L’anno cinematografico 2024/2025 è stato segnato dalle discussioni: dalle polemiche sull’AI di The Brutalist, alle numerose controversie circa Emilia Perez e Karla Sofia Gascon. A questo si aggiungono le critiche ad Anora per la mancanza sul set di un coordinatore per le scene intime. E se nel 2025 hanno imperato contrasti di ogni genere, in una realtà cinematografica fuori dai riconoscimenti sono usciti diversi film interessanti.
Nonostante non abbiano ricevuto nomination in nessuno degli eventi cardine, Golden Globes, Critics Choice Awards, Bafta, Sag Awards, Oscar, i film in questione sono notevoli. Spesso, però, all’interno di questo tipo di meccanismo, non rientrano necessariamente i migliori lungometraggi usciti durante l’anno. Difatti in gioco ci sono spesso tanti altri fattori che prescindono dalla qualità, e i titoli protagonisti del nostro articolo avrebbero meritato decisamente più attenzione. Sono stati tutti presentati a festival, e, nonostante si tratti di generi diversi, in comune hanno una scrittura brillante e cast eccezionali. Da The Bikeriders a Giurato numero 2 vediamo insieme nei dettagli cosa consigliamo di recuperare.
I grandi snobbati della stagione dei premi 2025
The Bikeriders di Jeff Nichols è uno dei lungometraggi caduto sfortunatamente nel periodo degli scioperi SAG-AFTRA 2023. La storia su un iconico club di motociclisti degli anni ’60 è stata infatti presentata al Telluride Film Festival 2023. Purtroppo, uscendo nelle sale solo nel 2024 e in un periodo non propizio, non è riuscito ad avere la giusta risonanza. Durante il Festival di Cannes 2024 ha avuto la premiere anche Furiosa: a Mad Max Saga di George Miller, il brillante prequel del mondo di Mad Max. Al TIFF 2024 è passato l’intenso dramma famigliare His Three Daughters di Azazel Jacobs.
All’AFI Fest 2024 ha avuto la sua anteprima anche uno dei migliori film del 2024, il thriller legale di Clint Eastwood, Giurato numero 2. Blitz, il dramma storico di Steve McQueen, è stato il film d’apertura al BFI 2024. Al SXSW 2024 è stato presentato anche l’apocalittico Civil War. Il film di Alex Garland, nonostante figuri come un classico blockbuster estivo, è molto più autoriale e strutturato di quanto non dicano le premesse. Questa stagione cinematografica ha certificato più che mai che il cinema di qualità esiste anche ben oltre i premi ricevuti. Questi lavori ne sono, infatti, la chiara testimonianza.
Furiosa: a Mad Max Saga
Nel 1979 George Miller debutta al cinema con Mad Max. Si tratta di una storia indie ambientata in un futuro prossimo su un poliziotto che affronta una banda di motociclisti. Più di quattro decenni dopo, sorprendentemente, vive ancora in questo universo. Furiosa rappresenta molte cose: una fetta epica di creazione di miti, un’odissea omerica che amplia il mondo distopico in continua espansione in cui è ambientato. Ma soprattutto il prequel Mad Max: Fury Road del 2015, un film d’azione storicamente eccezionale. Se Fury Road è un’estasi d’azione singolare e inarrestabile, il film del 2024 è più una tensione episodica, divisa in cinque capitoli. Nonostante questo i due lavori sono nettamente diversi, eppure inestricabilmente legati. Anche se collegato A Mad Max Saga, Furiosa appartiene all’omonima protagonista. Non casualmente, la sua metamorfosi da innocente a vendicatrice alimenta questo thriller di vendetta.
Introdotta nel reboot del 2015 (interpretata da Charlize Theron), Furiosa (ora Anya Taylor- Joy) sviluppa qui la sua storia autonoma. Il prequel offre acrobazie ad alta quota e strabilianti inseguimenti nella sabbia che sfidano la gravità. La telecamera funziona in tandem con la colonna sonora propulsiva e scuotente di Tom Holkenborg. Ma, soprattutto, concede un pathos elevato che quasi sovrasta ciò che l’inquadratura può contenere. Nel film coesistono l’iconografia cristiana e la leggenda arturiana al fine di creare una storia affascinante e sorprendente. Nonostante il futuro desolante verso cui ci guida, Furiosa è un’epopea ricca e tentacolare che rafforza e approfondisce la mitologia di Mad Max.
