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Interviews

Gianfranco Pannone ci racconta ‘Qui è altrove – buchi nella realtà’

"Credo in un un cinema cristiano e socialista"

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Qui è altrove - Buchi nella realtà

È attualmente impegnato in un tour in giro per l’Italia con il suo ultimo film, Qui è altrove – buchi nella realtà (una produzione Bartlebyfilm e Aura Film, con Carte Blanche e ACRI), il regista Gianfranco Pannone, che abbiamo avuto il piacere di incontrare, per farci raccontare la sua esperienza con il teatro di Armando Punzo nel carcere di Volterra.

Qui è altrove – buchi nella realtà: la persona prima di tutto

Inizierei dal sottotitolo del tuo ultimo film, che fa riferimento alla realtà del carcere di Volterra, dove si svolgono i laboratori teatrali di Armando Punzo (Direttore Artistico e regista della Compagnia della Fortezza – Carte Bianche) e una masterclass che riunisce le tante realtà associative del Progetto Per Aspera ad Astra. E ciò ci obbliga a fare una premessa sulla situazione del carcere, pensando ai 94 suicidi di detenuti verificatisi nel 2024. Questo triste dato ci porta a fare un discorso etico sull’argomento ed è stata un’esigenza etica a spingerti a girare un film documentario in carcere?

Il discorso etico parte sicuramente da un fatto: in qualsiasi realtà di coercizione, come quella del carcere, innanzitutto, sento l’esigenza di rapportarmi soprattutto con delle persone, senza tener conto delle categorie, come quella dei detenuti. Questo per me è importante, proprio perché rientra in un discorso sull’etica.

Nel mio lavoro ho sempre considerato le persone e non le categorie, ciò è successo con gli ex brigatisti rossi e pesino con i fascisti. Questo non vuol dire di fare finta che non esista l’appartenenza di ogni uno di noi a una categoria, sia essa scelta o imposta, ma mi aiuta a considerare prima di tutto la persona, per poi concedermi la possibilità di collocare tutti gli essere umani sullo stesso livello, a prescindere dalla loro condizione sociale, di potere o meno.

Un altro carcere è possibile nel film di Gianfranco Pannone

Questa idea è alla basa della mia visione del mondo, che riesce ad essere allo stesso tempo cristiana e socialista, senza, però, ricorrere a nessun sostegno ideologico, semplicemente ponendo la persona all’interno di una comunità.

Con questo approccio, in Qui è altrove, ho cercato di eliminare anche altre tipologie di categorie, come il sociologismo facile, che la realtà penitenziaria ti porta ad avere. Per questo abbiamo adottato lo slogan Un altro carcere è possibile. Ma la realizzazione del nostro slogan è possibile solo se il carcere smette di essere considerato un luogo punitivo e inizia a essere soprattutto un’occasione di rinascita. Detto ciò, però sono consapevole che il teatro, per sua natura, è portatore di una rivoluzione, dunque non c’è nulla da dimostrare sul piano sociologico.

Quando dici di dimostrare qualcosa sul piano sociologico di preciso a cosa ti riferisci?

Mi riferisco al fatto che quando in un contesto particolare, come quello del carcere, si fa del buon teatro, le cose possono cambiare. In questo però – per meglio chiarire cosa intendo nel dimostrare qualcosa sul piano sociologico – non c’è nessuna volontà salvifica e ciò vale sia per mio il film, sia per l’attività teatrale di Armando. È il teatro che salva di per sé.

Il teatro scarnifica la realtà

Così torniamo al discorso etico di prima, perché a me spaventa anche una certa forma di razzismo al contrario: la troppa condiscendenza del detenuto, come se fosse portatore di una verità altra, ponendolo così su un piedistallo. In questo mondo non solo si restituisce una realtà falsa, ma non si rispetta la persona.

È esattamente ciò che dice nel film Armando Punzo.

