Tra le personalità che negli ultimi decenni hanno contribuito maggiormente a ridefinire i lineamenti del cinema sudcoreano d’autore vi è sicuramente Lee Chang-dong. Un regista che ha saputo coniugare il verbo cinematografico secondo una grammatica estremamente personale e inusuale, stratificando opera dopo opera una poetica complessa. Debitore della rigorosità metodologica, che tanto ha caratterizzato il lavoro di registi a lui precedenti, tra cui Bresson e Bergman, Lee Chang-dong è riuscito a indirizzare il proprio percorso artistico verso un’evoluzione coerente, guidata da un semplice principio: la curiosità verso l’individuo. Un principio destinato a farsi propensione. Una propensione destinata a farsi tratto distintivo dell’autore. L’essere umano e, ancor più, la sua etica nel rapportarsi a ciò che lo circonda, diventano perciò il perno centrale attorno cui ruota ogni suo lungometraggio.
A volte, questa serie di caratteristiche rendono Lee Chang-dong un regista non facile da interpretare, sempre che debba sussistere questa costante necessità. Il suo cinema, infatti, sembra volerci dire l’opposto. Stimola chi osserva ad accettare che anche l’arte, come la nostra esistenza, presenta codici indecifrabili. Lee Chang-dong si erge proprio contro l’idea che la narrazione riveli il tutto e che la molteplicità dei segni venga ridotta al bisogno di un’assoluta certezza, il significato unico. Il film, alla fine, altro non è che una visione soggettiva su un mondo fittizio, artificiale, attraverso cui il regista stimola molteplici percezioni e impressioni. Questo approfondimento si pone come obiettivo quello di avvicinare i lettori a un grande autore, in grado di stupire, destabilizzare e commuovere chiunque gli dia una possibilità. Insomma, un regista che con il suo cinema ha avuto il coraggio di sfidare la monotonia, la consuetudine e la normalità.
“Mi sembra che i film di oggi stiano diventando sempre più semplici e che il pubblico desideri storie più comode. Naturalmente, i film danno forma ai desideri e alle richieste del pubblico, quindi ho voluto andare contro questa tendenza e vedere se un film può lanciare al pubblico domande senza fine. Domande infinite su un mondo più grande e misterioso.”
Uno sguardo al principio
Questa prima parte dell’approfondimento dedicato a Lee Chang-dong si sofferma su un arco temporale ben preciso: dagli anni di formazione fino alla realizzazione delle sue prime pellicole, Green Fish e Peppermint Candy. Due film da cui emerge una visione pregna di un predeterminismo insormontabile. In esse l’individuo si frappone inutilmente a un mondo spietato che non lascia scampo. Sono opere caratterizzate da un evidente impegno politico, aspetto che nei successivi lavori diventerà più un sottotesto, a cui Lee Chang-dong sembra dare meno importanza. Nonostante questo, Green Fish e Peppermint Candy si fanno portatori di tutta la sentita curiosità del regista per l’essere umano e il suo rapporto con il mondo.
Lee Chang-dong, il regista che nacque romanziere
Lee Chang-dong nasce nel 1954 a Daegu da una famiglia di ideali progressisti, pur vantando origini nobiliari. Introverso e riservato, fin da giovanissimo si avvicina al mondo dell’arte: si dedica spesso alla scrittura e, per merito del fratello maggiore, si avvicina al teatro. Una volta laureatosi in Scienze dell’Educazione alla Kyungpook University, diventa insegnante in una scuola superiore di provincia nel 1980, per poi essere trasferito presso la capitale Seul. Nel corso di questi anni non abbandona la propria passione per il teatro e, soprattutto, per la scrittura.
Il suo primo romanzo, intitolato Jeon-ri, riceve un premio dal quotidiano Dong-a e anche le sue raccolte di racconti, So- ji e Lot of Shit in Nok-Cheon, vengono accolte positivamente nei circoli letterari. La formazione da scrittore sarà di fondamentale importanza per la carriera di Lee. Innanzitutto, gli fornirà le competenze e le referenze che gli consentiranno di ottenere il suo primo ruolo all’interno di una produzione cinematografica, quello di sceneggiatore. In secondo luogo spiega la particolare attenzione che Lee riserverà sempre alla fase di scrittura dei suoi film. L’incontestabile valore dato alle parole, ai nomi, alla dialettica e alla storia sarà un’inopinabile qualità presente in tutti i lungometraggi di Lee Chang-dong.