Ancorata in un’oasi protetta, la giovane Furiosa (prima Alyla Browne poi Anya Taylor- Joy) non sa nulla del mondo desolante e morente fuori da lì. Un giorno una banda di motociclisti predoni rapisce la piccola per portarla dal loro leader, Dementus (Chris Hemsworth). Nella prima parte, come prigioniera, assorbe silenziosamente la violenza, immagazzinandola per quello che sarebbe stato il dopo. Se Mad Max si svolge in 3 giorni, Furiosa si dipana nell’arco di 15 anni, e questo si traduce con un ritmo più lento. Verso metà film la ragazzina viene affidata con riluttanza da Dementus al signore della guerra, Immortan Joe (Lachy Hulme), al fine di diventarne una delle sue mogli. Quindi la protagonista escogita un modo per sottrarsi a ciò, studiando la sua vendetta verso tutti i padroni.
Entrambe le attrici protagoniste trovano il giusto equilibrio tra la durezza e l’umanità fratturata che Charlize Theron ha instillato in Fury Road. Taylor- Joy in particolare è fenomenale, i suoi grandi occhi e la sua forza emotiva colpiscono in dialoghi limitati ma significativi. La sua fisicità viene utilizzata per esprimere la crescente forza, la determinazione e il senso di lealtà che caratterizzeranno il personaggio di Theron. Al contrario, il personaggio di Chris Hemsworth è un despota carismatico e chiacchierone. Contro di lui, la giovane Furiosa lotta con speranza contro l’odio, cercando giustizia in un mondo disumano. È interessante vedere come Miller usi Dementus per far capire come ragionano molti elementi della saga. L’uomo tratta la protagonista con una bizzarra miscela di paternalismo e ferocia. E queste buffonate sono solo il preludio al male assoluto. Non a caso, nei film del regista tutto è spesso sul punto di esaurirsi e morire.
Il film è un racconto di vendetta e persino una sorta di bildungsroman. Il cineasta fa un passo in avanti in questi termini, fino a Furiosa i personaggi della saga sono arrivati completamente formati. Le loro menti e i loro atteggiamenti sono modellati da un mondo morente. Nell’ultimo film tuttavia, osserviamo una giovane brillante e innocente perdere tutto. Se in Fury Road ha una fiducia tranquilla, qui è permeata di un’ansia vigile. Furiosa passa da sopravvivente improvvisata a una figura più fredda ben decisa a scendere all’inferno per vendicarsi. Miller ha preso un suo grande franchising trasformandolo in qualcosa di cupo, atipico, sublime, rimanendo fedele al suo mondo. Ed è uno dei migliori prequel degli ultimi decenni. Furiosa è disponibile su Sky e Now TV.

Anya Taylor-Joy nei panni di Furiosa
The Bikeriders
L’America ha una lunga storia d’amore con la cultura motociclistica. Non è un caso che il cinema l’abbia saputa immortalare in film come Il selvaggio (1953) e Easy Rider (1969) fino alla serie Sons of Anarchy (2008). Jeff Nichols ha parlato per anni con Michael Shannon sul fare un lungometraggio su questo mondo, realizzando il sogno con The Bikeriders (2023). Basato sull’omonimo libro di fotografie di Danny Lyon del 1967, il film offre uno sguardo sulla vita del club motociclistico The Chicago Outlaws. Il leggendario gruppo del Midwest viene modificato cinematograficamente in Vandals. Non è un caso che il progetto sia nato nelle conversazioni tra il regista e il suo amico attore. Difatti The Bikeriders è una riflessione sull’amicizia nell’ambiente con il maggior potenziale di mascolinità tossica: i gruppi di motociclismo degli anni ’60.
