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‘Marina’: il biopic su Rocco Granata semi Dardenne

Un biopic dozzinale che poteva essere molto più realistico e invece si adagia su un ritmo televisivo

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Marina (2013) di Stijn Coninx è un biopic incentrato sull’adolescenza del cantautore italo-belga Rocco Granata (1938). Un’opera che, nella sua pur accurata confezione produttiva, permane però di matrice televisiva. A causa di una fotografia (curata da Lou Berghmans) e una sceneggiatura (cofirmata da Rik D’Hiet) che si adagiano su codici (visivi e di storytelling) di fruibile grammatica popolare. Non a caso i due hanno operato principalmente per produzioni televisive.

Marina, la trama

Salvatore Granata (Luigi Lo Cascio), sul finire degli anni ’40, decide di lasciare la Calabria per emigrare in Belgio, e lavorare nelle miniere per guadagnare abbastanza soldi. Lascia in Italia la moglie Ida (Donatella Finocchiaro), e i due piccoli figli Rocco (Cristian Campagna) e Wanda (Federica Marinò).

Dopo qualche anno, li fa venire su con lui, ma la situazione non è facile. Vivono in un campo di baracche, la paga è poca, e l’integrazione in Belgio difficile. Il sogno di Rocco è quello di suonare la fisarmonica, e il padre gliela compra, ma a condizione che sia soltanto uno svago.

Con il passare degli anni Rocco (Matteo Simoni), ormai adolescente, diviene sempre più bravo, e sempre più innamorato della bella Helena (Evelien Bosmans). È riuscito anche a integrarsi, ma i rapporti con il padre sono sempre più tesi, a causa del troppo tempo dedicato alla fisarmonica. Ma tutto alla fine si risolve.

Romanzo di formazione di deriva televisiva

La difficile adolescenza di Granata all’interno di un conflittuale rapporto con un Padre-Padrone (Luigi Lo Cascio), e una difficoltosa inclusione in terra straniera (il Belgio degli anni ’50-’60), sono ottimi spunti per imbastire un canonico Bildungsroman filmico di facile presa emotiva.

Questa ardua tranche de vie include anche una passionale storia d’amore con la bella Helena; uno sguardo sulla dura vita degli emigrati italiani in miniera, con inclusa la tragedia di Marcinelle; e un risolutivo Happy End che spazza via i patimenti affettivi e professionali fino a quel momento vissuti dal protagonista. Però questo ammasso di eventi drammaturgici è soltanto l’aspetto esteriore di Marina.

Il dettaglio più interessante di questo film, che permette un’analisi più proficua e mette in rilievo quegli elementi di valore non portati a compimento, è all’interno. Ossia leggere nei credits il nome dei fratelli Dardenne tra i produttori. Ciò potrebbe destare sorpresa, però Marina, co-produzione italo-belga, condivide con il cinema dei due autori belgi diverse tematiche peculiari del loro corpus filmico. In maniera schematica: l’adolescenza, l’emigrazione, l’integrazione e i conflitti familiari e/o generazionali, affrontati con un’attitudine narrativa e filmica che lambisce il documentario.

Argomenti ben presenti in Marina, ma raccontati tramite un’esposizione artefatta. Con una spiccata tendenza a creare volutamente delle scene madri (ad esempio gli scontri tra padre e figlio o l’incidente del padre). Oppure una deriva eccessiva verso l’aspetto sentimentale. E finanche un andamento drammaturgico ordinato per eventuali inserimenti pubblicitari. Sono pochi i momenti in cui Marina riesce a scrollarsi di dosso questi difetti ed essere un fermo “documento” su quell’epoca, o avvicinarsi all’espressiva naturalezza dei Dardenne.

Ad esempio, la scena dell’arresto di Rocco e il conseguente fermo alla stazione di polizia. In questo caso la messa in scena diviene più risoluta e cupa, e la violenza del poliziotto mostra il razzismo e il pregiudizio che hanno i belgi nei confronti degli emigrati, in particolare se sono italiani. O anche, sebbene con un tono non totalmente realista, le incursioni nelle profondità minerarie e i patimenti fisici e umorali degli uomini, bestie da soma per una misera paga. Invece poco approfondito il “darwinismo” tra gli stessi italiani, oppure la resa drammatica sullo sfondo delle baracche in cui vivono gli operai.

Una cruda ambientazione, simile a quelle dei campi di concentramento, che offriva maggiori spunti drammatici. Di converso, in Marina è pregevole l’uso del dialetto calabrese e dell’olandese, che rendono maggiormente credibile questa incomunicabilità tra due popoli diversi. Un gergo stretto ben parlato da Luigi Lo Cascio, che però non fornisce un’altrettanta valida prova attoriale. Molto meglio Donatella Finocchiaro, nel ruolo della remissiva ma caparbia moglie.

Pertanto, il film di Coninx, a suo agio nel genere biografico, tra cui spicca Padre Daens (Daens, 1992) che fu candidato come Miglior film in lingua straniera, resta un’occasione non portata a compimento. Perché prendendo spunto dall’adolescenza di Rocco Granata poteva essere un sincero spaccato di vita di quell’epoca. Poteva mostrare, con più coraggio registico, la difficile vita degli emigrati in un Belgio chiuso in se stesso.

 

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