Alla corte del maestro Park Kwang-su
Park Kwang-su, assieme ad altri registi del calibro di Jang Sun-woo, è uno di quegli autori che a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 hanno rinnovato il cinema sudcoreano, per lo più vittima della manipolazione politica e della censura. Nel 1992 si appresta alla lavorazione di un nuovo film, To the Starry Island (1993), e, per quanto concerne la sceneggiatura, ha le idee ben chiare. Vuole che sia un romanziere di discreto successo a occuparsene. Questo romanziere è Lee Chang-dong. La sintonia tra i due artisti, vicini anche nelle convinzioni e nell’impegno politico, si concretizza in un ottimo risultato e convince Park Kwang-su a scritturare Lee anche per l’opera successiva: A Single Spark (1995).
![](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2025/01/A-single-spark.jpg)
Il film è incentrato sulla vita e sul sacrificio di Chun Tae-il (operaio, attivista per i diritti dei lavoratori), e rappresenta una delle opere cinematografiche più intense e meglio riuscite sulle lotte anti-governative portate avanti negli anni ’70. Sarà questa breve gavetta e una fortunata serie di incontri a far sì che nel 1997 Lee approdi dietro alla macchina e realizzi il suo primo film: Green Fish. Da quel momento avrà inizio un percorso che lo vedrà entrare a far parte della schiera dei grandi nomi che hanno rivoluzionato il panorama cinematografico sudcoreano negli ultimi tre decenni: Park Chan-wook, Bong Joon- ho (la cui carriera è stata approfondita qui), Kim Ki-duk, Kim Ji-woon e Hong Sang-soo, solo per citarne alcuni.
Un cinema difficile da categorizzare
La filmografia di Lee Chang-dong sfugge quasi totalmente all’uso consuetudinario di stilemi preesistenti, sia quelli tipici del cinema di genere, sia quelli ancora più antichi derivanti dal melodramma teatrale. Schematismi che faciliterebbero lo spettatore durante la visione, ma che assenti complicano il bisogno umano di definire. Comincia a lavorare al suo esordio, Green Fish, a un’età anagraficamente avanzata, per gli standard del settore; cosa che, probabilmente, spiega la maturità emergente fin dalla sua prima opera.
Lee fa capolino nel mondo del cinema attrezzato di una consapevolezza tale che si intravedono immediatamente i germogli di un’autorialità destinata a sbocciare unica nel suo genere. Il suo nome, se collocato nel panorama cinematografico sudcoreano, andrebbe quindi accostato a quello di altri maestri che con esso condividono un’impronta tale da essere difficilmente ascrivibili a determinate categorie: Kim Ki-duk e Hong Sang-soo, piuttosto che altri giganti come Park Chan-wook, Kim Jee-woon e Bong Joon-ho, più legati a un sofisticato cinema di genere.
Le costanti che definiscono il realismo magico di Lee Chang-dong
![](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2025/01/Lee-Chang-dong-2-1.jpg)
La seguente combinazione di due termini ossimorici, non fornisce una descrizione esaustiva, ma aiuta nel tracciare una labile interpretazione dello stile di Lee Chang-dong: realismo magico.
Se è vero infatti che un sentimento umanista spinge l’interesse per l’individuo a essere il motore pulsante dell’intera opera di Lee Chang-dong, è altrettanto vero che possono essere identificati altri cinque elementi che rendono la filmografia del regista, per quanto parca e contenuta, estremamente identificativa e che permettono di comprendere meglio la definizione usata poc’anzi.
Tre rimandano al concetto di realismo. Primo fra tutti: i protagonisti della filmografia di Lee, sono, per un motivo o per l’altro, persone sole o emarginati sociali. Sono soggetti estremamente reali (almeno inizialmente), che si ritrovano a dover affrontare un trauma specifico. Il secondo riguarda il verismo di ambientazioni tutt’altro che anonime. Luoghi concreti e attivi che inglobano in un costante dialogo i loro abitanti. Il terzo è una particolare attenzione alle tematiche sociali, che, nonostante assuma un’importanza differente a seconda del film preso in esame, non smette mai di sopravvivere, anche solo come sotto-testo all’interno della filmografia del regista.
Il carattere magico, invece, scaturisce dal quarto elemento: la consapevolezza del medium cinematografico da parte di Lee Chang-dong. Lee crea degli angoli che sopravvivono nel limbo tra vivida esistenza e astratta impressione. Riesce a farlo giocando con fantasie visive, con i concetti di presenza e assenza, altre volte con l’intreccio narrativo. Induce così lo spettatore a una partecipazione attiva.
