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Underground

Francis Bacon e la logica della sensazione

“Distorsione e disgusto. Macabra necessità di convogliare sulla tela la brutalità dei fatti.La figura di Francis Bacon si erge all’interno delle battaglie artistiche del secondo Novecento come un unicum capace di violentare la percezione del secolo pur conservandosi nell’ambito della pittura figurativa.”

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Distorsione e disgusto. Macabra necessità di convogliare sulla tela la brutalità dei fatti.La figura di Francis Bacon si erge all’interno delle battaglie artistiche del secondo Novecento come un unicum capace di violentare la percezione del secolo pur conservandosi nell’ambito della pittura figurativa.

Una serata che il Detour ho organizzato in collaborazione con Federico Febbo, già orchestratore di altri incontri con menti “differenti”, dislocate in una dimensione ulteriore di ricerca (Deleuze, C.Bene, J.Lacan), ha permesso una parziale ricognizione sul percorso dis-umano del pittore d’origine irlandese, inizialmente visibile in prima persona in un documentario girato da uno dei critici d’arte più fedeli al suo lavoro, David Sylvester, e poi ri-presentato dall’attore Derek Jacobi nel poco convenzionale biopic Love is the Devil, diretto da John Marbury.

Girato tra le mura dello studio-abitazione londinese di Bacon, il caotico polveroso e multistratificato rifugio in cui il pittore ha vissuto per più di venti anni accumulando materiale ed esperienze per le sue tele, il lavoro di Sylvester è un’atipica e per nulla formale intervista, un dialogo che, tra l’irruento e il meditativo, esplora le tappe della vita e della creazione baconiana (così come le stanze del suo studio) attraverso le confessioni dell’artista stesso, senza che una voce fuori campo faccia da bilancia o giudice.

Così, oltre a permetterci di risalire alle origini delle scelte dell’artista (folgorato da Picasso, scelse d’iniziare a dipingere. Distrusse buona parte della sue opere prima di sconvolger il mondo dell’arte con quel celebre Trittico ora esposto alla Tate di Londra), il documentario riesce a inoltrarci nel suo metodo di lavoro: nella volontà di voler catturare la realtà senza la vacua scorciatoia dell’illustrazione, Bacon ripete più volte di come, inibito dai “modelli reali”, ricorra spesso a fotografie e fotogrammi filmici per costruire i suoi lavori, arrivando ad una molteplicità di strati che, come ci fa sapere Deleuze, propende verso quel “realismo dell’immagine” ostile ad ogni forma di comunicazione e tutto giocato, piuttosto, all’interno della logica delle sensazioni.

Il film di Marbury coglie invece la vita di Bacon in un suo punto cruciale, al momento del vernissage della personale che il Grand Palais di Parigi gli dedica nel 1971, unico artista britannico dopo Turner a ricever tale onore.

Se, nel tentativo di recuperar nel linguaggio cinematografico la tendenza al grottesco e alla caricatura cara alle figure di Bacon, è palese l’uso di lenti deformanti, grandangolari e fish eye, e di un montaggio in preda all’ipnotica fisionomia di Jacobi, Love is the Devil sceglie come materiale primario l’efferatezza sadica dei rapporti interpersonali che tanta parte hanno avuto nei lavori di Bacon stesso e nella scelta dei sui soggetti. La sua omosessualità, gli amanti e gli amici (nel film si vede un giovane Daniel Craig nella parte dell’amante suicida George Dyer), la droga e l’alcol a fiumi, le sue notti al Colony Room Club di Soho, e in definitiva il gioco d’azzardo di una vita diventata presto il contorto connubio di chi non crede nell’egalitarismo, di chi afferma di votare a destra e poi sceglie di vivere l’esistenza più marginale ed estrema possibile, di chi l’unico amore lo ha trasferito nella violenta tenerezza del tratto del suo pennello.

Salvatore Insana


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