Yunan, scritto e diretto dal giovane regista ucraino di origini siriane Ameer Fakher Eldin, interpretato da Georges Khabbaz, Hanna Schygulla (celebre musa di Fassbinder), Tom Wlaschiha, Ali Suliman e Sibel Kekili, allarga lo spettro tematico della principale sezione di questa 75ª Berlinale. Frutto di una co-produzione tra Germania, Canada, Italia, Palestina, Qatar, Giordania e Arabia Saudita, Yunan racconta il dramma migratorio attraverso la depressione del suo protagonista, Munir, uno scrittore, con una madre malata, che si reca su un’isola remota, tormentato dal pensiero di porre fine alla propria vita. Un’opera intensa che innesca una riflessione sul privilegio di non essere costretti a mettere in dubbio la propria identità, in seguito all’abbandono della propria terra.
La paura di non tornare a un luogo che non si è mai lasciato
Yunan è un cerchio che, una volta chiuso, rivela la propria natura: un delicato collage tra diverse dimensioni. Quella del reale e quella del racconto. La loro alternanza sullo schermo descrive visivamente la prigione ossessiva in cui è rinchiusa la mente di Munir. Ma non è un’alternanza priva di senso. Così come l’instabilità mentale di Munir non è una condizione inspiegabile. Un filo conduttore tra le dimensioni esiste. E in esso è racchiusa la causa del tutto. È una presenza seminascosta. Lo si percepisce fin da subito, per poi averne conferma sequenza dopo sequenza. Il leitmotiv che definisce questa linea continua tra le dimensioni è la paura di dimenticare e di essere dimenticato.
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Un timore umano comune, ma che Munir, in quanto immigrato e scrittore, percepisce in maniera diversa. La lontananza dalla propria terra, la perdita di contatto con le proprie radici e una madre malata di Alzheimer che fatica a riconoscerlo finiscono per avere un impatto disastroso sulla sua mente. Lo privano di un senso di appartenenza temporale e geografico, inducendolo a percepirsi come un apolide. Il parallelismo tra il racconto di un pastore senza nome che la madre usava raccontargli e la vita stessa di Munir viene poeticamente a galla con lo scorrere dei minuti. Eppure, uno strumento che impedisca l’oblio personale esiste.
Un motivo per scrivere è un motivo per vivere
Questo strumento è l’arte. Nel caso di Munir: la scrittura. L’arte fossilizza il proprio contenuto nel tempo. Ed ecco cos’altro ci vuole dire Ameer Fakher Eldin con Yunan. Il potere esorcizzante dell’arte deve quindi passare necessariamente per un personale percorso catartico, e viceversa. La comprensione del proprio io per l’artista va di pari passo con il momento creativo. Trovare un motivo per scrivere significa trovare un motivo per vivere, ridonando dignità alla propria esistenza. La reciproca dipendenza fa sì che l’eventuale assenza di una delle due ragioni comporti la scomparsa dell’altra.
Munir ne è consapevole. Sempre più oppresso dalla propria mortale ossessione, non è più in grado di vedere la luce che connette il senso dell’arte al senso della vita. La scelta di soggiornare in un’isola remota si fa però miracolosa. Un luogo anacronistico e senza apparenti connessioni con il resto del mondo, invece che spingerlo verso la fine, riaccende il bagliore per un nuovo inizio.
La natura parla tanto quanto le parole
Munir è disteso a terra. Guarda il cielo: le nuvole sono immobili. È una scena ricca di significato. Rimanda al dialogo telefonico con la sorella a inizio film. Quando questa gli domanda come va la sua vita ad Amburgo, lui risponde: “Tutto come sempre, niente di nuovo, solo le nuvole si muovono”. Le nuvole si muovono, mentre la sua vita è ferma. Munir vive di inerzia, fatica a trovare un motivo per proseguire. Il ritorno del suo respiro affannato ce lo ricorda più volte. L’inquadratura del cielo terso e immobile suggerisce un capovolgimento di prospettive. Mentre le nuvole sono fisse nell’azzurro, la vita di Munir riprende a muoversi.
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È una scena che esemplifica il ruolo attivo dell’ambientazione. Una serie di vedute mozzafiato si sussegue, in alcuni casi, replicando, per chi osserva, l’emotività del protagonista, in altri, rapportandosi narrativamente con lui. La natura in Yunan è volutamente invadente e, nel suo essere resa magistralmente, secondo una sorta di espressionismo scenografico moderno, fornisce una chiave di lettura ulteriore. È veramente raro vedere i colori, le spazialità e i movimenti insiti agli ambienti essere catturati fino ad essere “umanizzati” a tal punto.
Una comunità metafora della Germania e del mondo
In Yunan, l’ultimo tassello importante da tenere in considerazione sono gli abitanti dell’isola. Una comunità ristretta, che vive in un microhabitat, fatto di tradizioni e abitudini. Insomma, pane succulento per chi ama alimentare i pregiudizi, in questo caso, verso il popolo tedesco. Ameer Fakher Eldin, invece, sfrutta l’occasione per dissipare ogni fraintendimento e trasforma il piccolo mondo rappresentato in un modello a cui ambire.
Se l’accettazione dello straniero è possibile in un posto così appartato e circoscritto, significa che è possibile ovunque. E se lo straniero impara a comprendere le dinamiche del luogo in cui è accolto, allora potrà integrarsi più facilmente. Il risvolto è positivo per entrambe le parti e Munir riacquista fiducia. È difficile non vedere in tutto questo un rimando all’imperversare di nazionalismi sempre più diffusi. Yunan appare perciò come un progetto cinematografico non solamente fine a se stesso, a rimanere chiuso nelle sale, ma anche un tentativo politico di parlare al mondo. La Berlinale, fin dai suoi albori, si è sempre distinta per una particolare attitudine al promuovere un’arte impegnata e questo film sembra esserne una chiara conferma.