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Interviews

‘About Luis’ intervista con la regista Lucia Chiarla

Il film è stato presentato alla Festa del cinema di Roma dove ha ottenuto il Premio Sorriso, premio collaterale dato alle opere con rilevanza sociale

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about luis lucia chiarla

About Luis è il titolo internazionale di Es geht um Luis, ultima fatica della regista italiana di base a Berlino, Lucia Chiarla. Se nel precedente Reise nach Jerusalem aveva messo al centro il mondo del lavoro e la sua precarietà, qui ne analizza le conseguenze all’interno di un nucleo familiare vessato da una serie di problematiche.

Al centro della storia ci sono Jens e Costanze, genitori di Luis, figlio adolescente che non vive un momento troppo tranquillo a scuola, dove viene preso di mira da dei bulli. Il padre e la madre (lui un tassista che si vede sempre più scivolare via le certezze del suo mestiere in favore di nuovi e sleali competitors e lei architetto in cerca di stabilità, costretta a lavorare anche nel weekend nella speranza di una promozione) cercheranno di fare il possibile per aiutare il figlio, onnipresente, ma totalmente assente, sia dal film che dalla loro caotica quotidianità. Il tutto all’interno del taxi. Attraverso i finestrini di questa casa in movimento Lucia Chiarla mostra i drammi della società e di About Luis.

Qui per leggere la recensione del film

Per comprendere meglio le scelte adottate in About Luis abbiamo fatto alcune domande alla regista Lucia Chiarla.

– Foto di copertina di Emanuele Manco –

About Luis di Lucia Chiarla: un thriller psicologico?

A proposito del tuo film About Luis l’ho trovato di una potenza e anche, se vogliamo, di una violenza incredibile pur non essendoci, almeno visivamente, violenza. Lo si potrebbe quasi definire un thriller psicologico. Sei d’accordo con questa definizione?

Sì, mi piace. Potremmo definirlo così, tra il dramma familiare e il thriller psicologico, con qualche punta di ironia.

Il film è tutto incentrato sulla coppia protagonista e sul taxi che diventa protagonista a tutti gli effetti. Però non è solo il terzo personaggio della storia, è anche metafora della vita della coppia. Lui lo utilizza non solo come mezzo di lavoro, ma anche come rifugio dal mondo nel quale si estranea e lei lo vede come l’unico mezzo attraverso il quale poter parlare col marito. In taxi mangiano, parlano, discutono, si amano, diventa il loro porto sicuro ed è quasi come se ci fossero due film in uno, una sorta di doppia vita per entrambi.

È sicuramente una bella riflessione perché era proprio quello che cercavo per portare il dramma fuori da un appartamento, e quindi creare questo Kammerspiel, come si dice in Germania. Ed ecco che è venuta fuori l’idea del taxi, trovare un luogo come un salotto che sia in continuo movimento dove però resta una grandissima intimità tra le due persone e nello stesso tempo c’è sempre una relazione con il fuori: da lì dentro si vede anche tutto quello che accade intorno e questo, in qualche modo, rispecchia i sentimenti di quello che avviene dentro al taxi. E poi è un po’ la metafora della vita: è un luogo da cui loro non possono scendere mentre sta viaggiando. Quindi c’è anche questa idea di non poter uscire dalle proprie vite quando abbiamo dei problemi perché è molto difficile fermare tutto e dire semplicemente ok, adesso risolvo questo problema. Quando riusciamo a farlo è un buon inizio per la risoluzione però è molto difficile arrivarci, come è difficile fermare la macchina in corso se si è in autostrada. Per tutte queste ragioni il taxi era perfetto e poi la macchina che viaggia mi permetteva di raccontare, di trovare tanti simboli.

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Foto di Anke Neugebauer

Guardare il mondo dal taxi

Infatti anche le varie fermate che fanno nel corso del film ci mostrano, in qualche modo, la vita, la società, abbiamo degli spunti pur rimanendo statici, perché siamo sempre all’interno del taxi.

Sì esatto, sono delle piccole metafore. In quel momento l’aspetto quotidiano e l’aspetto reale rappresentano il primo livello e poi ci sono altri significati che si porta dietro il taxi di per sé, come l’essere in viaggio, l’essere in movimento da un luogo da cui non puoi scappare e non puoi uscire e poi c’è la claustrofobia, cioè il fatto che dentro al taxi, o comunque dentro un’auto, i sentimenti e le emozioni sono circoscritti. Sono sempre più variabili perché ci si innervosisce molto più facilmente quando si è in macchina, sia tra le persone che sono in auto sia con l’esterno. E questo perché, per certi versi, hai sempre la percezione di poter essere in pericolo, di poter avere un incidente, quindi c’è sempre questo nervosismo. Questo mi aiutava anche a raccontare la vita con questa cultura della paura perché può sempre succedere qualcosa, si è sempre in attesa di una notizia, di una coincidenza. Mi piaceva riproporre questa dinamica nel film.

In effetti è proprio quello che si percepisce all’inizio del film. In tutta la prima sequenza fino all’arrivo a casa di Costanze, da spettatrice, ho avuto questa sensazione di ansia e paura che hai descritto. Magari può essere stata influenzata dalle riprese dall’altro con il traffico della città o dalle notizie radiofoniche che fanno riferimento, oltre che a questioni contemporanee non troppo positive, anche a incidenti, ma ho avuto la sensazione che da un momento all’altro potesse accadere qualcosa. Li hai introdotti in maniera positiva, parlano, si confidano e si divertono e, anzi, a proposito di quello che hai detto sulla claustrofobia, quello è l’unico momento in cui aprono i finestrini per cantare.

Sì, quello è proprio un momento di libertà nel quale lasciano uscire le emozioni in maniera gioiosa. Per il resto tutti questi input che cerco di dare, sia con le notizie radio sia con la visione anche del traffico di una città che è molto affollata e che non è la campagna, sono tutte scelte che vanno poi a sostenere e a supportare la loro storia, cioè una quotidianità fatta di paure, di attenzioni, di imprevisti che comunque rendono la vita umana e in generale la vita delle persone, soprattutto nelle grandi città, molto violenta, molto stressata. Le conseguenze sono quelle che poi si vedono nel film e che ognuno di noi nel proprio quotidiano conosce, come anche questa mancanza di tempo, questo dover stare costantemente in fila.

Mistero e angoscia

E proprio per questo parlavo di thriller perché questa sensazione aleggia fin da subito.

Sì, perché poi la cosa bella nel cinema è che ogni volta che fai una scelta se è quella giusta ti accorgi che tutto diventa un sostegno per quello che racconti e allora lì capisci che è giusto perché sta rafforzando il concetto che vuoi esprimere. Diventa fondamentale e diventa espressivo, in qualche modo, anche vedere il traffico oppure un cantiere che ha un altro significato per due persone che sono continuamente lì alla ricerca di aggiustare la loro vita o di migliorarla. Da questo punto di vista diventa un continuo tentativo di ottimizzare sé stessi.

Sicuramente ogni cosa ha un valore particolare e niente è lasciato al caso. Proprio per questo parlavo di tanti spunti molto interessanti.

Esatto. Uno di questi è sicuramente il fatto che fino alla post produzione era previsto soltanto il fatto che lui dovesse ascoltare la radio. Poi mi sono accorta che c’erano queste notizie che, oltre al fatto che erano di attualità, erano anche allarmanti e richiamavano quello che facciamo tutti noi in macchina. Questo continuo rendersi conto che viviamo contornati da guerre, da conflitti, da armi, da paesi che hanno sempre bisogno di fortificarsi, di rendersi ancora più impenetrabili ha inevitabilmente un’influenza sulla nostra anima.

Foto di Anke Neugebauer

About Luis Reise nach Jerusalem: un confronto tra i film di Lucia Chiarla

E poi volevo soffermarmi su alcune scelte che hai fatto come, per esempio, la prima scena che ci aiuta molto a capire il film. Vediamo Jens nel suo taxi che osserva la moglie che esce dal lavoro, ma la cosa che colpisce è che lo osserviamo attraverso lo specchietto retrovisore, come se fossimo i passeggeri di quel taxi, ma anche come se fosse un modo per farci capire che guarderemo tutto il film con una sorta di filtro/sogno. Tra l’altro ci ho visto dei richiami con il tuo precedente Reise nach Jerusalem nel quale utilizzavi delle inquadrature particolari e anomale per farci concentrare sulla protagonista, mentre qui vediamo attraverso gli occhi di Jens.

Certo, vediamo quello che vede lui e vedremo il mondo con i suoi occhi e lo ascolteremo con le sue orecchie. Poi il fatto di essere lì nel taxi ci dà subito questo senso anche piacevole di vicinanza, ma anche di claustrofobia perché all’inizio siamo concentrati sui dettagli soprattutto dei suoi occhi, le sue mani, la voce della radio, poi vediamo quello che lui vede da fuori e nello specifico l’ufficio dove aspetta la moglie. Sono partita dai dettagli piuttosto che da una visione generale del tutto.

La presenza/assenza di Luis

E questo aiuta anche nell’evoluzione del film e dei personaggi. A proposito di personaggi volevo chiederti di Luis, il protagonista della storia, è nel titolo, è il perno attorno al quale ruota l’intera narrazione, ma, nonostante ciò, non lo vediamo mai. Lo conosciamo attraverso la voce, attraverso le parole dei genitori e di altri e attraverso alcuni accadimenti. Probabilmente inserirlo avrebbe comportato uno schieramento, sia da parte tua che da parte del pubblico. In questo modo l’interpretazione in generale rimane nelle mani dello spettatore.

Per me era importante che ognuno si potesse identificare in Luis e, quindi, non creando una sua immagine, ognuno può veramente creare la propria immagine. Questa libertà mi premeva molto anche perché potesse diventare universale il tema: il motivo del bullismo poteva, così, essere qualunque, come dice anche Jens in un momento del film. In realtà non c’è mai un motivo nel senso che si va a cercare qualcosa però i motivi poi sono altri. Quindi quello che volevo era che ognuno potesse riconoscersi, potesse identificarsi in Luis e volevo anche che non ci fosse il bisogno di giustificare il bullismo, che è, in parte, quello che fa anche l’insegnante dicendo che Luis è particolare, è un bambino che ha un carattere molto introverso, non comunica con gli altri. Dando delle giustificazioni spinge la responsabilità sul bambino, ma, non mostrandolo, non possiamo realmente dargli la responsabilità di quanto accaduto. Essa resta anzi su coloro che sono gli attori del bullismo e su chi non riesce a proteggerlo e questo per me era molto importante.

Probabilmente vedendo Luis ognuno avrebbe visto una debolezza, avrebbe trovato qualcosa. Ovviamente è chiaro che, da quello che emerge, lui è vittima di bullismo e quindi si tende comunque a dargli, in qualche modo, ragione e a capirlo, però la buona riuscita del film in questo contesto è il non cadere nel pietismo.

Esatto. Tenevo molto a due cose e una è sicuramente il non mostrare la violenza, non volevo mostrare quella che si può definire la pornografia della violenza e soprattutto lo shock che tante volte poi spegne la possibilità di riflettere. Spesso nel momento in cui si vede un atto molto violento quello diventa il momento emotivamente più importante tanto da far passare in secondo piano la riflessione e il senso critico perché la cosa importante sembra essere quel momento di violenza. In Es geht um Luis, non mettendo questo momento di violenza e non raccontandolo in maniera esplicita, mi concentro sulle dinamiche, sul perché succede. Ho ritenuto importante in questo film pensare alle dinamiche del bullismo e non allo shock del fatto di per sé, quindi non vedere la violenza, ma pensare perché e provare a immaginare e capire quali sono i meccanismi.

Violenze in About Luis di Lucia Chiarla

Ecco perché all’inizio parlavo di violenza. Questa tua scelta rende anche la riflessione e l’accettazione della storia più duri da digerire. Non abbiamo visto la dinamica e tutto diventa più difficile.

Così facendo restiamo più in relazione con noi e con la nostra parte di bullo o di vittima cioè restiamo più connessi con noi stessi. Invece ascoltare soltanto un presunto incidente funzionava molto bene e anzi ho visto che, nel momento in cui è stato proiettato il film, effettivamente tutti hanno recepito questa violenza. La violenza è arrivata anche senza essere vista ed è importante sapere che qualcosa che viene raccontato ha la stessa forza se non di più rispetto al mostrarla. Basti pensare che nella tragedia greca c’era sempre il ruolo del messaggero che raccontava le cose più terribili come la morte di qualcuno, piuttosto che le guerre e quel momento aveva sempre una grandissima forza drammatica.

E infatti secondo me è stata la scelta vincente anche per approfondire tanti altri aspetti e per raccontare altre violenze perché non c’è solo quella legata al bullismo, ma ci sono anche tanti altri temi che si vanno a intersecare.

Hai ragione e infatti c’è anche, per esempio, la violenza verbale, quella dei ruoli, come le telefonate tra i genitori e il preside che sono delle scene molto violente perché il preside in qualche modo è un grande manipolatore. E questa è anche una forma di violenza, portare l’altro, che in quel momento vuole proteggere il figlio, a pensare di poter avere la soluzione in mano, quindi di dare la responsabilità ai genitori. È molto violento come atteggiamento perché lui si libera dalla propria responsabilità però mette l’altro in una posizione di inferiorità. Quindi ci sono tanti aspetti che per me sono stati una scoperta, nel momento in cui non si aveva questo momento di shock o questa identificazione emotiva col bambino e mi sono accorta che mi era più facile parlare di tutto il resto.

Foto di Anke Neugebauer

Chi è il bullo?

Hai giocato molto bene sul fatto di non mostrare Luis dando spazio all’immaginazione perché, così facendo, vengono fuori tutte queste dinamiche molto interessanti. Oltre alle telefonate con il preside si possono citare anche il dialogo tra la madre di Costanze e Jens, ma anche quello tra quest’ultimo e il ragazzo grasso e la madre. Si tratta di due scene che potrebbero sembrare riempitive, ma che, in realtà, sono potentissime perché ti danno modo di introdurre altre tematiche legate a quella centrale oltre a un’altra forma di violenza perpetrata proprio da chi fino a poco prima la stava subendo.

Sì, perché nel dialogo con il ragazzo Jens diventa violento perché ormai in quel momento ha cominciato a innescarsi in lui questo bisogno di crearsi la sua giustizia personale. Quindi in quel momento diventa lui stesso violento e quello è il suo problema: invece di mantenere la rotta che ha mostrato all’inizio (il fatto di essere una persona molto aperta, molto tollerante), inizia a deviare verso un’idea di autogiustizia e autodifesa per la quale, secondo lui, lui da solo riuscirà a superare i problemi. Così facendo, però, dimentica chi ha vicino (in quel momento un ragazzo) e lo ferisce anche se poi la scena diventa divertente. In quel preciso momento, però, diventa anche lui un bullo, dimentica tutto e non ascolta più suo figlio, nemmeno quando gli dice che vuole cambiare scuola. Jens in quell’istante è nella sua battaglia personale che dà vita a un problema importante: quando un genitore si sostituisce al figlio dimenticandosi tutto e facendo diventare la sua lotta sterile.

E a tal proposito si può quasi dire che si ribaltano un po’ tutti i piani. Se è vero che Luis è bullizzato, è altrettanto vero che lo sono, in qualche modo, anche i suoi genitori che sono all’interno di un meccanismo che, per tutta una serie di ragioni, li porta a fare dei percorsi particolari (lei tenta di chiamare lo psicologo per uscirne, lui invece cerca di farsi giustizia da solo). Ci sono, oltre che una serie di dinamiche e tematiche, anche tante metafore nel corso del film, una su tutte il pesce.

Esatto. Jens sembra voler imporre questa idea più patriarcale del devi farcela da solo, quando in realtà il bambino ha bisogno di trovare un ambiente che lo accolga e che lo includa e non un ambiente che dica che è diverso. Proprio per questo Jens dovrebbe starne fuori. Anzi il ragazzino mostra una sua grande intelligenza emotiva nel sapere perché lo stanno bullizzando, addirittura individua il fatto che gli altri bambini sono invidiosi che è il grande classico che fa scattare ancora di più il bullismo (mettere davanti all’altra persona lo specchio di quello che si è). Il padre, invece, sembra pensarla diversamente ed è dell’idea che se ti rispetteranno qui ti rispetteranno ovunque, quindi non ascolta più il figlio trasforma ciò nella sua battaglia personale perché anche lui, come hai detto, come la moglie, vive in una situazione di grande precarietà. Entrambi vivono le conseguenze del libero mercato che ha, in qualche modo, delle forme molto bullizzanti (nel mondo del taxi arrivano delle compagnie che in maniera molto sregolata e anche spesso illegale riescono a mettere la concorrenza all’angolo perché è una concorrenza comunque sleale).

E la sua reazione contrasta con quella della moglie. Lui lotta e si arrabbia, anche a costo di essere solo contro tutti, lei, invece, accetta anche di lavorare il weekend o in ogni occasione libera, lasciando in secondo piano tutto il resto, sperando in una promozione.

Lei è nel mondo del professionismo con questo continuo promettere di ricevere una situazione lavorativa migliore se farai sempre di più e non c’è mai un limite a quello che puoi fare per migliorarti (il rischio è finire in burnout come succede, per esempio, in Giappone dove si muore di lavoro nel senso che si crea una sorta di compulsività pericolosa per la quale non si smette mai di lavorare).

Precarietà del lavoro in About Luis e in Reise nach Jerusalem di Lucia Chiarla

Visto che stiamo parlando di questo discorso del lavoro e della precarietà non posso non collegarmi inevitabilmente all’altro tuo film Reise nach Jerusalem perché sembra che ci sia una sorta di filo conduttore, in qualche modo. In questo film a essere centrale è il discorso bullismo e violenza, ma, in maniera forse collaterale, è comunque presente anche il problema del lavoro che è il focus attorno al quale ruota il tuo precedente titolo. Potrebbe quasi essere un tuo marchio di fabbrica…

Il marchio di fabbrica è bello (ride, ndr). Credo che siano tematiche attuali, che io vivo nella mia vita. In genere parto dalle cose che vedo, che sento e che vivo quindi è molto difficile separarmi dal tema del lavoro che è sicuramente molto presente nella mia vita. Forse perché siamo anche una generazione che si identifica molto con il lavoro e quindi la sua realizzazione è anche il momento in cui c’è un senso di appartenenza, un senso di identità. Essendo molto presente nella mia generazione e in quella un po’ più giovane (quella giovanissima mi sembra che stia un po’ cambiando), diventa una crisi identitaria nel momento in cui inizia a mancare quel lavoro per cui tu hai studiato e faticato, adesso reso ancora più complesso dall’introduzione dell’intelligenza artificiale che accenno in parte in Reise nach Jerusalem. In particolare quando lei va all’incontro con la sua consulente per il lavoro che gli dice che la giornalista ormai sarà un lavoro in crisi. Ne parlo perché mi accorgo che fa parte dei pensieri che io e molte persone che conosco abbiamo, così come il problema dei genitori di About Luis che iniziano a non avere più tempo per sé e per la famiglia perché devono lottare per arrivare a fine mese. Sono due aspetti della società moderna che mi interessano tantissimo

E in effetti ci sono delle similitudini e delle differenze, sia a livello di temi che di forma. Forse visivamente Reise nach Jerusalem è più aperto anche solo per gli spazi sempre molto grandi con delle riprese ampie, mentre questo è molto più chiuso, ma al tempo stesso anche dinamico.

Si tratta di una questione visiva di idea cinematografica. In Reise nach Jerusalem c’è lei sola in spazi grandi, una sorta di lost in space, nell’altro, invece, è l’opposto, con loro due e l’auto che all’inizio si muove (come la vita che si muove in una dinamica di grandi metropoli). Nell’altro film all’inizio lei è da sola nella grande città ed è una situazione più anonima (si parla anche di questo anonimato, del fatto di essere un numero, uno dei tanti e di essere sostituibile).

Conclusioni

Sempre parlando di legame tra i due film, anche la fine, senza fare spoiler, è un momento importante perché è come se fornissi allo spettatore due opzioni.

A proposito di questo ti potrei citare un mio caro amico che, dopo aver visto About Luis, lui che era stato un grande appassionato del mio primo film, mi ha detto certo, ho capito una cosa: i tempi sono cambiati. Ed è vero perché anche io stessa, facendo questo film, avevo un’altra pesantezza che dovevo in qualche modo mostrare ed esplicitare. Poi i due film hanno in comune questa fine aperta che a me piace molto. Non sappiamo cosa faranno i personaggi, sappiamo solo che c’è una presa di posizione in entrambi i film da parte dei protagonisti, ma non sappiamo precisamente in che direzione andranno.

Parlando più specificatamente del finale di About Luis ho pensato fin da subito che fosse anche un po’ metaforico, con questo buio e questa galleria che, però, mostrano una luce, la famosa luce in fondo al tunnel.

Esatto. Anche perché poi la questione è sempre quella di mettere una domanda drammatica e dare una risposta. La domanda è all’inizio: questa coppia riuscirà a sopravvivere a tutte le conseguenze causate dal bullismo nei confronti del figlio? All’inizio il desiderio per me era quello di presentare una coppia che funziona e che abbiamo voglia di seguire e di vedere caratterizzati da allegria e amore. Quindi tutta questa storia li mette estremamente tanto da estremizzare il tutto e per me questo rappresenta lo specchio della nostra società. E il tentativo di trovare una soluzione comune per me era la risposta drammaturgica alla domanda iniziale.

Gli interpreti

Guardando i tuoi film una cosa che colpisce è anche la recitazione degli attori e delle attrici che è sempre misurata, senza mai eccedere. Possiamo facilmente immedesimarci in loro e la cosa che colpisce è che, considerando tutto quello che vivono questi personaggi, non ci sono reazioni particolarmente esagerate. Hai dato delle indicazioni particolari a Max Riemelt e Natalia Rudziewicz?

Devo premettere che io nasco come attrice, quindi il mio lavoro è molto concentrato sugli attori. Cerco sempre di trovare un’autenticità, cioè lavorare su personaggi che siano credibili e che non abbiano soltanto delle sfumature eccentriche. Mi piace lavorare su dei personaggi anche ordinari e credibili in cui tutti si possano riconoscere e quindi anche per il discorso della recitazione mi piace lavorare su un uomo e una donna comune restando molto semplice nei toni (questa è sicuramente un’indicazione che do). Poi nella costruzione dei personaggi ci sono diverse indicazioni in base a quello che in quella situazione sta succedendo.

Foto di Anke Neugebauer

Guardando About Luis viene da pensare che qualsiasi spettatore potrebbe salire su un taxi dove il tassista è veramente così perché magari vive tutta una serie di dinamiche e reagisce in questo modo. Potrebbero essere persone qualunque e chiunque ci si può identificare.

Esatto. L’eccentricità deriva dalla reazione in una determinata situazione più che dal personaggio di per sé.

E poi in questo specifico film sono entrambi molto bravi a giocare intorno a un personaggio che non c’è fisicamente.

Sì, quello non è stato facilissimo, ma per fortuna c’era la voce e questo ha sicuramente aiutato molto, così come il fatto che comunque avevamo un interprete, Max Günther, un giovane attore che è stato anche presente un paio di volte sul set, quindi per loro era anche un corpo che avevano in mente. Poi ognuno di loro aveva le proprie proiezioni perché ognuno di loro ha una famiglia, quindi ognuno poteva crearsi la propria. Alla fine è più importante il mondo interiore che quello esteriore per fare questo mestiere, quindi è importante che l’attore abbia i propri i propri punti di riferimenti chiari quando pensa a una persona. Gli attori e le attrici fanno un lavoro enorme di immaginario personale.

È un lavoro che si fa insieme e per me è proprio uno schema di lavoro. Quando è chiaro quello che devono fare, quando è chiara la figura, il personaggio che ti porta attraverso la storia, allora l’attore quasi non deve più fare nulla, ma solo seguire il personaggio. Per esempio Jens che va a scuola e poi viene portato fuori violentemente fa capire che è uno che vuole andare fino in fondo e vuole regolare faccia a faccia le questioni. Queste sono le azioni che creano il personaggio, poi naturalmente il bravo attore ci entra dentro e tante volte è bello quando gli attori, leggendo la sceneggiatura, non comprendono e dicono che secondo loro il personaggio non direbbe o non farebbe una cosa del genere perché loro hanno un approccio fisico e organico con chi interpretano.

Diventa un vero e proprio lavoro di gruppo.

Sì, si lavora insieme. La cosa più bella del cinema è proprio questo lavoro di enorme artigianato in cui ci sono fasi completamente diverse, però si lavora insieme. Non è mai qualcuno che ha fatto qualcosa. Poi chiaramente la regia dà la direzione di tutte le varie maestranze portando tutto in una direzione, che sia commedia o tragedia, però poi è un lavoro che si fa insieme, un lavoro di squadra. E il dover riuscire a far capire in che direzione vuoi andare è veramente come un viaggio, come riuscire a convincerli a farli venire con te.

About Luis di Lucia Chiarla in Italia?

Il film era stato presentato alla Festa del cinema di Roma.

Esatto, nella sezione Progressive cinema. Poi abbiamo partecipato anche al festival di Zurigo e ad altri festival in Germania.

Quindi questo potrebbe portare anche a una distribuzione in Italia?

Per il momento ti posso dire che c’è una distribuzione interessata e ci stiamo lavorando sperando di poter dare presto delle buone notizie. Speriamo che si possa fare perché c’è stata una grandissima risposta in Italia anche perché il tema, come anche in Germania, è molto presente. Inoltre quando eravamo a Roma ci sono stati dei casi molto violenti di bullismo a scuola che questo film richiama a suo modo. A tal proposito abbiamo partecipato anche a un altro festival, quello del terzo millennio, con giurie interreligiose, e lì abbiamo vinto due premi. A Roma abbiamo vinto il premio Sorriso, un premio collaterale che viene dato alle opere con rilevanza sociale.

Proprio alla luce di questi riconoscimenti, infatti, ti chiedevo della distribuzione perché in generale ho notato che i film tedeschi hanno uno spazio minore.

Purtroppo è vero ed è una cosa incredibile che ci sta facendo tornare indietro perché si produce tanto e ognuno sta cercando di puntare sul proprio cinema. C’è tantissima produzione in generale, ma soprattutto in Europa siamo diventati molto nazionalisti e diventa difficile parlare ancora di cinema europeo.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Es geht um Luis

  • Anno: 2024
  • Durata: 97'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Germania
  • Regia: Lucia Chiarla