Faccio integralmente mie le sue parole. La rivoluzione avviene nel suo atto che crea le miglior condizioni per un’utopia possibile. Il teatro ha il potere di scarnificare la realtà e quando la sua forza agisce in un luogo di coercizione il tutto si amplifica.

In Qui è altrove, infatti, lo spazio del carcere sembra quasi svanire, per essere sostituito dal Teatro che diventa la fonte di una fortissima attrazione per i testimoni/personaggi del film.

Questa è stata una scelta fatta durante le riprese e poi confermata nella fase di montaggio. Insieme a Erika Manoni, la montatrice del film, abbiamo deciso di ridurre al minimo la presenza del carcere, cercando di lavorare esclusivamente sulle persone che danno vita alla comunità protagonista. È così il carcere scompare per dar vita, con il teatro, a un luogo e a un tempo nuovo.

La comunità nel cinema di Gianfranco Pannone

Questo avviene anche in Via Argine 310, dove gli operai della Whirlpool vivono la fabbrica come casa e lì formano la loro comunità, un’estensione della dimensione familiare.

Mi fa piacere che sia stato colto questo aspetto. In Via Argine 310 ho voluto estremizzare, quanto possibile, il non categorizzare gli operai e concentrare l’attenzione sulle persone. Ho chiesto al sindacato di fare un passo indietro per consentire l’emergere dell’ostinazione degli individui coinvolti in quella vicenda, che ha dato vita alla loro comunità, un’altra famiglia. L’etichettare le persone dal punto di vista politico o sociale è secondo me un sottovalutare l’essere umano.

Un’altra caratteristica che ritorna sempre nella tua filmografia è l’evocazione del rito. In Qui è altrove è il rito del teatro, in Via Argine 310 è il rito del lavoro. La voce narrante di Alessandro Siani, a un certo punto, fa riferimento al rito di auto – capitalismo collettivo. In questo film, poi, gli operai sono ovviamente preoccupati per il licenziamento e per le conseguenze sul piano prettamente pratico per la perdita di un’entrata economica sicura. Allo stesso tempo, però, si sentono smarriti per il venir meno di quel rito quotidiano del lavoro, durante il quale formano la loro comunità.

via argine 310 Pannone

In questo film Alessandro Siani legge le parole Ermanno Rea e le fa proprie per descrivere la ritualità che, sempre, porta alla creazione di un senso collettivo comunitario. Questo succede in ogni dove, come in chiesa, ma anche nella condivisione di un’esperienza, come quella del lavoro, della detenzione o di un certo modo di fare teatro.

Una visione cristiano – socialista

Ciò avviene in Via Argine 310, in Qui è altrove e anche in Onde radicali in cui tutte le testimonianze sono al servizio di una radio, di un movimento politico come quello Radicale, con persone che hanno fatto percorsi politici anche diversi, ma che in comune hanno un denominatore: considerare primario il senso democratico nell’agire politico. E il concetto democratico, la sua storia passa attraverso il racconto della Radio Radicale, con la messa in onda dei processi, delle sedute parlamentari e i congressi di partito. Tutto questo materiale forma, anche in questo caso, una comunità, nel caso specifico di Onde radicali, quella dei cittadini. Dunque, è molto importate questo aspetto, che in me ha una derivazione politica, ma anche religiosa ed è per questo che davvero la considero di matrice cristiano – socialista, piaccia o non piaccia.

La comunità di Onde radicali 

Questa tua definizione di cristiano – socialista sicuramente sarebbe stata gradita a Marco Pannella – per continuare il discorso su Onde radicali – che da laico come era, in un partito, come quello Radicale, a un certo punto della sua lunghissima carriera politica, colloca la militanza politica in una dimensione sacrale di una famiglia/comunità monacale, suscitando non pochi malcontenti interni al suo partito.

