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Approfondimento

Lee Chang-dong, un magico realismo indaga l’individuo – Parte 2

'Oasis', 'Secret Sunshine', 'Poetry' e 'Burning' plasmano l'immagine di uno dei registi più riconosciuti dalla critica contemporanea

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Lee Chang-dong

La seconda parte del nostro approfondimento (qui trovate la prima) riparte da dove ci eravamo lasciati: la terza pellicola di Lee Chang-dong Oasis. Con l’uscita di questo film assistiamo al fiorire di un’evoluzione di pensiero, artistica e filosofica, ben precisa. Lee Chang-dong abbandona film dopo film il predeterminismo, adottato inizialmente, che portava i protagonisti di fronte a un’inevitabile sconfitta. Con il passare del tempo cresce sempre più una maggiore fiducia rivolta alle potenzialità dell’individuo. In poche parole a manifestarsi è un approccio diverso al trauma da parte dei protagonisti. All’interno di Green Fish e Peppermint Candy era incosciente e autodistruttivo, mentre in Oasis e Secret Sunshine si fonderà sul rapporto di coppia o sulla relazione fallimentare con determinati gruppi sociali, come la famiglia o la comunità cittadina, lasciando però un finale aperto.  In Poetry e in Burning, invece, viene interiorizzato dai due protagonisti, che, nell’epilogo, riusciranno, in un percorso autonomo, a trasformare le percezioni in due azioni, concretizzando in modo vincente i propri intenti: da un lato la creazione di una poesia, dall’altro l’omicidio.

L’affermazione di Lee Chang-dong nei circuiti festivalieri occidentali

Con Oasis Lee Chang-dong sceglie di portare sullo schermo una storia che ha per protagonisti due individui affetti da disabilità psichiche e fisiche. L’ispirazione fu in parte frutto dall’esperienza personale di Lee Chang-dong con la sorella, affetta da paralisi cerebrale. Contando su due attori formidabili come Moon So-ri e Sol Kyung-gu e avvantaggiato da un ambiente sempre più tollerante, anche grazie all’abolizione della censura cinematografica messa in atto dal governo di Kim Dae-jung nel gennaio del 2001, Lee porta il tutto a compimento senza particolari intoppi.

Oasis esce nelle sale sudcoreane poco più di due anni dopo Peppermint Candy, il 15 agosto del 2002. Il film, beneficiario del Pusan Promotion Plan (PPP) e ancora una volta prodotto dalla East Film di Myung Kae-nam, non ebbe un enorme successo di pubblico, ma riuscì a nobilitare ancora di più il nome di Lee Chang-dong all’interno dei circuiti festivalieri occidentali.

Oasis, infatti, entrò nella selezione ufficiale della 59ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Un’edizione preceduta e circondata da una pesante cappa di polemiche per una serie di motivi, da un lato legati alla nomina di Moritz de Halden alla direzione del Festival, dall’altro al taglio dei fondi che non aveva permesso di sanare le condizioni obsolete delle strutture. L’organizzazione del Festival riuscì comunque a proporre un concorso interessante, con grandi registi come Takeshi Kitano, Todd Haynes, Andrej Koncalovskij, sicuramente più conosciuti di Lee. Nonostante la levatura dei concorrenti, Oasis si aggiudicò premi importanti. Primo fra tutti il Leone d’argento – Premio speciale per la regia, ma anche il Premio FIPRESCI, assegnato ogni anno dalla federazione internazionale della stampa cinematografica. Inoltre, anche Moon So-ri venne insignita del Premio Marcello Mastroianni, che valorizza la miglior performance di attori o attrici emergenti.

Oasis: trama

Jong-du (Sol Kyung-gu) torna a casa dopo aver scontato due anni e mezzo in carcere per omicidio colposo stradale, solo per essere trattato con disprezzo dalla famiglia, in particolare dal fratello maggiore Jong-il e dalla cognata. Un giorno fa visita all’appartamento dell’uomo che ha ucciso. Qui conosce Gong-ju (Moon So-ri), una giovane ragazza affetta da una grave paralisi cerebrale, trascurata dai propri familiari. Tra i due, dopo un violento incontro, in cui Gong-ju tenta di approfittarne fisicamente, nasce una storia d’amore. La loro relazione però è fragile, a causa della loro emarginazione sociale.

