A Thousand Blows è una serie creata da Steven Knight, il quale in precedenza aveva sottoscritto, contando anche altri progetti, le sei stagioni di Peaky Blinders e il lungometraggio Locke (2013) con Tom Hardy. La serie di Star Original è uscita il 21 febbraio su Disney +.
Nel 2025 Knight, reduce da certi vecchi lavori dall’atmosfera plumbea e crepuscolare, firma un prodotto questa volta calato sull’Est londinese durante i sessant’anni vittoriani. La storia – vera – di due amici giamaicani che affrontano la Londra della povertà e dell’ingiustizia sociale, passa attraverso i racconti di Charles Dickens e il pugilato combattuto sul ring, senza guantoni. Ma soprattutto senza la certezza di uscirne vivi. Il racconto storico del period drama fuso allo sport e al romantico, fa luccicare la trazione di Knight verso gli elementi crudi e spietati di un falso quieto vivere. La razza e la classe non devono confondere quando si lotta a pugni alzati, quando un colpo sotto la cinta vale come un furto o un bacio sulla mano.
A Thousand Blows, pur cedendo ad alcuni cliché del cinema sulla boxe, rimane salda al centro, in bilico perfetto tra chi va alla ricerca di un posto nel mondo e chi invece lo ha già trovato. Nel mezzo, il perpetuo equilibrio di colui che non cerca nulla se non il suo Io.
A Thousand Blows, due anime sperdute a est di Londra
Hezekiah Moscow (Malachi Kirby) e Alec Munroe (Francis Lovehall), arrivati da Kingston, Giamaica, a Londra, cercano di ambientarsi e di adattarsi allo stile di vita delle persone che vedono passare per strada. Il loro primo incontro con gente del luogo non sarà il caso in sé a deciderlo, ma la serendipità permetterà ai due migliori amici di ribellarsi alla loro condizione di “visitatori” e di concedersi lussi inizialmente a loro preclusi. Questo primo contatto influenzato dalla sorte avverrà nei pressi di una calca di curiosi che assistono a una donna partoriente su una strada principale. Sorpresi ad abbassare gli occhi a quella vista, Hezekiah e Alec scoprono la truffa allestita dalla donna “incinta” e da quelle che l’hanno soccorsa: un espediente atto a catturare l’attenzione dei passanti, ignari tuttavia di venire nel frattempo borseggiati da altre complici.
A capo del gruppo di ladre è Mary Carr (Erin Doherty), una donna dura e insensibile, denominata la Regina dei 40 Elefanti. Il suo giro di affari è grande quanto London East, e rappresenta un pericolo per i due giovani giamaicani che si ritroveranno inevitabilmente coinvolti. Tra le conoscenze di Mary, un pugile e proprietario del ristorante più famoso di quella parte di Londra, “Sugar” Goodson (Stephen Graham), si trova un giorno a scontrarsi con Hezekiah Moscow, anch’egli capace lottatore. La disputa tra i due va a favore di Moscow, che per la sua rapidità non riesce a farsi abbattere da Sugar, il quale è dunque costretto a barare per avere la meglio e vincere.
Ma Sugar non sopporta di farsi dare del baro, così opta per la rivincita. Nel frattempo, grazie alla buona parola messa da Mary, Hezekiah e Alec entrano in un circolo di boxe “da gentiluomini” del West London, contrario al modo di combattere vecchio stile di Sugar, abituato a mani e piedi nudi. Qui il giamaicano, nel quale vengono riposte molte – seppur incerte – speranze, si sottopone a continue prove per prepararsi a uno scontro impossibile, forse persino da immaginare: battersi con il campione indiscusso statunitense, Buster Williams. Così, le aspettative di Sugar, in bilico tra pudore e rivalsa, vengono pestate dai piedi di pesanti “elefanti” e dai sogni di un temerario “domatore di leoni”.