Si certamente e questa cosa è stata davvero molto importante, perché ha forgiato diverse generazioni, che hanno fatto scelte diverse, ma che conservano una certa visione in comune. E questa visione riesce ad essere trasmessa, ancora oggi, grazie a Pannella che, con il suo pensiero, enormemente laico e libertario, è stato in grado di lasciare un segno indelebile e anche questo vuol dire fare ed essere comunità.

Inoltre, ovviamente anche Radio radicale è una comunità, che ha avuto la geniale intuizione, prima del servizio pubblico, di comprendere l’importanza di trasmettere, nel senso letterario del termine, ai cittadini la possibilità di conoscere ciò che succede all’interno dei palazzi delle Istituzioni, come le camere parlamentari e i tribunali.

Onde radicali Pannone

Le ferite storiche dell’Italia

Troviamo la comunità anche nel tuo primo film, Piccola america, realizzato con un taglio molto vicino all’etnografia visiva, in cui racconti la costruzione della città di Latina e il diretto coinvolgimento di Mussolini.

Senza dubbio, anche in questo caso, nella costruzione di una città, si forma una comunità di persone che condividono un’esperienza comune, spesso vissuta con entusiasmo, con Mussolini visto come un salvatore. Questo, all’epoca del film, mi ha procurato accuse ingiuste, essendo da sempre antifascista. Ritenevo e ritengo, comunque, che sia importante raccontare quell’aspetto socialisteggiante, che può essere presente nel fascismo della prima stagione, che anche in questo caso spinge alla formazione di una comunità, senza, però, in nessun modo sottovalutare ciò che è avvenuto dopo.

Piccola america, come tutti i miei film, nasce dall’esigenza di raccontare gli individui che appartengono sempre a una comunità, con la stessa storia, gli stessi valori o semplicemente una vicenda, che non sempre ha dei risvolti positivi, ma spesso contraddittori e contrastanti.

Purtroppo in Italia le ferite non riescono a cicatrizzarsi. Non si riesce mai a conquistare quella libertà che ci permetterebbe di guardare dalla giusta distanza i fatti accaduti. È naturale rimanere antifascista e ricordare sempre gli effetti negativi che ha avuto il regime di Mussolini sul nostro Paese, ma bisogna anche introiettare e ingoiare la storia di quel periodo e farla propria altrimenti non ne verremmo mai fuori.

E il senso di comunità passa immancabilmente dalla consapevolezza di una storia vissuta in comune, che poi in qualche modo, ci distacchiamo a causa della distanza temporale e l’accettiamo come nostra, seppur criticamente, perché non corrisponde al nostro credo politico. L’Italia, però, è un paese complicato, dove il passato non passa mai ed è questa una delle nostre peggior iatture.

Il meraviglioso Paese di merda

Quest’analisi non può che fare venire in mente un altro tuo film, girato sempre a Latina: Latina littoria in cui racconti la vita amministrativa del capoluogo pontino, durante l’approvazione del piano regolatore della città. In questo film possiamo vedere lo scontro e l’incontro tra il sindaco Ajmone Finestra, federale e gerarca fascista e lo scrittore di sinistra Antonio Pennacchi.

Eh si certo, anche in questo caso appunto, una città, attraverso l’approvazione del suo piano regolatore, deve accettare la propria storia o la deve cancellare? La cosa incredibile che un sindaco fascista, intendo a salvare la memoria, chiedendo l’aiuto di un noto urbanista di sinistra come Pier Luigi Cervellati, si ritrova come avversario politico la sua stessa parte politica, una destra, all’epoca dei fatti berlusconiana, che cancella una memoria storica che non va dimenticata, perché è vera, c’è stato il fascismo e con esso bisogna fare i conti.

Il sindaco fascista si ritrova a essere un portatore di verità, che per concretizzare la sua idea è costretto a fare sponda con la sinistra e soprattutto, con un tecnico di sinistra, che evidentemente ha avuto la capacità di storicizzare quel periodo e guardarlo con maggior distacco. Questa vicenda, come tante altre, ci aiuta a ben definire le tante contraddizioni del nostro meraviglioso paese di merda che provo a raccontare nei miei film.