Guidati dal loro fondatore Johnny (Tom Hardy), i Vandals sono un agglomerato di outsiders che condividono la passione per la musica alta, le moto e le donne. Tra i vari personaggi si distingue il preferito di Johnny, il giovane e cupo Benny (Austin Butler). Il mezzo al vortice di machismo, il regista, con lo stile mosca sul muro, si concentra sui ricordi di Kathy (Jodie Comer). I racconti dei suoi anni difficili trascorsi da innamorata di Benny si svolgono dieci anni dopo l’epopea d’oro del club. Ma, cosa più importante, le sue confessioni avvengono con il fotografo Danny (Mike Faist), colui che realmente ha ripreso il gruppo durante le loro scorribande.
La narrazione viaggia nel tempo: tra i primi anni del club, la vita privata di Kathy e Benny, i rapporti tra i vari affiliati. Quindi anche le rivalità con altre associazioni, la violenza, la morte e le rivelazioni fatte nel 1975 dalla protagonista. Le performance carismatiche del cast sono fondamentali per il fascino di The Bikeriders. In particolare a restare impressi sono la romantica riluttante Comer e Hardy, il capo che si rende conto di non riuscire a tenere il passo col mondo che cambia. Ma anche i personaggi minori sono tasselli fondamentali. Dal Cal di Boyd Holbrook al Corky di Karl Gusman.
Nichols sceglie di mostrarci la prospettiva tenera e romantica di Kathy su Benny per inquadrare la storia. Questa morbidezza contrasta con i toni duri della banda unita. Se le birre corrono veloci dentro di loro, in parallelo scorre anche il sangue. In una scena scoppia una rissa durante un ameno picnic, a seguito di un’accusa di vandalismo ad uno dei Vandals. Tutto finisce comicamente, con una bevuta collettiva. Il senso dell’umorismo smorza parte della tensione, poiché sono presenti diversi momenti scioccanti di brutalità. Questi colpiscono più duramente per l’affetto che abbiamo sviluppato verso questo comitiva di rinnegati duri ma ben intenzionati.
Il ritmo resta sempre intenso grazie alle conversazioni tra Kathy e Danny. Nonostante l’argomento intrigante, non succede molto in The Bikeriders. Ma è lo squarcio di vita degli anni ’50 e ’60 del Midwest americano che ne esce a renderlo brillante. Le relazioni interne ai Vandals sono l’altro elemento cardine. Nella fattispecie il rapporto tra Johnny e Benny, con il primo che tenta di plasmare il secondo. Questo andamento relativamente tranquillo è in contrasto con i rombi delle moto, ma in linea con la volontà del regista di concentrarsi sulle storie umane. Il lungometraggio cattura certamente la comunità di questi uomini, tra scontri tra bande, le loro giornate al club, la loro vita al limite, le serate con le birre in mano.
La storia mostra la fine dell’età dell’oro degli anni ’60, quando c’è stato lo spostamento verso attività più criminali. Ma il film è perlopiù un tributo nostalgico degli anni passati e alla vita su strada. Chi si aspetta la scarica di adrenalina può rimanere sopraffatto da quella che è invece un’interpretazione contemplativa della cultura motociclistica. La visione affettuosa di una sottocultura fatta da Nichols sembra piuttosto l’unione tra Gioventù bruciata (1955) e Easy Rider. E per questo è assolutamente imperdibile. The Bikeriders si trova disponibile su Sky e Now TV.

Butler e Comer in una scena di The Bikeriders
Civil War
Non impariamo mai davvero cos’abbia portato alla guerra civile protagonista di Civil War (2024). Ed è proprio questa la caratteristica più interessante del film di Alex Garland, uscito l’estate scorsa nelle sale e disponibile ora su Amazon Prime Video. La vaghezza narrativa sulle origini della divisione in tre fazioni di guerra degli Stati Uniti può aprire a ogni ideologia e teoria. Inoltre, la mancanza di specificità rende questa storia malleabile, indipendentemente dalla familiarità con la politica americana, anzi meno si sa più il conflitto raccontato ha senso. Allo stesso tempo è vero il contrario, cioè che la logica di questa guerra, così com’è sviluppata nel film, oggi non può essere attuabile. Ma è allora che Civil War evita la questione perché la trama reale riguarda meno il conflitto intra-statale e più un grande racconto on the road.
