Scrittrice, drammaturga e sceneggiatrice, oltre ad essere redattrice della sezione Letteratura e Spettacolo per l’Enciclopedia Treccani. Melania Mazzucco è senza dubbio un’artista sfaccettata con molte passioni, tra cui quella per il cinema. Diplomatasi in sceneggiatura presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, ha realizzato numerosi soggetti e sceneggiature per il cinema.
Il C-MOVIE ha accolto il suo ultimo libro, Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne, dove racconta la complessa e talvolta contraddittoria personalità di una delle più importanti figure del cinema muto.
L’intervista
Oltre ad essere una scrittrice, lei è una grande appassionata di cinema e di teatro. Come sono nate queste passioni e come le rese, di fatto, un lavoro?
Mio padre era un drammaturgo, un commediografo e soprattutto un autore di cabaret e quando io ero piccola avevamo anche un Piccolo Teatro “Off”, si diceva allora, a Trastevere. Quindi sono cresciuta anche lì, vedendo le prove degli attori, vedendo nascere i pezzi, gli sketch, ma anche vedendo le prove degli spettacoli più tradizionali, in costume, con mio padre che era anche un traduttore di commedie di autori famosi, da Shakespeare a Sacha Guitry. Il teatro, quindi, è sempre stato parte della mia vita.
Lo stesso vale per il cinema. Durante la mia infanzia e adolescenza, infatti, la Rai trasmetteva tantissimi film, anche molto antichi. Questo lo dico perché c’entra con il mio ultimo libro. Paradossalmente, una bambina degli anni ‘70-‘80 poteva comunque farsi una cultura di cinema muto. Quindi, ad esempio, io vedevo i film di Charlie Chaplin e di Greta Garbo alla Rai durante il pomeriggio, quando finivo i compiti. E poi mi piaceva tantissimo andare al cinema. Era un’epoca nella quale c’erano cinema in tutta la città, essendo io di Roma. Anche nei quartieri di periferia c’erano i cosiddetti “pidocchietti”, che costavano pochissimo e avevano una programmazione anche scadente e scalcinata, però permettevano a tutti di andarci. Per questo motivo mi sono sempre nutrita, oltre che di libri, anche di film e di spettacoli.
Invece per quanto riguarda la scrittura?
La scrittura è stato qualcosa di connaturato a me. Infatti, non riesco a ricordare il momento in cui in effetti ho cominciato a scrivere. Ho sempre scritto. La differenza sta nel fatto che non ho mai pensato di pubblicare: cioè, scrivevo storie fin da bambina, le raccontavo. Ero una persona timidissima e chiacchierina allo stesso tempo. Poi ad un certo punto, intorno ai vent’anni, ho cominciato a sentire l’esigenza di far leggere queste storie. Da lì è cominciato il calvario di tutti gli autori inediti: trovare un editore e poi essere pubblicati. Quindi la scrittura diventa anche un’altra cosa: non più un piacere privato, segreto, che si coltiva la sera, magari dopo aver fatto altre cose, ma è diventata la mia vita tout court.
Il suo nuovo libro, Silenzio. Le 7 vite di Diana Karenne, è incentrato su una figura dimenticata della maggior parte delle persone. Perché scrivere un libro proprio su di lei? Cosa l’ha affascinata particolarmente?
Almeno fin da quando ho iniziato a scrivere, sono stata mossa dal desiderio di raccontare delle storie di persone vere, o inventate, ma sulla base di episodi e fatti reali. Oppure la storia vera di persone realmente esistite, di cui però si è perduta memoria. L’idea è quella di poter dare voce, in qualche modo, a chi la voce non l’ha avuta, oppure di rimettere al loro posto nella nostra memoria delle persone che avrebbero meritato un miglior destino.
Penso a un libro che ho scritto ormai parecchi anni fa, che si chiama Lei così amata e che ha abbastanza affinità, forse, con questo libro su Diana Karenne. Era la storia di una scrittrice Svizzera, poetessa, viaggiatrice, fotografa illustre, anche celebre negli anni Trenta del 1900, morta però giovane e completamente cancellata. Era una donna scomoda, che amava le donne, che si vestiva da uomo, che aveva avuto una vita poco ortodossa, con problemi di droga e di salute mentale, per cui era entrata e uscita dalle cliniche psichiatriche e tutto ciò che lei aveva fatto è stato completamente cancellato. Per questo motivo non la potevi trovare nella storia della letteratura e tutti i suoi libri sono rimasti inediti. Secondo me, invece, era un personaggio che ha incrociato dei momenti importantissimi della cultura europea, fra cui l’avvento del nazismo o l’esilio. Perciò, mi sembrava importante raccontare la sua storia.