Il quinto elemento è la condizione necessaria all’esistenza dei precedenti: il maniacale perfezionismo che accompagna tutte le fasi di realizzazione dei suoi film. Dalla scrittura minuziosa e stratificata delle sceneggiature, derivante dalla formazione da romanziere, fino all’esigente direzione degli attori sul set e all’ossessiva cura nelle fasi di montaggio e postproduzione.
Un esordio di discreto successo
Lee Chang-dong esordisce con il suo primo lungometraggio, un gangster atipico intitolato Green Fish, nel 1997. Il film ottiene un discreto successo.
Prima di tutto, perché realizzato in un periodo che vide la rifioritura dei gangster-movie in Corea del Sud. Il genere gangster era infatti caduto in disuso a partire dalla metà degli anni ’70, quando i film wuxia (cappa e spada che generalmente hanno come protagonista un guerriero errante) e kung fu hongkonghesi presero il suo posto. Sul finire degli anni ’90 trovò un terreno reso fertile dall’invasione di opere provenienti da Hong Kong di registi come John Woo, Wong Jim e Ringo Lam, verificatasi a cavallo con il decennio precedente.
In secondo luogo, anche grazie a un cast e a un reparto tecnico notevoli per un’opera prima. L’attore affermato Moon Sung-keun, l’attrice Shime Hye-jin e il grande direttore della fotografia Yu Yeong-gil, tutti conosciuti da Lee sul set di To The Starry Island, accettarono di prendere parte alla pellicola. A questi si aggiunsero due futuri divi del cinema sudcoreano: Han Suk-kyu (che divenne uno dei volti simboli del cinema del suo Paese della seconda metà degli anni ’90, grazie a pellicole di enorme successo come Christmas in August –1998- di Jung Won e Shiri –1999- di Yoo Joong-won), e Song Kang-ho, probabilmente, ad oggi, il più famoso attore sudcoreano di tutti i tempi.
Green Fish: trama
La storia raccontata è quella di Mak-dong (Han Suk-kyu), un giovane che, terminato il servizio militare, rientra a casa dalla propria famiglia. Al suo ritorno tutto è cambiato. Per sopravvivere nel mondo che lo accoglie, si lascia trascinare nel mondo della criminalità organizzata. Si affilia alla banda di Bae Tae-gon (Moon Sung-keun), del quale diventerà uno dei tirapiedi più fidati. Tutto sembra filare liscio, finché non riesce a nascondere i sentimenti per Mi-ae (Shim Hye-jin), la compagna del boss.
Un “gangster” atipico
Green Fish è il film meno autoriale di Lee Chang-dong, ma questo non significa che non lo sia. Per certi versi sicuramente fa proprie alcune lectio del gangster movie, ma quello che colpisce è l’abilità con cui Lee dispone degli strumenti per veicolare meglio il proprio punto di vista. Secondo questa prospettiva il genere altro non è che il mezzo e non la meta. Lo scopo di Lee è mostrarci l’inevitabile sconfitta dell’individuo di fronte a uno Stato che non lo considera, prediligendo un punto di vista microstorico, ma sempre attento alla macro-storia. Da un lato, quindi, la massima attenzione rivolta alla caratterizzazione dell’essere umano, mentre dall’altro lo spettro visivo ingloba la realtà sociale in cui esso è inserito. Il tutto condito dalla consapevolezza che Lee ha del medium.
![](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2025/01/Green-Fish.jpg)
Alla base del fallimento del protagonista vi è la sua etica anacronistica, fatta di sogni irrealizzabili e di valori giusti, ma obsoleti. L’universo che si trova davanti è spasmodico, meschino, buio. La macchina da presa segue Mak-dong, quasi a rimembrare il tanto famoso pedinamento zavattiniano, mentre soggettive e semi-soggettive ci regalano il suo punto di vista su un mondo incapace di accoglierlo. Nel predeterminismo di Lee non c’è neanche spazio per l’amore e Mak-dong in questo caotico tramenio non può che ergersi a metafora sociale.
Una metafora sociale suggerita anche dall’ambientazione
Ma ciò che rappresenta in senso figurato la metafora sociale di Mak-dong è l’ambientazione. Lo skyline di Ilsan, parte di un grosso processo di suburbanizzazione che ha coinvolto Seul, invade lo sfondo in una serie di campi lunghi, che ritraggono in primo piano la casa del protagonista. È la testimonianza di un processo di cementificazione che superficialmente fagocita gli spazi, modificandoli, ma che nasconde un dramma più profondo. Le persone non al passo con la modernizzazione sono destinate alla rovina. I legami familiari sono indotti allo sgretolamento e, come tutti i suoi parenti, anche Mak-dong deve reinventarsi. Il metodo più rapido è affiliarsi a una banda criminale, ma è tutt’altro che indolore.