Un passaggio cruciale nella carriera di Lee Chang-dong

Lee Chang-dong

Oasis è una pellicola fondamentale all’interno del catalogo artistico che porta la firma di Lee Chang-dong. I motivi principali sono essenzialmente due. Il primo ha a che vedere con il realismo magico. Elemento su cui questo approfondimento si è già soffermato e che qui comincia a emergere in modo molto chiaro. Il secondo ha a che vedere con l’approccio all’individuo che non viene giocato sulla singolarità, ma sulla duplicità. Il che permette subito di individuare, con giustificato anticipo, i due vettori relazionali su cui si articoleranno tutte le dinamiche dell’opera. Il primo è quello che unisce tra loro i due innamorati coprotagonisti, Jong-du (Sol Kyung-gu) e Gong-ju (Moon So-ri); il secondo rapporta la loro relazione al mondo che li circonda, costituito, principalmente, dai familiari. Inoltre, per la prima volta la figura femminile viene posta in primo piano a fianco a quella maschile, preannunciandone l’assoluta centralità nelle due opere successive.

Una storia d’amore che critica e abbatte gli stigmi sociali

Il motivo per cui Oasis è un film così potente e destabilizzante è perché ci mette di fronte ai nostri limiti mentali e attraverso l’amore e la sessualità ridona a due persone la dignità che era stata loro negata dalla società. Lee Chang-dong riesce a far vibrare determinate corde emotive che ci pongono in discussione con noi stessi. Lo fa attraverso la narrazione, ma, soprattutto, lo fa attraverso la potenza delle immagini. A partire da come inizia la storia d’amore tra i due protagonisti, Lee opta per la messa in discussione: una scena di un tentato stupro. Un gesto folle, sconsiderato e denigratorio getta la terra su cui germoglierà il sentimento.

La compassione provata dalla vittima per il carnefice e il senso di vergogna provato da quest’ultimo hanno origine dal reciproco senso di solitudine e di abbandono. La loro situazione è la conseguenza di un fallimento sociale e quindi la colpa originale va addebitata alla realtà che li circonda. Mentre l’ipocrisia che aleggia nelle loro famiglie si palesa in tutta la sua chiarezza, loro alimentano la sincerità.

Lee Chang-dong

Atteggiamento che dal contenuto impregna per osmosi lo stile di ripresa di Lee che regala una scena di sesso indimenticabile. Nessuno stacco di montaggio fa riposare lo sguardo di chi è dall’altra parte dello schermo. Costringe alla visione. Mai nessun film prima di Oasis era riuscito a rappresentare con tanta considerazione e rispetto un atto sessuale tra due persone diversamente abili. Lee ribalta l’abitudine diffusa dal perbenismo e dalla moralità, dall’estetica hollywoodiana, arrivando a mostrare Jong-du e Gong-ju di Oasis in tutta la loro umana nudità.

L’immaginazione che “normalizza”

Gong-ju, in quattro occasioni, “normalizza” il proprio corpo attraverso l’immaginazione. Tra esse spicca sicuramente la danza insieme a Jong-du e alle tre figure che prendono vita dall’arazzo che ha appeso in camera: un piccolo elefante, la donna e il ragazzino.

Analizzate nel complesso, le sequenze mostrano due aspetti interessanti.

Il primo: è il mondo esterno che stimola la fantasia di Gong-ju . Questa affermazione diventa ancora più chiara se, prestando attenzione, si inseriscono nell’analisi anche le scene in cui Gong-ju, servendosi di uno specchio, gioca con la luce del sole e trasforma i riflessi in colombi o farfalle, e quella in cui scompare dall’arazzo l’ombra che tanto la impaurisce, mentre Jong-du all’altro capo del telefono esegue una magia. Sia la luce del sole, che l’ombra prodotta dai rami dell’albero, non sono altro che manifestazioni del mondo esterno nell’appartamento di lei.

Altro aspetto importante: più il sentimento d’affetto tra i due cresce, più Jong-du diventa parte attiva nelle fantasie di Gong-ju. Allo spettatore non è dato sapere fino a che punto lui ne sia consapevole, ma ciononostante rimane una questione importante da tenere in considerazione. La “normalizzazione” limitata all’aspetto corporeo viene così estesa a quello relazionale.

Il modo in cui Lee Chang-dong utilizza la fantasia potenzia il dramma rappresentato. Si può asserire che approfondisce la realtà. Contribuisce alla messa in scena di un iperrealismo, che consente allo spettatore di scavare meglio nell’io interiore dei personaggi.