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Fotogramma dell’episodio 1 di ‘A Thousand Blows’ (2025)
“We can be men, but we are not human”: l’istanza antirazzista a London “fucking” East
Sebbene A Thousand Blows sia stata puntellata di simboli e significati interpretabili, non manca di segnalare una morale che lu sottende tutti e che, anzi, fa anche più di questo. Fin dalla loro prima apparizione in scena, il colore di pelle dei due protagonisti non viene mai dato per scontato. C’è chi manifesta questa mancata scontentezza con aperto dissenso, e chi altri con meraviglia o scherno. Più di tutti, spicca la figura del proprietario del Giardino Zoologico, dal quale Hezekiah ricevette un’allettante offerta di impiego – questo il motivo della sua partenzaa dalla Giamaica – e verso il quale, sin dalla sua conoscenza, in una stalla intento a urinare, constatiamo di provare poca stima. Quando, infine, il lavoro offerto dall’uomo a Hezekiah si rivela per quello che è davvero, ovvero una scusa per rinchiudere quest’ultimo in una gabbia ed esibirlo come un “selvaggio dell’Africa”, ecco che la morale entra prepotentemente nella narrazione. Per non lasciarla più.
I rimandi a un’istanza superiore, volta a dare un senso, ma non a giustificare certi comportamenti di cui veniamo resi spettatori, tessono la trama di episodi più loquaci del primo. Senza risultare ridondante, e per questo noiosa, la reiterazione è volta a meglio precisare quello che Hezekiah, in un contraddittorio gioco di parole – che suona tanto come un ossimoro – afferma: “We can be men, but we are not human“. Il conflitto tra ideologie, razza, gerarchia, non si interrompe nemmeno a una cena di classe organizzata dal Conte di Lonsdale al cospetto della delegazione dell’Imperatore di Cina. Nella rispettabilità delle maniere e nell’ipocrisia di mostrarsi per quello che non si è, ancora una volta è Hezekiah – il personaggio più incongruo a quell’invito a tavola – a riportarci brutalmente alla realtà. Sentirsi liberi è diverso dall’esserlo per davvero, anche se forse la prima delle due opzioni vale molti più sacrifici della seconda.
I protagonisti, immersi in un lugubre milieu che non risparmia nessuno, si ritrovano a improvvisare le proprie vite. Ogni giorno è la volta buona che qualcosa possa andare storto, fuori schema, e che un intero mondo crolli sopra fragili fondamenta.
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Boxe e politica
A Thousand Blows è un serie che, nel non voler ostentare alcunché, conosce i propri limiti e gioca con questi. Essi si concentrano soprattutto nella boxe, che costituisce buona metà della trama. Tralasciando però il suo ruolo principe nel creare fondamentali nodi di intreccio, lo sport compiuto sul ring risente di un gravoso retaggio cinematografico che non può, in ogni maniera, essere ignorato. Per questo motivo, tuttavia, la propria rilevanza alla trama risulta ridimensionata in misura alla mancata originalità di certe proprie formule. Breve ma intenso il momento finale del primo incontro disputato da Moscow al club di boxing di Londra Ovest. In questa sequenza, il contendente giamaicano, aizzato da Alec, da destrorso diventa sinistro, cogliendo l’avversario alla sprovvista e vincendo il round. Una scena che ricorda il finale di Day of the fight (2024, Jack Huston). Uno sport, quella della boxe, che si misura con un vasto repertorio filmico dal quale è improbabile discostarsi e non prenderne esempio.
Ma la boxe è anche regno di svecchiamento, il nuovo che passa davanti al vecchio, dove la difficoltà di adeguarsi al vento del cambiamento è spesso un ostacolo troppo alto da superare. Così Sugar si vede escluso da un mondo di cui era Re, tranciato da una generazione più giovane o anche solo da un’altra sponda dello stesso torrente.
I sei episodi di cui la serie è composta alternano bene tutte le dimensioni: ci sono il pugilato, la politica, la storia del periodo di Tempi difficili, il romanticismo. Più di tutto, c’è una lieve ma onnipresente vena di perentoria lucidità nel raccontare i fatti, che prende le distanze da intenti moraleggianti per mettere a nudo le bruttezze e le storture della società.