![Lee Chang-dong](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2025/01/Green-Fish.jpeg)
Ed ecco spiegato chi realmente rappresenta Mak-dong: centinaia di migliaia, se non milioni, di sudcoreani che lo Stato ha dimenticato. E ancora una volta Lee, attraverso le immagini, rende ancora più evidente il contrasto sociale di cui le ambientazioni si fanno portavoce. La periferia di Ilsan è sempre rappresentata di giorno, mentre i quartieri più centrali di Seul, dove si svolgono le scene criminose del film, vengono sempre rappresentati di notte. Se è vero che questa scelta è in parte debitrice del cinema di genere noir, gangster e crime, è allo stesso tempo vero che viene utilizzata in questo caso specifico per enfatizzare il senso di smarrimento e di insicurezza che Seul innesca in una determinata categoria di persone.
Una nuova era per il cinema sudcoreano
Con la sua seconda opera, Peppermint Candy, Lee Chang-dong inaugurò il nuovo millennio. Il film venne distribuito a partire dal 1° gennaio del 2000 e fu un grande successo in Corea del Sud. Oggi sicuramente rappresenta una delle opere cardini dell’intera filmografia sudcoreana, ma per comprenderne l’immediato trionfo al botteghino nazionale è necessaria un’appropriata contestualizzazione storica. Nonostante i pochi anni trascorsi dall’uscita di Green Fish, furono molteplici i cambiamenti che interessarono, direttamente o indirettamente, il settore cinematografico sudcoreano.
Procedendo in ordine cronologico, il primo importante avvenimento da tenere in considerazione fu la svalutazione del won (rendendo più appetibili i film per l’esportazione) e l’uscita dal mercato cinematografico dei chaebol (i grandi conglomerati industriali a gestione familiare) a seguito della tremenda crisi finanziaria e bancaria che colpì la Corea del Sud nell’autunno del 1997. La East Film, che produsse Peppermint Candy, fu una di quelle che colse l’occasione appieno, attirata dalle nuove prospettive di mercato.
Il 1997 fu infatti teatro di una svolta politica epocale. Alle elezioni presidenziali tenutesi a dicembre venne eletto Kim Dae-jung. Il suo mandato fu notoriamente rivoluzionario sul piano umanitario e lungimirante sulla politica estera (la riduzione al minimo del conflitto con la Corea del Nord). Motivo per cui fu insignito del Premio Nobel. Un clima così all’avanguardia, progressista e attento ai diritti civili, permise a una serie di registi, impegnati socialmente, di trovare il coraggio di esprimersi.
Inoltre, nel febbraio del 1999 venne istituito il KOFIC (Korean Film Commision) con cui furono intensificati gli sforzi per promuovere il cinema sudcoreano nel mondo. Questo ente si impegnò per un efficace inserimento di Peppermint Candy nei circuiti festivalieri. Divenne il primo film sudcoreano nella storia a essere selezionato come film d’apertura del Busan International Film Festival e a seguito del successo di critica viaggiò in più di venti festival internazionali sparsi per il mondo.
Peppermint Candy: trama
La trama di Peppermint Candy si sviluppa attraverso sette capitoli, ripercorrendo a ritroso gli ultimi vent’anni della vita di Kim Yong-ho (Sol Kyung-gu). Di fronte agli occhi di uno dei suoi compagni del club, Yong-ho apre le braccia verso un treno, pronto a farsi travolgere e, in un ultimo urlo disperato, grida “voglio tornare indietro”. Ecco che tassello dopo tassello riusciamo a ricostruire la vita traumatica del protagonista. Dal fallimento lavorativo e matrimoniale, ai traumi vissuti come poliziotto e soldato, fino alla sua innocente giovinezza.
Un uso estremamente peculiare dell’intreccio che stravolge la percezione
![](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2025/01/Peppermint-Candy-2.jpeg)
Peppermint Candy segna il passaggio da un’autorialità acerba, ancora embrionale, a una più matura, completa e soprattutto consapevole. L’autorialità che Peppermint Candy presenta è legata principalmente al concetto di intreccio e quindi al modo con cui Lee Chang- dong sceglie di sezionare e riordinare il racconto cinematografico. Il montaggio non solo influenza la percezione del tempo della narrazione, ma la percezione del personaggio stesso.