L’esperienza politica e il ritorno al cinema con Secret Sunshine

Secret Sunshine, il quarto lavoro di Lee Chang-dong, da molti ritenuto uno dei suoi capolavori, uscì nel maggio del 2007. La pausa di cinque anni, che lo separa da Oasis, fu motivata da alcune esperienze istituzionali, che videro Lee come protagonista, prima fra tutte il suo coinvolgimento politico. Nel 2002 apparve in televisione al fianco di Roh Moo-hyun, avvocato per i diritti umani durante le dittature degli anni ’80 e dei primi anni ’90 e a quel tempo candidato per la presidenza. Divenuto il 9° Presidente della Corea del Sud, Roh Moon-hyun volle al suo fianco, in qualità di Ministro della Cultura, proprio Lee Chang-dong, preferendo per il ruolo un rappresentante del mondo della cultura piuttosto che politici professionisti. Lee si dimise dopo un anno, soprattutto a causa della questione della difesa delle quote cinematografiche.

Questi sono anche gli anni in cui vestì la carica di visiting professor presso la nuova scuola nazionale di cinema coreana (KNUA), dove si ritrovò a fianco di colleghi di primaria importanza: Park Kwang-su e Hong Sang-soo. Dimessosi da ministro, nel 2006 ritornò a pieno regime a occuparsi di cinema.

Secret Sunshine vanta nel cast due tra i più conosciuti divi del cinema sudcoreano moderno: Jeon Do-yeon e Song Kang-ho. Grazie a loro il film ricevette la meritata attenzione dalla critica e venne selezionato per concorrere alla Palma d’Oro nella 60ª edizione del Festival di Cannes. Pur non ottenendo l’ambito premio, che quell’anno fu assegnato a 4 mesi, 2 settimane, 3 giorni (2007) di Christian Mungiu, Secret Sushine poté vantare il riconoscimento a Jeon Do- yeon, la quale vinse il Prix d’interprétation féminine. Ma, come spesso la storia insegna, non sono i premi a decretare il valore effettivo di un film. A conferma di ciò, il 23 agosto del 2011 Secret Sunshine diviene il primo film sudcoreano a essere inserito nella prestigiosa Criterion Collection.

Secret Sunshine: trama

Shin-ae (Jeon Do-yeon), in cerca di un nuovo inizio nella città natale del suo defunto marito, Miryang, si ritrova, insieme al figlio Jun, bloccata con la macchina sul ciglio della strada. In suo aiuto accorre Jong-chan (Song Kang-ho), un meccanico del luogo, che presto finisce per innamorarsi di lei, nonostante Shin-ae respinga qualsiasi sua avance. Giunta a Miryang, Shin-ae cerca in ogni modo di integrarsi. Quando è sul punto di riuscirci, una tragedia la colpisce. Il figlio le vien rapito. Cercare il conforto nella religione sembra essere l’unico rimedio.

Una parabola sincretica, una vicenda sospesa

La vicenda di Shin-ae è interessante perché sincretica. Può rappresentare una parabola religiosa (vi si può leggere una sfida ai dettami religiosi per eccellenza: i dieci comandamenti), atea, laica, psicoanalitica (i concetti freudiani di lutto e melanconia, con il conseguente limbo tra accettazione e rifiuto della perdita). D’altronde, lo stesso Lee Chang-dong non ha mai voluto escludere nessuna delle possibili letture.

L’unica innegabile certezza è il costante e intimo interesse con cui il regista accompagna la traiettoria emotiva di Shin-ae. L’individuo per Lee rimane sempre il centro delle sue opere. Non si può prescindere da questo se si vuole cercare di comprendere i suoi propositi artistici e la sua filosofia cinematografica. Il delicato approccio di Lee Chang-dong alla sua protagonista è unico, anche per il rispettoso distacco con cui sceglie di riprendere determinate sequenze. Durante il ritrovamento del corpo del bambino, la camera, dopo aver seguito per un breve tratto Shin-ae, rimane ferma, continuando a riprenderla in uno statico campo lungo, privo di inutili toni melodrammatici o di una qualsiasi enfatizzazione macabra e superficiale.

In Secret Sunshine la tragedia spinge la riflessione nell’anfratto dell’esistenzialismo. Un luogo buio, opaco, disordinato dove una risposta non sarà mai sufficiente. La piena comprensione dell’umano di Lee non riduce nulla a semplici dicotomie. Non si espone, indirizzando la vicenda attraverso un percorso ben tracciato o verso un punto ben preciso. Preferisce limitarsi semplicemente all’indeterminazione, sospendendo qualsiasi risoluzione. D’altronde la stessa Shin-ae è un personaggio incompreso dagli altri e da se stessa fin dall’inizio. Fatica a comunicare ed è vittima di equivoci, come se senza il marito mancasse quel tassello in grado di mediare tra lei e la comunità che l’accoglie. Lo spaesamento è quindi insito nei rapporti descritti e, per deduzione logica, non può che aumentare a seguito del rapimento di suo figlio.

