Il seme del fico sacro (titolo internazionale Les Graines du figuier sauvage), l’ultimo film di Mohammad Rasoulof, in sala dal 20 febbraio, è una lezione imperdibile sul cinema, e sul cinema militante. Racconta una storia famigliare e politica con ammirevole temerarietà (del regista, degli attori e di tutto il team, se si considerano le angherie subite), attraverso una scrittura tesa dall’inizio alla fine, senza cedimenti, senza distrazioni, né digressioni. Centosessanta minuti di inquietudine per i personaggi, le donne soprattutto, e per cosa succederà di lì a poco, nell’intollerabile discesa agli inferi che è diventata la loro vita.
Il seme del fico sacro: La trama ufficiale
Teheran. I festeggiamenti per la promozione di Iman a giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria coincidono con il movimento di protesta popolare a seguito della morte di una giovane donna. Iman è alle prese con il peso psicologico del suo nuovo ruolo. Mentre le sue figlie, Rezvan e Sana, sono scioccate e, allo stesso tempo, elettrizzate dagli eventi, la moglie Najmeh cerca di fare del suo meglio per tenere insieme la famiglia. Quando Iman scopre che la sua pistola d’ordinanza è sparita, sospetta delle tre donne. Spaventato dal rischio di rovinare la sua reputazione e di perdere il lavoro, diventa sempre più paranoico e inizia, in casa propria, un’indagine in cui vengono oltrepassati tutti i confini, uno dopo l’altro…
La consapevolezza, davanti alle proteste nelle scuole, nelle università e per le strade di Teheran, che le ragazze di casa osservano dai loro cellulari, si fa insopprimibile. E, soprattutto nella seconda parte, l’accumulo di tensione rende il film un thriller tra le mura domestiche, perché proprio lì s’insinua un pesantissimo sospetto.
Rezvan e Sana guardano gli orrori di fuori. Foto ufficiale del film
Festival, candidature, cast
Il seme del fico sacro è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes (2024), dove ha ottenuto il Premio speciale della giuria. È candidato agli Oscar come miglior film straniero.
È una co-produzione iraniano-franco-tedesca ed è distribuito da Lucky Red e Bim Distribuzione.
Il seme del fico sacro Il trailer
La pistola di Cechov e la metafora nel film
L’esordio della vicenda, dopo la preghiera solitaria di Iman in un luogo isolato che sa di suggestiva sacralità, vede alcuni proiettili in primo piano cadere a uno a uno sul ripiano di un tavolo. Se ne sente fortissimo il rumore, nell’ambientazione di un bianco abbagliante. I proiettili e subito dopo una penna, una firma, la firma di Imam, la sua condanna.
Non sappiamo quando questa maledetta pistola sparerà, e siamo sempre in attesa che ciò avvenga, perché oltre alla logica cechoviana sugli elementi di un racconto che funzioni, qui assume un valore letterale e metaforico insieme. Non semplice ingrediente inserito a suggerire le soluzioni narrative, ma una pistola vera e propria, che si fa anche simbolo di qualcosa di più grande, allusione alle lotte interne ed esterne rispetto alla famiglia. “La pistola nel mio racconto è una metafora del potere in senso lato, ma crea anche un’opportunità per i personaggi principali della storia di rivelare i propri segreti; segreti che emergono gradualmente, con risultati tragici”. (Mohammad Rasoulof)
I mostri sono tra di noi
Già ne Il male non esiste, il bellissimo film del 2020 premiato al festival di Venezia, Mohammad Rasoulof, mentre affrontava il tema della pena di morte, ci suggeriva questa insostenibile verità. Non bisogna andare lontano per individuare i responsabili, perché il male non esiste solo quando lo si considera comune e ineluttabile, oltre che giusto. Un alibi che tiene finché la sottomissione è cieca, finché si applicano le regole, gli ordini, i precetti nonostante il dubbio che siano sbagliati cominci a farsi strada.
Un dialogo ne Il seme del fico sacro:
Iman: Non come padre, ma come esperto dei servizi del sistema da vent’anni non pensi che quello che succede lo sappia meglio io?
Sana, la figlia maggiore: No, tu no, perché ci sei dentro
Il male non esiste, quindi, anche nell’ultimo film del regista, perché non lo si vuole riconoscere; altrimenti, le crisi di coscienza sconvolgerebbero l’anima e non ci sarebbe più ritorno.
Obbedienza e disobbedienza questa volta si fronteggiano in famiglia, ed è impressionante il passaggio dalla richiesta di diritti di poco conto (ma tutti i diritti hanno un senso!) a quella di una libertà di pensiero più profonda. Le ragazze sostengono, se pure da casa, il movimento Donne vita libertà, condividendone le proteste, la madre cerca di conciliare i loro bisogni con la rigidità del marito, che all’inizio condivide pienamente.