I protagonisti sono una comitiva di giornalisti che viaggiano verso Washington D.C. per cercare di intervistare il presidente, documentando lo stato degli USA lungo la strada. È questo il trucco che Garland usa per trasformare un lungometraggio bellico in qualcosa di più sostanzioso. Il punto di ingresso con la storia è Lee (Kirsten Dunst), una fotografa veterana di guerra che ha visto ogni atrocità umana possibile. Ormai desensibilizzata alla violenza è accompagnata dal collega Joel (Wagner Moura). La loro dinamica di rapporto offre una certa leggerezza necessaria in quella che altrimenti sarebbe una vicenda straziante. Moura infatti, col suo entusiasmo contagioso e positivo, fa da contralto alla cupezza di Dunst.
Con il gruppo c’è Sammy (Stephen McKinley Henderson), un redattore più anziano che diventa una sorta di genitore per la giovane intraprendente Jessie (Cailee Spaeny). Quest’ultima dà qui al suo personaggio il tipo di ingenuità che l’ha resa così affascinante in Priscilla (2023), nonostante la situazione orribile di fondo. Jessie idolatra Lee e vuole partecipare al viaggio dei giornalisti, inconscia di cosa stia accadendo. Questa è la chiave di Civil War: con questo film Garland ha voluto scrivere una grande lettera d’amore al potere del giornalismo. Quindi alla dedizione, all’impatto, al sacrificio, alla gioia e all’emozione di consegnare notizie importanti, come aveva fatto Aaron Sorkin nella serie The Newsroom (2012). Sin dalla prima scena collettiva, quando i protagonisti chiacchierano in hotel, il film offre una fedele rappresentazione di come i fotoreporter affrontano gli orrori che vedono.
Si tratta di scenari brutali, ma possibilmente reali, che le persone pensano non potranno mai accadere. Per farlo il regista adotta un approccio radicato e preciso alla violenza: mostrare corpi incendiati o che saltano in aria. Le immagini fisiche, dai tempi de La corazzata Potëmkin (1925), suggeriscono cosa accade durante le guerre. Quindi servono a far capire quanto tutto possa essere vero. A tutto ciò, risulta funzionale anche l’uso del suono: ci sono lunghi tratti di silenzi assoluti che aumentano la tensione e aiutano a mostrare l’assuefazione dei personaggi alla crudezza. Ne sono un esempio i suoni assordanti degli spari che diventano spaventosi come un classico horror, perché è la guerra stessa a essere terrificante.
Il film, il più costoso mai prodotto da A24, ha davvero una portata epica. In modo intelligente, il fotogiornalismo è integrato nel montaggio stesso. In questa maniera si riesce a interpretare costantemente le foto che i personaggi stanno scattando nel lungometraggio. Tutto ciò mostra come una storia diventi un’immagine e come quest’ultima racconti una piccola parte di una narrazione bellica. L’ottima riuscita di Civil War sta nell’aver saputo coniugare il blockbuster estivo con un viaggio che i protagonisti fanno su loro stessi e su come la guerra li influenzi. Nonostante non sia andato a premi è un film interessante che offre una prospettiva differente sull’importanza del giornalismo in tempi di conflitti. Ora più che mai.

Wagner Moura in una scena di Civil War
His Three Daughters
La pandemia ha permesso il proliferare di film drama ambientati in una sola stanza. Questo genere cinematografico è avvincente ed è una forza svelatrice di problemi, sogni, snodi, soluzioni, emozioni complesse. Ne sono un recente esempio Quella notte a Miami… (2019), Malcolm & Marie (2021) e The Whale (2022). È in questa linea ideale che si inserisce His Three Daughters (2024) di Azazel Jacobs. La sceneggiatrice-regista plasma la vicenda per creare un ritratto profondamente empatico. Ma anche ricco di traumi di lunga data, rancori, amore e sorellanza. Il titolo, disponibile su Netflix, si presenta come una materia semplice, ma ha molte cose commoventi da dire. Se si pensa a drammi ambientati in un solo posto ci si immagina un racconto stile pièce teatrale, poco dinamico. Invece, qui, la regia afferma la sua esistenza cinematografica grazie a un coinvolgente lavoro di ripresa che ci mantiene allenati sull’interiorità dei personaggi.