Un kidnapping movie senza precedenti

Distaccandosi dalle formule di genere e rifiutando i luoghi comuni associati alla narrazione di rapimenti o alle trame procedurali, che un tale soggetto di partenza avrebbe potuto suggerire, Lee dimostra ancora una volta di possedere una sensibilità unica nel suo genere.

Basti pensare ad altri famosi film sui kidnapping come Mr. Vendetta (2002) del coreano Park Chan-wook, Anatomia di un rapimento (1963) di Kurosawa Akira o il più recente Prisoners (2013) di Denis Villeneuve. In tutti questi lungometraggi vengono adottate specifiche scelte narrative, che, spesso, prediligono alimentare l’azione e la suspense. Per esempio: mostrare le indagini dei detective e della polizia, soffermarsi sul ruolo attivo o vendicativo dei genitori nella ricerca del proprio figlio o della propria figlia, che spesso si intreccia alle ricerche ufficiali, oppure sviluppare la vicenda dal punto di vista dei rapitori.

In Secret Sunshine questo non accade, anzi, Lee Chang-dong sceglie di mantenere nascosto qualsiasi elemento narrativo che distoglierebbe l’attenzione del pubblico dal calvario interiore di Shin-ae.

Un utile confronto: Lee Chang-dong e Kurosawa 

In particolare con il film di Kurosawa il paragone si fa di notevole interesse. Anche nel capolavoro del maestro nipponico vi è, infatti, una scena in cui l’imprenditore Gondo e il rapitore Takeuchi si incontrano un’ultima volta prima dell’esecuzione capitale. Le due scene, per quanto analoghe, differiscono per una serie di motivi evidenti.

Il primo è che nel film di Kurosawa è Takeuchi, il rapitore, a proporre l’incontro, mentre nel film di Lee Chang-dong è Shin-ae.

Il secondo riguarda l’atteggiamento dei rapitori.

Il terzo è la collocazione temporale delle scene all’interno dei film. Nell’opera di Kurosawa, l’incontro avviene alla fine. Lee Chang-dong, invece, lo inserisce a circa due terzi dell’opera. Lascia il resto del tempo, per permettere allo spettatore di affrontare il nuovo crollo emotivo di Shin-ae e la sua perdita di fiducia in Dio e nella comunità evangelica, che l’ha accolta senza comprendere appieno la sua situazione e il suo dolore. Shin-ae comincia a dubitare della benevolenza di Dio e dei dettami religiosi. Come può perdonare l’assassino di suo figlio, se lei non lo ha ancora perdonato?  Shin-ae entra in uno stato di trance emotiva totale. La sua unica certezza è che nulla abbia più un senso. La sua mente vaga nell’incertezza, riuscendo a esprimersi solo attraverso atti dettati dal più sincero ripudio di Dio e della comunità, che non ha saputo comprendere le sue esigenze.

Tra luci astratte e luci concrete

La luce è un fenomeno di primaria importanza all’interno di Secret Sunshine. Il titolo stesso contiene un rimando alla fonte di luce per eccellenza: il sole. Ed è interessante pensare che il sole, la fonte del visibile, non può essere realmente visto dall’occhio nudo. Il non visibile e il visibile. È su questa dicotomia che Lee riflette.

All’inizio Shin-ae riconosce nell’origine del nome della città un certo simbolismo connesso alla luce. In seguito consiglierà alla proprietaria del negozio di vestiti, di rendere gli spazi più luminosi, insinuando di essere l’unica in grado comprendere un certo tipo di “luce”. Dopodiché, durante un confronto con la farmacista, paradossalmente, adotta un approccio semplicistico, tautologico, riconoscendo in un raggio di sole un semplice raggio di sole, lì dove, invece, la controparte vi vede la presenza di Dio. Tuttavia, a seguito della perdita del figlio e del suo conseguente avvicinamento alla religione cristiana, si presume che anche lei abbia accolto l’idea della luce come manifestazione divina. I significati a essa attribuibili possono essere infiniti.