La perdita della sacralità

Come in Lascia stare i santi in cui ricostruisco l’Italia, con le sue diversità e ciò ha permesso a me e ad Ambrogio Sparagna, in questo caso co – regista, ma mio collaboratore in tanti film, attraverso l’etnomusicologia e l’antropologia di penetrare in un mondo che sembra essere scomparso, ma che in realtà non lo è o, almeno, non del tutto.

E anche in questo caso prevale lo spirito della comunità attraverso il rito che riesce a fare da collante in una società come la nostra, estremamente parcellizzata. Così abbiamo sentito l’esigenza di fare questo film, condividendo un’esperienza collettiva di un intero paese. Va detto, comunque che in Lascia stare i santi prevale nettamente il mezzogiorno d’Italia, ma ciò avviene semplicemente perché al sud vengono conservate meglio le tradizioni, visto che ha subito, solo in parte, il fenomeno dell’industrializzazione.

Voglio però meglio spiegare il ruolo del rito religioso in Lascia stare i santi che forma e unisce la comunità. Questo, sia per me che per Ambrogio Sparagna, non viene considerato solo come superstizione o come legame con antichi retaggi, ma è un rivolgersi a Dio, attraverso i santi. Una necessità ancestrale dell’essere umano, impossibile da negare. Credo, infatti che oggi la solitudine e l’individualizzazione presente nella nostra società sia una diretta conseguenza dell’incapacità di ragionare in termini di spiritualità e di guardare oltre il qui e il ora. Nel mio prossimo film, intitolato Devozioni, che sto girando in Basilicata, provo a dare forma a un viaggio alla ricerca della spiritualità in un luogo dove la natura e la cultura religiosa sono molto presenti.

La tragedia antropologica di Gianfranco Pannone

Torni, dunque, nei luoghi di studio prediletti dall’antropologo Ernesto de Martino?

Si, ma anche di Luigi Di Gianni, celebre documentarista, mio maestro. In de Martino e, in parte anche in Di Gianni, però, prevale una certa forma di marxismo che guada questi mondi religiosi come delle comunità abitate essenzialmente da fattucchiere, superstizioni, magie bianche e nera, piuttosto che di consapevolezza del rapporto con l’altrove. Non mi piace legare la cultura popolare solo alla superstizione e alla miseria, preferisco considerare, come mi insegna Ambrogio Sparagna, la cultura contadina – pastorale come posseditrice di una propria felicità. Per cui accetto solo parzialmente i chiaroscuro, molto frequenti nei documentari di una certa etnografia, che tende a soffermarsi sull’arretratezza di alcuni luoghi

E anche il mondo politico di sinistra ha dato il suo sostegno a questa visione marxisista di certi mondi, proponendo la fine della comunità contadina, soppiantata da quella operaia. Solo oggi, purtroppo, ci rendiamo conto che quella cultura e quella tradizione sono molto importanti per noi, mentre il mondo operaio si sfalda. Così facendo viene meno quell’illusione storica della cultura di sinistra, a cui io comunque sento di appartenere.

Percorrendo questa strada si verifica la tragedia antropologica di cui parlava Pier Paolo Pasolini e con Lascia stare i santi si segue lo stesso discorso, arrivando fino all’ierofania, di senso del sacro, che oggi va verso l’estinzione, come la capacità di rivolgere lo sguardo verso mondi magici, che non sono caratterizzati solo dalla miseria, ma rappresentano, ancora una volta una comunità consapevole della propria identità, nel bene e nel male, con la ritualità religiosa a rappresentare un loro principale punto fermo. Si è verificata una sottovalutazione di questa tragedia antropologica, tenuta in considerazione da pochi, come Pasolini, che ci ha spiegato come la perdita delle proprie radici equivale al ritrovarsi figli di nessuno.

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