Scrissi Lei così amata pensandolo non come una biografia. Infatti, era un romanzo-documentario su di lei. Poi mi sono occupata di Marietta Tintoretta, una pittrice, figlia del Tintoretto. Pittrice del ‘500 addirittura, così importante che quando era in vita ha meritato delle biografie nei libri destinati ai collezionisti d’Europa. E poi di lei non sopravvive neppure un quadro.
Poi mi sono dedicata a Plautilla Bricci, l’architettrice. Un’altra figura straordinaria: la prima donna architetto dell’Europa moderna di cui neppure il nome era sopravvissuto. Le sue opere sono, infatti, ignorate o distrutte. Lei proprio viene letteralmente cancellata. Eppure, era esistita davvero e aveva fatto cose importanti. Forse se si fosse saputa la storia delle donne architetto, la questione sarebbe stata diversa.
Anche Diana fa parte di questa squadra, perché è stata, innanzitutto, una grande attrice. La chiamavano “la Duse del silenzio”, quindi indubbiamente una grande interprete. Però è stata anche una regista e fra l’altro una delle primissime nella storia del cinema in Italia. Soltanto Elvira Notari, infatti, aveva cominciato a girare e dirigere prima di lei. Per di più era anche una straniera che era venuta qui da noi, misteriosamente apparsa senza apparenti raccomandazioni o legami ed era riuscita a crearsi una carriera eccezionale, eccezionale come una meteora, perché poi durò pochissimo. E lei viene completamente cancellata. Il suo nome sparisce, addirittura tutte le notizie che circolano su di lei tutt’ora sui siti Internet sono false; quindi, davvero di lei non si sapeva più nulla. Mi sembrava interessante, anche perché la storia delle donne registe è un altro grande abisso nella nostra storia.
Quando io studiavo cinema negli anni ‘80-‘90 del 900, alla fine c’erano grandi personalità come Lina Wertmüller, Liliana Cavani o anche Giovanna Gagliardo che avevano fatto qualcosa, poi basta. Si pensava ancora, quindi, che questo fosse un mestiere da uomini e a noi ragazze del corso veniva anche detto: “Guarda che tanto non farai la regista”. Invece si scopre che non solo Diana Karenne, ma anche altre donne nel 1916 sono passate dietro la macchina da presa e hanno fatto dei film che sono circolati nelle sale. I film di Diana hanno girato addirittura tutto il mondo. Le è stato permesso. Poi a un certo punto hanno deciso che non andava più bene. Si inizia a pensare: “ci danno fastidio le donne che vogliono fare tutto”. Da quel momento, le impediscono di lavorare. Secondo me è una storia che merita di essere ritrovata.
Sono assolutamente d’accordo. Come è stato, quindi, ricostruire la vita di questa sfaccettata e straordinaria artista?
Questa è stata forse una delle ricerche un po’ più folli che ho fatto in tutti questi anni. Come dicevo prima, di Diana Karenne tutto ciò che si sapeva non era vero. Di conseguenza, sono partita un po’ come a cercare un’ombra nel buio, che è letteralmente l’immagine giusta per un’artista del cinema. Questa, infatti, è una sagoma senza corpo nel buio della sala, fatta però di luce.
Io, inseguendo alcune delle sue tracce che lei ha lasciato dietro di sé, piano piano, ho rimesso insieme i pezzi di questa vita che si è letteralmente disintegrata, in parte anche per sua volontà. Questo forse è l’aspetto anche che mi ha affascinato di più, perché la sua non è la solita storia della diva egoista ed egocentrica che col passare degli anni va in declino, perché sai, passati i trent’anni la bella donna inizia ad essere vista diversamente. Non è questa la sua storia. Lei era una donna che, invece, voleva essere tutto. È stata un’attrice, ma in realtà era anche una scrittrice, una pittrice, addirittura anche una scultrice. Questa è forse la scoperta più sorprendente che ho fatto in questi anni. Progettava cartelloni pubblicitari, faceva recensioni, scriveva saggi di teoria del cinema. Era una personalità veramente complessa. Ed è stata lei stessa, ad un certo punto, a decidere di sparire. Non si è fatta cancellare, ma si è cancellata da sé. Questo insieme di azzeramenti ha portato, appunto, alla sua sparizione totale. A poco a poco, però, tutti questi pezzi della sua vita, anzi, delle sue tante vite, andavano a mettersi insieme. In certi momenti ho avuto l’impressione che lei volesse anche essere ritrovata, perché sono stata molto fortunata in certi ritrovamenti.
Quindi la creazione di questo libro è stato un lavoro molto lungo.