La luce però, allo stesso tempo, è la condicio sine qua non. È lo strumento necessario per poter mostrare e per poter vedere. Coadiuvata dal medium cinematografico, non può che servire per indirizzare l’occhio dello spettatore. L’inquadratura finale sul pezzetto di terra, non filtrata da alcuno schermo, richiama ciclicamente l’inquadratura iniziale del cielo, filtrata dal parabrezza dell’auto di Shin-ae. Metaforicamente, porre un oggetto tra l’occhio nudo e la provenienza della luce simboleggia il diritto universale di osservarla attraverso le proprie credenze. Invece, mostrare con limpidezza la terra, dove la luce naturalmente si infrange, non lascia molteplici interpretazioni: a prescindere dalla sua essenza, la luce del cinema di Lee privilegia la vita terrena come primo oggetto a cui rivolgere il nostro sguardo. Shin-ae, probabilmente, lo ha capito.

Poetry, l’ultima interpretazione della grande Yun Jung-hee

Poetry esce nelle sale sudcoreane il 13 maggio del 2010. Lee Chang-dong racconta che l’idea del film gli balenò in testa mentre scriveva la sceneggiatura di Secret Sunshine. Si imbatté in un caso di violenza sessuale ai danni di una studentessa delle scuole medie, avvenuto proprio a Miryang, dove era ambientato Secret Sunshine, e decise di voler fare un film proprio su quello. Fu ossessionato a lungo dai tentativi di concretizzare questa ispirazione, fino a quando, durante un viaggio a Kyoto, leggendo Kundera davanti alla TV dell’hotel, rimase incantato da un programma, probabilmente dedicato ai turisti, che mandava in onda paesaggi meravigliosi con musiche rilassanti.

A quel punto capì che il titolo di un film, che trattava un caso così crudele, doveva essere Poetry. La scelta dell’attrice protagonista ricadde subito su Yun Jung-hee, diva del cinema sudcoreano degli anni ’60 e ’70, che, con le sue capacità, la sua bellezza e la sua prolifica carriera, aveva alimentato l’immaginario della gioventù di Lee.

Il film non ottenne un enorme successo di pubblico, anche perché inserito in un periodo in cui il cinema coreano fu molto orientato al protagonismo maschile. Ciononostante, come altre volte nella carriera del regista, i numeri non particolarmente alti al botteghino furono compensati da un notevole apprezzamento da parte della critica specializzata. Il film, presentato in concorso a Cannes durante la sua 63ª edizione, ottenne il Prix du scénario, assegnato alla miglior sceneggiatura, confermando il valore di un regista ormai riconosciuto ampiamente non solo in Oriente, ma anche nel lontano Occidente. Purtroppo Poetry segnerà l’ultima apparizione sul grande schermo della veterana Yun Jung-hee, che nello stesso anno d’uscita del film si ritirerà dalle scene a causa delle sue condizioni fisiche.

Poetry: trama

Il corpo privo di vita di una giovane studentessa viene traportato dalla corrente del fiume Han. Nella scena successiva Mi-ja (Yun Jung-hee), un’anziana signora di sessantasei anni, dall’aspetto curato e dall’aria malinconica, si trova nell’ospedale locale per una visita di routine. I vuoti di memoria di cui Mi-ja dice di soffrire diventano motivo di preoccupazione per il medico, che le consiglia di approfondire la questione in una struttura più grande e attrezzata.

Questo è l’incipit che preannuncia i toni drammatici del quarto film di Lee Chang-dong, Poetry. Da un lato il corpo della ragazza, dall’altro la visita medica non sono altro che il preludio di due tragedie, che sconvolgeranno la vita della protagonista. Infatti, dopo poco tempo, non solo Mi-ja scopre di essere affetta dal morbo di Alzheimer, ma anche che la studentessa trovata morta nel fiume si chiamava Hae-jin e che si è suicidata a causa dei ripetuti abusi sessuali subiti da un gruppo di ragazzi. Tra di loro c’è anche Jong, il nipote che Mi-ja cresce al posto della figlia.

Il rapporto tra poesia e realtà

L’arte poetica, di cui Lee Chang-dong si appropria voracemente a partire dal titolo stesso dell’opera, Poetry, è il fulcro contenutistico e formale della pellicola. Un indizio, un suggerimento per riuscire a tratteggiare uno dei possibili percorsi analitici. Particolarmente significativo e significante, all’interno della pellicola, è il rapporto che l’arte poetica instaura con il reale. Poesia e realtà, due facce della stessa medaglia, il cui dialogo genera un’alternanza e una concomitanza di correnti centripete e centrifughe.