Il desiderio soffocato di libertà
Non c’è posto per momenti di leggerezza, se non quelli vagheggiati dalle ragazze (la più piccola che mette lo smalto e sogna di tingersi i capelli di blu); quei sogni di una libertà fatta anche di piccoli gesti quotidiani, resi impossibili dall’ottusità del regime impersonato da un padre affettuoso e inflessibile al tempo stesso.
Foto ufficiale del film
E non c’è spazio per canzoni come Oh bella ciao che sentiamo in qualche momento catartico ne Il male non esiste. È la versione di Milva con parole diverse ma con la consapevolezza, dice il regista, che si tratta comunque di una canzone contro la dittatura.
La vita in famiglia, i momenti quotidiani, le relazioni tra sorelle e con i genitori, le rinunce incomprensibili, le pretese così assurde degli adulti: è tutto raccontato con i dettagli di una qualunque realtà domestica, fin quando il regime non irrompe da fuori in tutta la sua incomprensibilità. Da quel momento in poi, non ci sarà più salvezza in questa famiglia che rappresenta l’intera società iraniana, e si fa monito al mondo e alla lotta tra dittatura e democrazia.
Un film di denuncia
È talmente forte la situazione descritta dal regista iraniano, e sono così sconvolgenti le scene autentiche di violenza per strada riprese dai cellulari, ed è ancora così necessaria la denuncia, che tutto ciò rischia di occupare per intero lo spazio della conversazione quando se ne parla o della pagina quando se ne scrive.
Di seguito, i link su Taxidrivers, che ha seguito il percorso del regista nel tempo e i suoi problemi con il regime, oltre alla recente video-intervista di Nicola Rumeliotis.
In realtà, Il seme del fico sacro è anche un film di una bellezza straordinaria, che lascia col fiato sospeso per l’apprensione, e una sorta di malia per la resa cinematografica.
La sceneggiatura dello stesso regista è costata una profonda riflessione: sono passati quattro anni dal film precedente, tra un arresto, un rilascio e tante altre esperienze negative, sue e del suo Paese (come il destino crudele di Mahsa Amini per aver indossato il velo con negligenza). Ed è una scrittura che tiene, scena dopo scena, senza una minuzia, un’inquadratura, una parola superflue, fino alla conclusione, che aggiunge angoscia ad angoscia.
Una trappola nella quale i personaggi s’impantanano sempre più, grazie alla costruzione perfetta dell’intreccio in cui il rispecchiamento dentro casa di ciò che avviene all’esterno non ha neanche una sfumatura fuori posto.
Foto ufficiale del film
Il titolo del film
Per molto tempo ho vissuto in una delle isole meridionali dell’Iran. Su quest’isola ci sono alcuni vecchi alberi di fichi sacri. Il ciclo di vita di questo albero ha attirato la mia attenzione. I suoi semi cadono sui rami di altri alberi. I semi germogliano e le loro radici si muovono verso il terreno. Quando le radici raggiungono il terreno, il fico sacro si regge sulle proprie gambe e i suoi rami strangolano l’albero ospite.
Questa dichiarazione del regista, a indicare la solennità di un simbolo altamente evocativo, è posta nell’incipit de Il seme del fico sacro. Rasoulof ama quei momenti di sospensione, di sacralità, appunto, che compaiono in narrazioni per il resto quasi neorealistiche. Già nel 2005, allora trentenne, ne L’Isola di ferro, un film di un incredibile originalità allegorica, la conclusione dilata i suoi tempi (così come nell’ultimo film) e si concede qualche scena altamente immaginifica. I derelitti che occupavano la nave, scesi a terra, seguono la loro guida, come un nuovo Mosè, burbero e paterno; il vecchio zio vestito di bianco continua a scrutare il sorgere del sole, e il delizioso bimbo-pesce si tuffa finalmente in acqua.
Il seme del fico sacro, racconto carico di disperazione, non può regalarci momenti simili, se non nella scenografia finale di una città distrutta, simbolo evidente di un mondo in rovina. In una location da sogno, o da incubo, la storia precipita fino all’ultimo, terribile, frammento.
Fiducia nel futuro
Nonostante tutto, nell’intervista per Taxidrivers, il regista iraniano parla di un cammino “della libertà, sì, molto lungo, dopo un controllo secolare”, ma anche di una grande speranza riguardo al cambiamento. “Ci vuole tanta pazienza e voglia di continuare questo percorso; non c’è altro modo, bisogna farlo, non lo si può accorciare”.
Inutile aggiungere, dopo aver visto questo suo ultimo film, quanto questa lenta ma inesorabile trasformazione sia affidata alle donne.