Sì, ma in realtà po’ tutti questi libri di cui ho parlato hanno occupato una parte della mia vita per molti anni. Non li scrivo continuativamente, quindi non posso dire che per 25 anni ho lavorato solo su questo libro. Non è così. Tuttavia, più di 25 anni fa ho cominciato a pensare di voler scrivere di lei e ho scritto effettivamente qualcosa su di lei all’inizio degli anni 2000. Poi mi sono resa conto che non era abbastanza, che non sapevamo nulla, che tutto quello scrivevo era di seconda mano e io non faccio libri di seconda mano (scherzosamente). Devo fare una ricerca in prima persona che deve diventare un’esperienza di vita anche per me. Quindi l’ho lasciato da parte, e l’ho ripreso in modo perpetuo, maturando un’esperienza che mi permetteva di capire anche come cercarla.
Dunque, è stato un percorso molto lungo a cui sono arrivata verso la fine. Verso gli ultimi 5 anni cercavo di tirare le fila di questa tela che avevo tessuto in tutto questo tempo e, guardando indietro, credo che sia giusto che abbia scritto prima il libro su Plautilla, per esempio, perché Diana, insieme a Plautilla, è uno dei pochi miei personaggi che ha una lunga vita. Per scrivere la storia di una donna che ha una lunga vita, secondo me, anche tu devi avere un certo vissuto.
Quando ho scritto di Annemarie Schwarzenbach, che invece è morta 34 anni, io avevo la stessa età. Ero una ragazza come lei, una giovane adolescente che non voleva integrarsi, che non voleva arrendersi alle convenzioni ed è stato giusto stare con lei in quel momento. Invece Diana è una donna che ha raggiunto i 50 anni e ha dimostrato che anche a quell’età si può cambiare vita improvvisamente, rovesciarla radicalmente, diventare un’altra cosa, rivivere. Credo che questa esperienza dovessi farla anch’io come persona per poi avere la capacità come scrittrice di raccontarla.
È sempre più necessario dare spazio a storie di donne forti, indipendenti, che sono disposte a tutto pur di perseguire i loro sogni. La storia, appunto, di Diana potrebbe aiutare i lettori a diventare più consapevoli riguardo l’universo femminile, riconoscendogli una giusta dignità?
Per me è importante raccontare la storia di Diana Karenne, così come la storia di Plautilla, l’architettrice, e di altri personaggi di cui ho scritto, perché bisogna avere una memoria diversa della storia che abbiamo attraversato. Bisogna rimettere al loro posto queste donne che hanno lottato contro il loro tempo, contro le convenzioni, contro la memoria stessa. Sapevano di fare determinate cose, ma anche che queste cose non sarebbero durate. Non voglio riscrivere la storia, né edulcorarla: ad esempio, non voglio dire che Plautilla Bricci fosse migliore di Bernini. Questo non è corretto, non voglio farlo. Tuttavia, è esistita e il fatto stesso di essere esistita dimostra alle donne di oggi, secondo me, che le strade si possono percorrere, anche quando si nasce svantaggiati. Anche quando si è una straniera come Diana, che alla fine è proprio in Italia che ha trovato il posto per realizzare sé stessa o comunque una parte di sé stessa, la parte che le stava più a cuore. Plautilla era figlia di gente qualunque ed è riuscita a costruire una villa bella come quelle che Bernini costruiva per i cardinali di Roma. Questo credo che sia uno stimolo più che altro, senza falsificare il passato, rivelandolo però in qualche modo, come quando si mette un proiettore nel buio per dire: “guarda che invece c’è qualcosa da vedere là”.
Com’è presentare il suo libro all’interno di un Festival che valorizza in particolar modo la dimensione femminile?
Sono molto felice che adesso inizino a uscir fuori anche frammenti di film di Diana che sono stati considerati perduti. L’idea di proiettarli in maniera che chi ha letto il libro, o chi lo leggerà, possa vedere questa donna nella sua fisicità, nella sua realtà, nel suo tempo, mi sembra un dono straordinario. Per questo l’accompagnerò dove sarà possibile. Tra l’altro, questo Festival è organizzato da una delle poche registe di cui si sentiva parlare al tempo in cui mi occupavo anch’io di cinema e non c’erano registe, come dicevo prima, e non c’erano neanche sceneggiatrici e scrittrici. A parte il mito di Suso Cecchi D’Amico, c’erano pochissime donne, quindi che sia un incontro che avviene qui, con Emanuela Piovano, mi sembra veramente bello. Poi Rimini è anche il paese del cinema, perché c’è la memoria di Fellini. Non voglio dire ci sia il suo fantasma, ma si sente proprio la sua presenza in questa città, e per questo è la città del cinema. Che Diana torni qui sembra un premio per lei e anche per me, naturalmente.