Il lungometraggio è incentrato su tre sorelle che si ritrovano a convivere per prendersi cura del padre malato nei giorni finali della sua vita. Si tratta di Katie (Carrie Coon), Rachel (Natasha Lyonne) e Christina (Elisabeth Olsen) e del loro amato papà Vincent (Jay O. Sanders). Ambientato all’interno di un appartamento di New York, la cineasta usa il concetto di confino in un piccolo spazio per sostenere la tensione familiare. La morte spesso tira fuori il peggio nelle persone. In questa circostanza, con i vecchi rancori riportati in superficie, gli esseri umani tendono a rivelare se stessi e le loro vere intenzioni. Così le sorelle devono trovare un punto in comune nonostante le incomprensioni. Il dolore ha il potere di rompere e creare. La regista ha permesso ai personaggi di rivelarsi pezzo per pezzo, lasciando spazio allo spettatore di entrare nelle loro vite.
Katie è in guerra con la figlia adolescente. Christina ha problemi con la famiglia, Rachel si è assunta la responsabilità del padre prima dell’arrivo delle sorelle. Jacobs stabilisce chiaramente chi è ogni personaggio, il loro ruolo percepito nella morte del padre e il loro rapporto reciproco. Questo ha dato lo spazio necessario alle tre talentuose attrici di mostrare ogni abilità mentre danno vita alle sfumature dei loro personaggi. Coon indossa il mondo perfettamente apparecchiato di Katie, con una personalità affidabile e meticolosa. Dai minutaggi che fa di ogni azione, alle liste di cose di cui prendersi cura. La maggior parte dei momenti tensivi raggiungono il culmine nelle discussioni tra lei e Rachel. Quest’ultima appare come quella che vive nel suo mondo, apparentemente distaccata. Ha costruito un muro quasi impenetrabile, che crolla solo in alcuni momenti di solitudine.
Lyonne riesce naturalmente a modulare il sarcasmo per rigettare le critiche della sorella, incapace di immedesimarsi nel suo stile di vita. Olsen ha un ruolo meno approfondito ma è un’artista così capace da sfruttare al massimo il materiale minimo. La sua Christina abita in un paese, è una giovane madre e cerca di fare da paciere mentre tutti attorno fanno i conti con l’inevitabile. Invece il padre Vincent è un’entità fuori dallo schermo che si percepisce costantemente senza vederlo. La presenza la sentiamo dai bip del cardiofrequenzimetro, fino ad un inaspettato climax finale. Il film affronta in modo sorprendentemente brillante la noia intima, a volte soffocante, dell’attesa di una morte annunciata. L’alimentatore della storia è una sceneggiatura sottilmente drammatica fagocitata da un umorismo acuto che porta gli spettatori in un denso viaggio emotivo.
Questo approccio evita il melodramma e permette di costruire una storia soddisfacente di riconciliazione e comprensione senza diventare troppo prevedibile. La forza di His Three Daughter è che si evolve naturalmente, con le oscillazioni dei personaggi non costanti e non scontate. Il fatto che sia uno dei film drammatici migliore dell’anno sta proprio nel modo in cui Jacobs fa sentire queste donne come reali, come se fossero sempre esistite al di fuori degli eventi del film.

His Three Daughters: una scena del film
Blitz
Blitz (2024) di Steve McQueen è uno sguardo triste e cupo nel momento storico, noto come “blitz”, in cui le bombe tedesche sono piovute su Londra. Passato ingiustamente in sordina (è uscito direttamente su APPLE TV+), si tratta in realtà un dramma storico accuratamente sviluppato. Il film ci immerge nel caos e nella devastazione: le bombe cadono, gli edifici sono in fiamme. Tutto è in balia della totale casualità, della sopravvivenza e della morte. Ma il film, anche se non è esattamente fatto per bambini, è comunque la storia di un bambino. E, sorprendentemente, ha potenti momenti di meraviglia, umorismo e persino gioia. Non c’è stata carenza di titoli che abbiano mostrato la seconda guerra mondiale attraverso gli occhi dell’infanzia. Da L’impero del sole (1987) a Arrivederci ragazzi (1987) fino a Va e vedi (1985), l’innocenza giovanile amplifica gli orrori della guerra.
In Anni ’40 (1987) c’è un racconto autobiografico di John Boorman sui suoi anni fanciulleschi durante il “blitz”. Il ritratto di Boorman è adattato nello stesso momento storico in cui è ambientato Blitz di McQueen. La pellicola del 2024 segue un bambino di 9 anni di nome George, l’esordiente Elliott Heffernan. È il 1940, e ci sono i raid aerei notturni che si intensificano sempre più su cieli d’Inghilterra. In questa situazione la madre di George, Rita, l’intensa e luminosa Saoirse Ronan, decide di mandarlo in campagna, come scelgono di fare centinaia di migliaia di famiglie. Il ragazzino non vuole andare, la mamma cerca di giocare la carta del fare amicizia per convincerlo. La seconda parte della storia diventa quella di una madre e di un bambino che cercano di ritrovarsi attraverso un paesaggio bombardato.
Se sulla carta rischia di cadere in convenzioni rigide, in realtà McQueen sferra qualcosa di appuntito e persino sovversivo. Il piccolo, che non ha mai conosciuto il padre, è figlio di una donna bianca e di un uomo nero immigrato. Quest’ultimo è stato ingiustamente deportato anni prima, come si vede in un flashback. Il protagonista respira da sempre in prima persona il razzismo vissuto dal genitore. Ecco perché non può sopportare di essere separato dalla mamma e dal nonno Gerard (il cantautore Paul Weller). Così, non molto tempo dopo essere partito, salta dal treno e torna a Londra. Blitz segue la sua tortuosa epopea di ritorno verso casa. In alcuni momenti la storia prende oscuramente vie dickensiane, come quando George incappa in un gruppo di ladri che sfruttano il blitz a loro vantaggio. In altri svolte più tenere, come quando incontra tre coetanei su un treno preso furtivamente.
Ma c’è un incontro che diventa anche il nocciolo portante del film, quello con Ife (Benjamin Clementine). Si tratta di un immigrato nigeriano gentile e amichevole, guardiano di raid aerei. Ed è il primo nero che il ragazzino vede in posizione di autorità. È qui che la profondità della visione del cineasta viene messa a fuoco. Potrebbe lavorare in modo più classico, visto il tema, come in 12 anni schiavo (2014), invece qui c’è qualcosa di silenziosamente radicale nella sua prospettiva. Ci sta mostrando un’Inghilterra razzialmente più diversificata e divisa di quanto la maggior parte dei film che trattano quel periodo abbiano mai mostrato.
Nonostante le immagini aspre e apocalittiche, la Londra di Blitz è piena di vita, e McQueen usa l’espediente musicale per comunicarlo. La musica non è solo la potente colonna sonora di Hans Zimmer ma permea la vita di quei giorni cupi. Il regista ci guida in una sala da ballo dove musicisti neri si esibiscono per festaioli bianchi in un pub dove anche il nonno di George suona. Quest’ultimo suona sempre al pianoforte a casa. Rita ha una voce bellissima, vince un concorso canoro e canta in fabbrica dove con la sua canzone rallegra la folla. Una melodia scritta per caso dal cineasta e Nicholas Britell. La musica non è mai solo un diversivo in queste situazioni, piuttosto le canzoni sono di sfida, in esse si sente la volontà stessa di una nazione di sopravvivere.

