Mickey 17, presentato alla 75ª Berlinale. Questo è il titolo dell’ultima impresa che porta la firma di Bong Joon-ho. Il regista premio Oscar torna a più di dieci anni dall’uscita di Snowpiercer (2013) alla fantascienza. Mickey 17 è un’opera ambiziosa, lo testimonia anche un cast d’eccezione, capitanato da uno straordinario Robert Pattinson, e un budget considerevole, che supera i 100 milioni di dollari. Divertente, intrigante, riflessivo e necessario. Quattro attributi che dovrebbero essere sufficienti a stimolarne la visione. Premonitore, scomodo, coraggioso e satirico. Altre quattro parole che dovrebbero suggerire a chiunque la necessità di vederlo una volta uscito nelle sale. Tutti questi anni, questi mesi, questi giorni. Ne è sicuramente valsa la pena.
Mickey 17: trama
Mickey Barnes, un membro “sacrificabile” di una spedizione spaziale volta alla colonizzazione del pianeta ghiacciato Niflheim. Ogni volta che muore è rigenerato da una sofisticata stampante 3D, capace di replicarne corpo e mente. Per questo motivo, ogni sua nuova riproduzione viene utilizzata per le missioni più disparate e pericolose. In poche parole, una cavia umana necessaria e, per certi versi, indispensabile per il nuovo insediamento umano a Niflheim. Tuttavia, l’intoppo si cela dietro l’angolo. Erroneamente ritenuto morto, il diciassettesimo clone di Barnes dovrà confrontarsi con il neo-generato Mickey 18, rivelando i limiti e le contraddizioni della realtà che li circonda.
Il fine giustifica il genere
Non ci sono dubbi. Mickey 17 è l’ennesimo esempio di un tratto stilistico che ha definito fin dagli albori la carriera di Bong Joon-ho. Il genere cinematografico, filtrato dall’autorialità, assume un valore ulteriore e diventa strumento capace di veicolare un messaggio superiore, potenziandone la risonanza. Fantascienza e black-humor si equilibrano così a vicenda, fondendosi in un affresco dissacrante, capace di riflettere alcuni dei dilemmi etici più diffusi nella società contemporanea. Post-colonialismo, ambientalismo, anti-specismo, anti-classismo, sono solo alcuni dei movimenti filosofico culturali da cui attinge la sensibilità artistica del regista e Bong non intende sicuramente nasconderlo.
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Questa volontà di trasparenza è alla base di un progetto cinematografico che non può essere frainteso. Mickey 17, come molti altri film contemporanei, si fa perciò portatore di un didascalismo buono. Un didascalismo nato da un irrefrenabile impulso di denuncia, che erge l’opera a manifesto. D’altronde, mostrare una futura deriva etico-sociale che alcuni fenomeni odierni (scientifici, religiosi, politici) rendono immaginabile e credibile è sempre stato un attributo insito nella fantascienza. Bong Joon-ho ne è consapevole e con Mickey 17 sembra volerci dire proprio questo.
Mickey 17 regala un nuovo punto di vista sulla riproducibilità del corpo
La fonte da cui fluisce tutta la narrazione di Mickey 17 è strettamente collegata a una tematica filosofica molto suggestiva: quella del doppio. Ma, l’aspetto veramente interessante del nuovo film di Bong Joon-ho è l’approccio alla materia in questione. Se contestualizzato, Mickey 17 arricchisce il filone cinematografico contemporaneo che ha come oggetto comune d’interesse il corpo e la sua riproducibilità organica. The Substance di Coralie Fargeat, Poor Things di Yorgos Lanthimos, Avatar di James Cameron, Moon di Duncan Jones sono solo alcuni dei titoli che, in appena quindici anni, hanno alimentato questa fantastica corrente, regalando sempre nuove prospettive d’analisi.
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Il transumanesimo in Mickey 17 non è da meno. Attorno alla possibile riproducibilità organica del corpo, Bong Joon-ho struttura l’incontro tra due possibili forze etiche dicotomiche. Da un lato l’oggettificazione consumistica e utilitarista, derivante da un capitalismo estremo, che riduce il corpo a pura merce di scambio e di ricatto, dall’altro il sentimento umanista, che vede il corpo come contenitore di un’anima singolare, irriproducibile e definita anche dal rapporto con l’altro. Il numero oggettivo e le funzionalità parametrizzabili si contrappongono alla soggettività e all’unicità del nome.
Quando realtà e finzione non sono più così distanti
Cosa può nascere dall’unione satirica tra Trump e Elon Musk? La risposta è Kenneth Marshall, il capitano della spedizione spaziale splendidamente portato sullo schermo da Mark Ruffalo. Non ci sono dubbi sulle allusioni ai due “personaggi” che, in un modo o nell’altro, sono finiti nel 2025 ai vertici degli Stati Uniti d’America. Ed è triste dover ammettere che l’ibrido tra due personaggi veri funziona benissimo in un film di fantascienza. Forse, il termine che meglio definirebbe la figura di Kenneth Marshall è: perturbante. Questo perché, per quanto si è consapevoli della sua artificiosità, si è al contempo consci del suo rimando al reale.
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Bong Joon-ho dimostra che è possibile, “solo” grazie a un’intelligente caratterizzazione di un personaggio, tessere un costante senso di straniamento. E, come se non bastasse, sceglie di affiancare a Kenneth Marshall una grandissima Toni Collette nelle vesti di Ylfa. La moglie che, come una femme fatale del futuro, controlla parte dell’operato del marito, sussurrandogli idee all’orecchio. Anche lei chiaramente ispirata a figure come Melania Trump. Eppure, l’invettiva non è solo contro i fautori del populismo. Perfino parte dell’equipaggio è frutto di una rappresentazione satirico-grottesca. Insomma, quasi nessuno sembra essere risparmiato da Bong, che allarga l’invettiva anche verso chi il populismo lo accetta, lo difende a spada tratta, per poi ricredersi per convenienza.