Le prime spingono le riflessioni verso il cuore pulsante del rapporto tra i due elementi: la sostanza narrativa. La poesia sarà lo strumento che aiuterà un’asociale come Mi-ja ad affermare il proprio intento sul mondo insensibile che la circonda. Un mondo maschilista, governato dall’apparenza e dalla mancanza di empatia, di cui non fa e non intende fare parte.

Le seconde finiscono per allargare il campo meditativo al concetto di transmedialità, ovvero la capacità del testo cinematografico di arricchire il proprio linguaggio, dialogando con le potenzialità espressive di quello poetico.

La poesia è strumento e traguardo di un percorso catartico

Contenutisticamente parlando, alla poesia sono riservati due ruoli simbioticamente correlati: strumento indispensabile per il percorso catartico della protagonista e fine ultimo del percorso catartico stesso. Essendo una poetessa alle prime armi, inizialmente Mi-ja si approccia goffamente alla scrittura in versi, finendo per metter in pratica ingenuamente quanto suggeritole dall’insegnante del corso: “per scrivere una poesia bisogna vedere”. Finisce per attribuire alla poesia una funzionalità più superficiale, a tratti stereotipata: un semplice strumento con cui connettersi alla natura e rifugiarsi in un puro stato di pace emotiva e contemplativa. Proprio per questo la vera ispirazione tarda ad arrivare. Anzi, ogni stato di contemplazione viene brutalmente interrotto da una serie di intrusioni.

Una vicina si intromette ponendole una domanda; la sua infatuazione per le camelie rosse nella stanza del dottore nell’ospedale di Seoul si dissolve quando lui le dice che sono finte; mentre osserva il fiume, il vento le fa volare il cappello; quando si appresta a scrivere sul taccuino la pioggia comincia a inzupparle le pagine. Ma, se a ogni tentativo di sfuggirle, la brutalità del vero tenta di richiamare Mi-ja al proprio cospetto, forse è proprio in essa e nei suoi traumi che si nasconde l’ispirazione tanto cercata. Mi-ja accoglie questa verità pienamente: la poesia va scritta con le lacrime insanguinate di Hae-jin. L’unica soluzione è abbracciare l’assenza che si palesa in due forme di mancanza: una presente, Hae-jin e la sua corporeità; l’altra presente e futura, le parole di cui l’Alzheimer ha già cominciato a privare Mi-ja. Improvvisamente nello strumento coesiste il traguardo del suo percorso interiore.

La poesia, infatti, non solo permette a Mi-ja di scavare dentro se stessa, ma anche di trasformare la propria individualità in un prodotto concreto. La poesia è la vittoria della sua morale, che con delicatezza e liricità si impone sull’aridità del mondo.

Dialogo tra testi differenti

La poesia entra anche in un rapporto particolare con il medium cinematografico, aumentandone la transmedialità di cui è già portatore. Lee Chang-dong può permettersi di sperimentare soluzioni strutturali ed escamotage audiovisivi molto interessanti e originali nel corso di tutta l’opera. La narrazione in Poetry, fatta esclusione per i minuti che precedono l’iscrizione di Mi-ja al corso, è interamente strutturata sulla base del processo di creazione della poesia di Mi-ja. Inoltre, come se il cinema assorbisse le qualità del testo poetico, il regista mette in scena un vero e proprio film, che è esso stesso poesia cinematografica.

La sequenza in cui si susseguono una serie di inquadrature, mentre in sottofondo si ascolta la poesia letta in parte da Mi-ja e in parte da Hae-jin, ne è probabilmente l’esempio più lampante. È strutturata in modo che la coesistenza di due lettrici si rifletta anche nell’ambivalenza dei punti di vista della ripresa. La fusione poetica tra Mi-ja e la vittima viene così esemplificata al meglio, grazie alla qualità che rende il cinema unico nel suo genere. Vale a dire, essere un medium che fin dagli albori fonde in sé audio e visivo. Persino nel finale lo spettatore partecipa attivamente con la propria immaginazione e con le proprie supposizioni. Ennesima prova che entrambe le forme d’arte nascono dalle impressioni dell’autore, dipingendo quindi una realtà soggettivata e non assoluta.

Il disagio giovanile ispira l’opera più acclamata di Lee Chang-dong: Burning

Tratto da Granai Incendiati di Murakami e in parte ispirato da Barn Burning di Faulkner, Burning arriva nel 2018, quasi dieci anni dopo l’uscita di Poetry. Lee ha raccontato che il motivo di un tale intervallo di tempo risiedette nella sua maniacale ossessione per la perfezione. Nulla lo ispirava. Solo guardandosi intorno capì che il disagio giovanile, diffuso in tutto il mondo e rivolto al futuro e alle incertezze di una realtà instabile, sarebbe stato alla base del suo nuovo lavoro.

Il film fu frutto di una co-produzione tra Giappone e Corea del Sud. Per i ruoli principali vennero scritturati Yoo Ah-in, nei panni del protagonista Lee Jong-su, Jeon Jong-seo, nelle vesti di Shin Hae-mi e, per la sorpresa di molti cinefili, Steven Yeun, divenuto famoso per aver donato il proprio volto a Glenn Rhee nella serie-tv The Walking Dead (2010-2022), nella parte di Ben.  Ancora una volta Lee Chang-dong partecipa al Festival di Cannes, dove compete per la Palma d’Oro. Nonostante il plauso della critica, Lee dovrà, ancora una volta, accontentarsi del Premio FIPRESCI.

Tuttavia, con il passare degli anni dire che l’approvazione della critica, ottenuta a Cannes, era ben riposta, sembrerebbe quasi riduttivo. Molte riviste specializzate cominceranno a inserirlo nelle proprie prestigiose classifiche. Nel 2018 sia i redattori del The New York Times che quelli del Los Angeles Times lo considerano tra i dieci migliori dieci film dell’anno. Nel 2021 il The Guardian lo colloca tra i migliori cento film del XXI° secolo. Inoltre, è stato decretato il più grande film sudcoreano di tutti i tempi da una giuria composta da 150 critici, provenienti da 28 Paesi, su Korean Screen, uno dei siti più importanti sul cinema sudcoreano. Burning rappresenta uno dei vertici della carriera del regista, stupefacente per la sua complessità. Un film visionario nell’anticipare le tematiche del film sudcoreano di maggior successo di sempre, Parasite di Bong Joon-ho.

Burning: trama

Lee Jong-su (Yoo Ah-in) è un ragazzo introverso, che, dopo aver portato a termine il servizio militare e gli studi universitari, si mantiene con un lavoro part-time. La madre ha abbandonato lui e la sorella quando erano piccoli a causa dei comportamenti violenti del padre, che adesso, a seguito di un’aggressione commessa ai danni di un pubblico ufficiale, è sotto processo. Nella prima sequenza del film, ritrova una vecchia amica d’infanzia, Hae-mi (Jeong Jong-seo), divenuta un’animatrice per supermercati. Jong-su ha un sogno nella vita: diventare scrittore.

Hae-mi, invece, è alla costante ricerca del suo posto nel mondo e una sera confida a Jong-su che vuole partire per una specie di viaggio spirituale in Africa. Prima di partire invita Jong-su a casa sua e i due hanno un rapporto sessuale. Da quel momento, mentre lei è assente, Jong-su, che non riesce a smettere di pensarla, accetta di accudirle il gatto, che però, stranamente, non si fa mai vedere. Al suo ritorno Hae-mi è accompagnata da Ben (Steven Yeun), un ragazzo ricco e misterioso. Tra i tre inizia un particolare rapporto dai risvolti imprevisti.

La sensibilità verso un mondo fragile

Burning è un film estremamente complesso e il suo protagonista lo è altrettanto. Alla base del violento epilogo vi è l’elemento intorno cui ruota tutto lo sviluppo caratteriale, pensato da Lee Chang-dong per il suo personaggio principale: la rabbia. L’individuo, anche qui emarginato, esprime il proprio disappunto nella maniera più atroce: l’assassinio. Lee Chang-dong riesce a guardarsi intorno e a cogliere i suggerimenti dall’epoca in cui vive. La sua sensibilità verso il mondo è incredibile. È capace, mediante la figura di Jong-su, di estremizzare le conseguenze della precarietà giovanile e di lanciare un monito. Un monito che suona un po’ simile fin dagli albori della sua carriera: ogni atto criminoso e ogni tragedia sono un fallimento sociale. Burning fotografa il possibile crollo di fragili dinamiche familiari e sociali a cui il singolo individuo tenta di opporsi con un gesto folle, ma, per certi versi, necessariamente inevitabile.

Solitudine, invidia, gelosia, incomunicabilità: la rabbia che divampa fino alla distruzione

L’arrivo di Ben è centrale nell’alimentare questo sentimento negativo in Jong-du. Un intruso inaspettato che destabilizza le fantasie che fino a poco tempo prima avevano illuso il protagonista di poter uscire dalla propria solitudine.

Emerge poi un ulteriore fattore scatenante: la contrapposizione tra la precarietà, in cui sia Jong-su che Hae-mi sono costretti a vivere, e lo status economico di Ben. Chiaro riferimento al divario sociale presente in Corea del Sud e non solo.

Eppure, come se non bastasse, l’invidia di Jong-su nei confronti di Ben è anche su un piano più intimo, meno superficiale. Riguarda l’attitudine del suo rivale alla vita. La gelosia diventa tale da offuscargli la mente. Non si accorge neanche del sentimento di Hae-mi. Sorge il dubbio se sia effettivamente geloso di Ben in quanto rivale o se sia geloso di Ben in quanto persona. Aspetto che rimanda molto alle riflessioni freudiane sui paradossi e sui vettori di forze che scaturiscono dalla gelosia umana.

Ma la collera di Jong-su cresce anche a causa del rapporto con il padre. L’incomunicabilità, che spesso attraversa i rapporti padre e figlio, il più delle volte trova linfa vitale tra le macerie di un sistema patriarcale, che in Corea del Sud, più che in altri Paesi nel mondo, non è stato ancora completamente superato. Tra Jong- su e suo padre sussiste un legame silenzioso, per cui la rabbia viene messa sempre a tacere. Le interazioni tra loro avvengono in tribunale, dove il padre è accusato di un’aggressione, per cui viene punito. Di fronte a questa realtà, la visione che Jong-su ha della condizione del padre, una volta scoperto il presunto lato criminoso di Ben, ovviamente cambia. L’ingiustizia perpetuata o, almeno, non ostacolata, da un sistema contraddittorio, contribuisce ancora di più alla rabbia silenziosa che Jong-su coltiva.

Lee Chang-dong

La magia cinematografica nell’assenza

Lee Chang-dong in Burning tesse un’estetica da togliere il fiato. La silhouette di Hae-mi che danza nella controluce dell’alba, la sagoma scura di un bambino che guarda una serra crollare tra le fiamme, il vivido contrasto tra quartieri di strati sociali differenti. Eppure, in questo film più che mai, torna un topos molto caro al regista: l’assenza. Nel corso del film lo spettatore scopre che l’assenza e la mancanza sono una costante nella vita del protagonista. Sono sempre state presenti anche oltre i confini spazio-temporali dello schermo, essendo parte del passato del protagonista e, quindi, parte della diegesi stessa.

L’assenza viene declinata da Lee Chang-dong in tre forme differenti.

Il primo tipo di assenze è rappresentate dalla madre, dalla sorella e dal padre di Jong-su. Sono assenze comprensibili, giustificate da una presenza corporea antecedente, anche se non sempre visibile allo spettatore, almeno intuibile, che poi svanisce per dei motivi chiari.

Il secondo tipo di assenze sono quelle incomprensibili: il pozzo, il gatto di Hae- mi e le serre incendiate da Ben. Sono sospese tra reale e surreale, tra immaginazione e tangibilità, tra percezione e certezza.

La terza tipologia di assenza è rappresentata da Hae-mi e può essere letta come un ibrido delle precedenti: la sua presenza e la sua corporeità sono catturate dalle inquadrature, ma è la loro scomparsa ad essere immotivata e a non trovare un riscontro per tutta il resto della pellicola. Non è un caso che a Hae-mi è legato l’episodio della pantomima. Un’arte che permette la coesistenza di due elementi che, secondo le leggi universali della logica, si escluderebbero a vicenda: l’invisibile e il visibile. Ancora una volta Lee Chang-dong dipinge a un modo irrisolvibile nella sua interezza. È questa capacità innata e irresistibile a renderlo un maestro del cinema contemporaneo.

Lee Chang-dong

Conclusione

Lee Chang-dong è un regista sopraffino. Un poeta dell’immagine che andrebbe già studiato nei manuali di Cinema. Il suo approccio alla Settima Arte è in grado di stravolgere preconcetti filosofici e teorici, legati al visivo. Le sue narrazioni sono capaci di disarmare ogni logica. E la sua cruda delicatezza riesce a stimolare impressioni e vivide immaginazioni che prima non si pensava di possedere. Questo approfondimento ha voluto tessergli un umile omaggio, sempre che bastino le parole a rendere giustizia a un esperto artigiano dell’assenza.

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