Anno: 2010
Durata: 91′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Svizzera
Regia: Erik Bernasconi
Nessuno spazio alla cognizione, sono l’occhio, l’orecchio, il tatto e il gusto ad avere un ruolo nel fenomeno sinestetico. Sensi contaminati l’uno nell’altro, come risposte sensoriali multiple, sfaccettate, mutevoli, rispetto ad un unico evento. Da qui il prologo, l’evento scatenante, l’incipit: tra le montagne svizzere, dopo avere deciso di lasciare la moglie, un uomo, con la sua amante, ha un incidente in moto.
Sul fluire dell’acqua in un ruscello, si apre il film, Sinestesia. La camera è fissa, sembra indugiare per qualche attimo per mostrarci il tema centrale, lo scorrere del tempo, delle idee, delle circostanze che scaturiscono da qualcosa che accade e a cui bisogna far fronte. Subito dopo la macchina tentenna sui corpi dei due amanti, si insinua frenetica ora sulle mani, sulle bocche, poi sulle parole, quelle che lui pronuncia come promessa: “lascio mia moglie”. Poi l’incidente, un tronco scivola da una vallata e sulla strada investe la moto su cui loro ridono felici.
Diviso in capitoli, ognuno dei quali ha per tema un personaggio: la moglie, l’amante, l’amico e lui stesso, il protagonista, a chiudere il cerchio. I quattro personaggi raccontano una storia in fieri, ciò che precede l’evento dal quale tutto nasce, ciò che segue ed il fluire dei momenti di quiete. Un bianco abbacinante chiude ogni capitolo, come gli occhi che chiudendosi portano ad uno stato di incoscienza, ed aprendosi di nuovo prima di poter mettere a fuoco la realtà ne hanno una percezione indistinta, senza riuscire a scindere le cose. Così bisogna fare un passo indietro per mettere a fuoco, perché la ragione ritrovi il senso di un discorso che, seppur diviso, rappresenta un tutto solo se osservato da una certa distanza.
Dopo l’uscita nelle sale svizzere nel 2010 (e nominato come miglior sceneggiatura ai Quarz del 2010), il film, opera prima di Erik Bernasconi, procede per ellissi, mancanze, sottolineature che ricorrono ai diversi stili cinematografici più che suddividere il film, come è stato scritto, in quattro generi differenti.
“Il film si presta ad una compenetrazioni di generi più che ad una scelta stilistica precisa” – afferma il regista – e infatti ciò che emerge è la tendenza ad ammiccare a stili cinematografici differenti, piegati al proprio gioco: una buona sceneggiatura trasposta in un film.
Guarda al Decalogo di Kieślowski il giovane regista svizzero, scegliendo tuttavia come espediente narrativo una molteplicità di storie scaturite da un unico evento. Quattro personaggi, quattro storie, quattro sguardi che raccontano ora con toni sentimentali, comici, drammatici e adrenalinici, la propria risposta ad un evento tragico. Eppure è ancora di natura letteraria l’espediente narrativo messo in atto, straniante, ma pur sempre semplice narrazione, senza che questa si traduca in una scelta registica tale da fare del racconto un film.
Martina Bonichi