Lee Chang-dong inverte la tipica linearità progressiva con uno sviluppo regressivo. Diegeticamente parlando, se il rapporto causa-effetto viene mantenuto a un livello strutturale micro-specifico (il singolo capitolo), il suo stravolgimento in un rapporto effetto-causa diventa la chiave di lettura dell’opera a livello strutturale macro (il film visto nella sua interezza). Il rapporto tra veduto e vedente, tra schermo e spettatore viene completamente stravolto. Rendere prima noti i risultati delle scelte, piuttosto che le ragioni dietro di esse, induce la mente di chi osserva a formulare un’infinità di scenari possibili, che inversamente sarebbero molto più limitati.
Ed è proprio con questo ribaltamento di prospettiva che Lee riesce ad alimentare un’attesa che ha come oggetto le cause e, quindi, verso di esse indirizzare l’attenzione. Così, mentre il movimento a ritroso di un treno, funge da congiunzione tra i capitoli, la cine-sezione dell’esistenza di Yong-ho trova un senso ultimo nella possibilità di redenzione, di una rinascita che non guarda solo al futuro, ma che può essere cercata, come traccia, nel passato di un individuo e di un Paese.
L’intera storia di un Paese si infrange su un individuo
![Lee Chang-dong](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2025/01/Schermata-2024-02-18-alle-16.10.20.png)
Le date inserite da Lee nei titoli dei capitoli non sono casuali:
- 1999 Primavera. Picnic
- 1999 Primavera, 3 giorni prima. La macchina fotografica
- 1994 Estate. La vita è bella
- 1987 Primavera. La confessione
- 1984 Autunno. La preghiera
- 1980 maggio. Un incontro mancato, la visita militare
- 1979 Autunno. Picnic
Identificano momenti precisi nella storia contemporanea della Corea del Sud. E il loro stretto legame con la vicenda di Yong-ho e la caratterizzazione del suo personaggio è innegabile. Il suicidio iniziale del protagonista non è altro che il tragico punto d’arrivo di un percorso personale, strettamente intrecciato e contaminato dai cambiamenti di una società. Un intreccio, di nuovo, tra microstoria e macrostoria, che la suddivisione in capitoli aiuta a discernere. L’analisi che seguirà nel paragrafo successivo partirà dall’ultimo capitolo del film per arrivare al primo. Optare per la linearità cronologicamente progressiva facilita la visualizzazione del parallelismo tra l’evoluzione di Yong-ho e la storia della Corea del Sud.
Dalla Primavera di Seul alla crisi del 1997
L’ultimo capitolo ha luogo nell’autunno del 1979. Il dittatore Park Chung-hee viene assassinato. Il carattere mite e sognante di Yong-ho rispecchia la serenità di quel periodo, noto come la “Primavera di Seul”, in cui il popolo sperò nella democratizzazione. Il penultimo capitolo è ambientato durante il famigerato massacro di Gwangju. La sua centralità, sia per la storia del protagonista che per quella della Corea del Sud, viene dimostrata dal fatto che è l’unico dei sette capitoli ad avere il mese specificato nel titolo. Jong-ho ci mostra il massacro dal lato del carnefice. È parte delle truppe inviate a Gwangju dal nuovo dittatore Chun Doo-hwan per reprimere le rivolte studentesche a lui avverse. Dopo Gwangju, vittima delle imposizioni di un sistema repressivo, Yong- ho diventa un uomo violento. Incarna la vittoria di un regime su un individuo democratico.
![Lee Chang-dong](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2025/01/Peppermint-Candy-.jpg)
Il quinto e il quarto capitolo sono ambientati in pieni anni ’80. Disordini politici e turbolenze sociali persistevano nonostante la prosperità economica. In entrambi vediamo il declino morale di Yong-ho che, divenuto poliziotto, accetta la corruzione dilagante e finisce per diventare uno spietato torturatore. L’inserimento dell’episodio di waterboarding è un chiaro riferimento all’uccisione dello studente Park Chong-chul, morto nel 1987, proprio a causa di questa tecnica di tortura durante un interrogatorio.
Il terzo episodio è ambientato nell’estate del 1994. Ritroviamo Yong-ho uomo in carriera. Co-gestisce un lucroso negozio di mobili ed è padre in una famiglia della classe media. Il suo benessere socio-economico rispecchia quello di una nazione, che negli anni ’80 conobbe una crescita economica notevole. Il secondo capitolo e il primo, invece, sono ambientati nella primavera del 1999, a solo due giorni di distanza. Yong-ho, come molti altri Sudcoreani, cade vittima della crisi, già citata, che nel 1997 colpì la Corea del Sud.