Rita (Ronan) e il figlio George (Heffernan) in una scena del film
Giurato numero 2
Clint Eastwood ha una visione scettica delle istituzioni e dei loro fallimenti, che si tratti di manipolazioni dei media come in Sully (2015) o Richard Jewill (2018) o di una forza politica corrotta come in Changeling (2008). Anche il suo ultimo film, Giurato numero 2 (2024), viaggia sulla linea di mostrare un sistema americano rotto e corrotto. In una sceneggiatura di debutto dello scrittore Jonathan A. Abrams, il lungometraggio risulta spinoso e riflessivo nel prendere di mira il sistema giudiziario americano. Si opera partendo dai personaggi per aprirsi in seguito verso un quadro più ampio. Quindi, dagli avvocati che si fanno strada senza scrupoli, ai giurati stanchi che vogliono solo consegnare un verdetto il prima possibile. Fino alle faglie procedurali e agli elementi ciechi che fanno sembrare la verità troppo sfuggente.
Il giornalista Justin Kemp (Nicholas Hoult) è scelto tra i giurati del processo sulla morte di Kendall Carter (Francesca Eastwood). Il fidanzato della donna, James Sythe (Gabriel Basso), è accusato di omicidio perché dei testimoni hanno visto la coppia discutere la sera prima in un bar. Il corpo della vittima viene ritrovato a Savannah in Georgia, sotto un ponte non lontano dal pub, nella zone dove si svolge la storia. Quando il processo inizia Kemp ascolta entrambe le parti della storia e iniziano in lui a vacillare ricordi della serata. Si scopre che oltre a essere al bar la notte dell’incidente, potrebbe esserci qualcosa di ben più grande che lo lega a quell’omicidio.
Dopo la premessa, Giurato numero 2 si trasforma in un dramma psicologico affascinante e sfaccettato. Un lucido thriller sulla permanenza delle nostre azioni e sul dilemma etico in gioco quando affrontiamo potenziali effetti a catena. Per quanto stiamo dalla parte di Justin, in via di guarigione dall’alcool e con la moglie incinta (Zoey Deutch), ci appoggiamo anche alle dure ramificazioni della situazione. La performance di Hoult ritrae emozioni complesse tramite espressioni facciali, in particolare nei suoi occhi, vetrina cristallina di un tumulto interiore. In un certo senso il film ricorda La parola ai giurati (1957) dove un uomo cerca di influenzare i compagni di giuria non per portare giustizia ma per lenire la propria coscienza. Infatti gli altri giurati sviluppano prospettive diverse a causa dei dubbi che insinua Kemp.
Gli altri caratteristi sono invischiati nella complessità dei dettagli del processo. Tra pregiudizi e scetticismo su incongruenze, ognuno di loro ha uno spazio per esprimersi. J.K Simmons porta la sua intelligenza nel ruolo di uno dei pochi alleati di Justin. Mentre Cedric Yarbrough alza la tensione incaponendosi convintamente sulla colpevolezza dell’imputato. La figura più avvincente in aula è la procuratrice, Faith, interpretata con sfumature formidabili da Toni Collette. La donna svolge il suo lavoro con integrità e abilità ma la sua ambizione di carriera la porta a un dilemma morale. Giurato numero 2 intreccia i sentimenti contrastanti della giuria e i tentativi del giornalista di guadagnare tempo per capire meglio come agire a causa della sua implicazione nel processo. E Eastwood, a 94 anni, dirige il giallo senza sforzo e con piglio adrenalinico.
Quando il film raggiunge la sua ambigua ripresa finale, ti sentirai come se avessi sentito tutto ciò che dovevi sapere ma allo stesso tempo vuoi ancora riflettere su ciò che non è stato chiarito. Il lungometraggio si inserisce così tra thriller legali degli anni ’90, come Tempo di uccidere (1996) e Codice d’onore (1992). Giurato numero 2 è dato da molti come ultimo film del mitico regista, fosse così dovrebbe essere incredibilmente orgoglioso di come ha concluso la carriera. Questo certifica ulteriormente la sua imponente eredità. Il suo lavoro è in assoluto il grande assente a questa stagione dei premi, ma ha ottenuto consensi unanimi e un grande successo di sala. Se si amano i thriller a carattere processuale e la regia coinvolgente di Clint Eastwood non bisogna perdere per alcun motivo questo titolo straordinario. Lo troviamo disponibile per l’acquisto o il noleggio su Amazon Prime Video e APPLE+TV.

Nicholas Hoult in Giurato numero 2