene dallo stesso luogo.
Sono contento che venga fuori questa cosa e che i ragazzi soprattutto funzionino, anche perché per molti di loro è stato il primo film.
Perché Altrove e gli altri progetti di Vittorio Rifranti
Te l’avevo chiesto anche per Ferite e lo faccio anche per Altrove: perché questo titolo? Mi piacciono sempre molto le tue scelte in questo senso perché scegli sempre dei titoli che vogliono dire tutto e niente e che danno spazio a tantissimi significati.
Anche in questo caso, come per tutti gli altri, i miei titoli nascono da uno spunto. In generale, però, mi piace lasciarli anche un po’ liberi di essere interpretati come si vuole.
A me Altrove piaceva, perché ho sempre avuto la percezione fin da giovane e poi anche dopo, frequentando tanti ragazzi nelle mie lezioni, che ci siano delle età, soprattutto l’adolescenza, dove si vorrebbe essere sempre un po’ da un’altra parte. Sembra sempre che ovunque ci si sente un po’ fuori posto. Per questo mi piaceva che Altrove fosse un luogo ideale, dove ognuno vorrebbe essere magari non rendendosi conto che invece il grande dono è proprio quello di essere lì in quel momento della vita, quando sei giovane, quando tutto deve ancora avvenire. Però mi piaceva evocare anche un altro luogo, esistenziale, immaginario, dove vorresti essere al posto di dove sei.
Poi non è detto che si debba leggere in questo modo, ma è un titolo evocativo e devo dire che c’è stato fin dall’inizio senza mai cambiare.
Funziona in questo senso perché raccoglie un altrove spaziale, ma anche temporale.
Mi fa piacere che tu lo veda in questo modo. E se anche non arriva è un titolo per me evocativo. I titoli a volte troppo spiegati non mi convincono molto.
Altri film in programma?
C’è un film girato prima di Altrove, tra l’Albania e l’Italia, ma che, per problemi produttivi, è bloccato al montaggio e che, in teoria, dovrebbe essere il prossimo. Questo mi ha portato in un altro progetto e poi ho un paio di storie che mi piacerebbe sviluppare. Ma adesso seguirò Altrove che farà diverse sale in giro per l’Italia.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli