Retrò, raffinata, misteriosa, chiaroscurale. Alla continua ricerca di ciò che si nasconde lì dove agli altri spaventa arrivare, la Fata Verde ha tutta l’intenzione di indagare a fondo la nostra anima.
Dall’unione di tre registe, Marina Fastoso, Angela Bevilacqua e Benedetta De Biase, nasce a Napoli una nuova casa di produzione dall’occhio particolarmente rivolto al mistero. Produzione che riguarda la realizzazione di cortometraggi, spot, video clip, documentari e molto altro con l’obiettivo di arrivare presto alla realizzazione di lungometraggi. Ognuna di loro vanta un ricco background, spaziando tra numerosi premi vinti in giro per i festival e collaborazioni a livello internazionale. Mescolando le proprie visioni e sensibilità, simili ma uniche, sono riuscite a definire in maniera decisa l’anima della loro casa di produzione, mettendo il contrasto tra la luce al centro del loro interesse, raccontandolo senza alcun pregiudizio.
Approfondiamo la loro realtà in questa intervista:
- Marina Fastoso, Angela Bevilacqua, Benedetta De Biase
Come nasce “Fata Verde”?
Siamo tre registe e amiche che hanno una visione di cinema comune. Ci siamo trovate in un momento complicato della vita che siamo riuscite a sublimare tramite la nostra affinità artistica, umana e spirituale. Un incontro “fatale”, è accaduto tutto in maniera estremamente naturale.
Cosa vuole raccontare il vostro trio?
Ci interessano molto i turbamenti dell’anima e i conflitti spirituali. I temi che preferiamo sono spesso legati all’innocenza, alla disillusione, alla fuga dal sé e alla difficoltà della bellezza a sopravvivere alla banalità del reale. Cerchiamo di far confluire nelle nostre visioni la dialettica tra luce ed ombra che è nella natura delle cose.
Ci affascinano le contraddizioni interiori e tutte le sfaccettature dell’animo umano, anche quelle più scomode. Portiamo avanti un’idea di cinema molto libera, che possa esprimersi senza limiti ideologici. Quello che proviene dall’inconscio e dal profondo ha diritto ad emergere.
In che modo avete intenzione di esprimere tutto questo?
Abbiamo uno stile visivo simile, sebbene con variazioni personali. Tendiamo ad un immaginario molto intimo e spontaneo, in cui confluisce il piano simbolico in maniera sottile e velata. Siamo aperte a sperimentare tutti i generi cinematografici, non ci precludiamo nulla in questo senso, sebbene tendiamo a preferire il drammatico. Non ci limitiamo al cortometraggio, ma facciamo anche documentario, videoclip, spot e puntiamo naturalmente in futuro al lungometraggio.

“Give Up the Ghost” – B. De Biase (2025)
La vostra sede è a Napoli, che rapporto avete con la città?
Siamo molto felici di essere a Napoli e di vivere questa città, che è una continua fonte di ispirazione. Napoli sta vivendo un momento di grande fermento creativo, in cui il cinema sta risorgendo. Troviamo che sia il luogo adatto in questo momento per una produzione come la nostra, indipendente e libera e che vuole proporre modelli nuovi di cooperazione. A Napoli c’è quell’artisticità sanguigna che si armonizza perfettamente al nostro essere viscerali.
Spesso la città viene rappresentata attraverso cliché che ne esaltano tendenzialmente solo la luce, il colore, il rumore, il folklore. La natura più profonda di Napoli si cela ben oltre questa superficie. A noi sta a cuore anche la sua parte più oscura, il suo lato occulto e profondo, il suo mistero.
A questo proposito, da dove nasce il nome “Fata Verde”?
Fata Verde viene dalla fatina dell’assenzio che ispirava gli artisti bohémien. Ci piace un po’ quel modo di intendere il mestiere: l’arte che non è solo lavoro legato alla produzione di opere, ma un vero e proprio modo di vivere. C’è una citazione di Oscar Wilde molto bella in merito all’assenzio: “Che differenza c’è tra un bicchiere di assenzio e un tramonto? Il primo stadio è quello del bevitore normale, il secondo è quello in cui cominciate a vedere cose mostruose e crudeli, ma se perseverate arriverete al terzo livello, quello in cui vedete le cose che volete, cose strane e meravigliose”.
E a quanto pare la vostra Fata vuole arrivare al terzo stadio
Assolutamente sì, passando comunque per gli altri stadi, per i sentieri più bui.

I vostri progetti hanno tutti un’anima ben definita: come li scegliete e quali sono quelli futuri?
Stiamo cercando progetti in linea con noi da sviluppare e anche co-produzioni. Stiamo già lavorando ad alcune collaborazioni e commissioni di cui siamo molto contente. Inoltre, per la fine dell’anno, ci piacerebbe realizzare i nostri rispettivi tre corti.
Infatti la prima produzione interamente Fata Verde è stata il cortometraggio di Benedetta, dal titolo Give Up the Ghost, che abbiamo appena finito di montare.
Per quanto riguarda i progetti che selezioniamo, devono sicuramente avere un impatto sulla nostra emotività. Dobbiamo sentire il bisogno e la necessità di raccontare quella storia, al di là delle tendenze del momento e delle logiche di mercato.
Inoltre, abbiamo un’idea di cooperazione e di atmosfera sui nostri set molto precisa. Cerchiamo di essere in controtendenza rispetto alle dinamiche tossiche che spesso si instaurano nel nostro ambiente.
Volendo mettere in dubbio le dinamiche che ha il cinema oggi: questo vostro particolare atteggiamento a lungo andare, non solo economicamente, paga o non ripaga?
Secondo noi sì. Crediamo innanzitutto nell’audacia e nel potere dei film che hanno un’anima. Inoltre, crediamo fortemente che l’atmosfera che si crea nel momento in cui si sta girando una scena, rimanga impressa sulla pellicola. È fondamentale che il clima sia quanto più rispettoso e sereno possibile. È molto importante che le persone all’opera possano empatizzare con il regista, con il progetto. È un lavoro di gruppo, quindi se si lavora bene ne beneficiano tutti e soprattutto ne beneficia il film.
Il nostro è un lavoro in cui l’emotività e la sensibilità hanno un ruolo talmente importante da non poter essere assolutamente trascurate. È fondamentale recuperare il senso della gentilezza, della delicatezza.
I modi hanno dunque un peso molto più grande di quanto si possa pensare
Certamente, lo abbiamo sperimentato spesso in prima persona. Quindi, per rispondere alla domanda, questo atteggiamento ripaga eccome.
Cosa vi piace del vostro lavoro?
Angela Bevilacqua: Nonostante possa sembrare una cosa un po’ smielata o scontata, per me la questione è che se non facessi questo non mi sentirei viva. C’è sempre una stonatura alla base dell’esistenza e il cinema dà la possibilità di creare armonia. Per me è una terapia, uno sfogo. Alle volte mi capita di girare qualcosa senza capirne bene il perché o il significato e solo dopo tempo, rivedendola, tutto è più chiaro.
Bendetta De Biase: Io invece odio il reale. Mckee la chiama “emozione estetica”, quando in quei rarissimi momenti della vita si vive il connubio tra idea ed emozione, mentre nel cinema questo è sempre possibile. Mi piace potermi rifugiare nel pensiero che forse quei miei rari momenti li ho perduti soltanto per ritrovarli sulla scena, nei miei scritti, nelle storie in cui sono fuggita.
Marina Fastoso: Io non so suonare, ma penso che suonassi uno strumento, proverei delle sensazioni molto simili a quelle che provo quando ho la macchina da presa tra le mani. È l’unico modo che conosco per accordarmi al ritmo delle cose, per accedere alla leggerezza.

Oltre al cinema, cosa vi ispira? Quali sono le altre arti che vi attraggono?
Sicuramente il teatro, la musica e la letteratura.
Potendo fare la trasposizione di un libro, quale fareste?
Marina: Io Trilogia della città di K. di Agota Kristof.
Angela: Una riattualizzazione di Un amore di Dino Buzzati.
Benedetta: Un’estate con la strega dell’Ovest di Kaho Nashiki.
Se dovessimo scegliere di fare una serie, sicuramente sceglieremmo L’isola di Arturo di Elsa Morante. Come corto, invece, sarebbe bella una trasposizione di Goblin Market di Cristina Rossetti.
Come vi relazionate alla tecnologia e in particolare all’intelligenza artificiale? È uno scontro o un incontro?
Abbiamo tutte e tre un animo molto retrò, dunque ci piace il lato artigianale del cinema. Detto questo, stiamo già sperimentando con l’AI per realizzare un cortometraggio. Come ogni cosa realmente affascinante deve anche fare un po’ paura. Ci affascina perché è un linguaggio che sembra provenire direttamente dall’inconscio.
Cosa vuole dire la Fata a chi ha letto questa intervista?
La Fata vuole dire che se tu hai quella materia oscura nel tuo stomaco… Puoi trasformarla in luce. Puoi trasformarla in luce e bellezza.
