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FESTIVAL DI CINEMA

Asian Film Festival Berlin, 8-11 Agosto 2013 – Cronaca di un festival dagli echi lontani

Giunto alla sua quarta edizione con la direzione artistica di Kimiko Suda, l’Asian Film Festival Berlin è una finestra aperta sul Pacific Rim – i Paesi affacciati sull’Oceano Pacifico

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Ricorda, nel titolo, il festival organizzato da Antonio Termenini fino al 2010 a Roma e nelle ultime edizioni a Reggio Emilia, questo evento berlinese ospitato dall’Haus del Kulturen der Welt, il centro culturale progettato dall’architetto Hugh Stubbins nella seconda metà degli anni ’50 e co-finanziato dal governo americano. Giunto alla sua quarta edizione con la direzione artistica di Kimiko Suda, l’Asian Film Festival Berlin è una finestra aperta sul Pacific Rim –  i Paesi affacciati sull’Oceano Pacifico – un focus sulla produzione artistica di registi provenienti da Vietnam, Cambogia, Tailandia e dei protagonisti della cosiddetta diaspora asiatica impegnati da lontano nel ritrarre la nuova condizione economica, politica e culturale dei propri Paesi.

Il film d’apertura è stato Seeking Asian Female della cinese-americana Debbie Lum, un documentario scettico, ironico e, infine, intimo ispirato all’improbabile storia d’amore tra Steven e Jianhua (a.k.a. Sandy), lui un americano ossessionato dalle donne asiatiche, lei una ragazza cinese che accetta online la proposta di matrimonio pur avendo la metà degli anni di lui. 8 i corti presentati, di cui 6 frutto di una selezione degli ultimi tre anni dal festival vietnamita Yxine (At Water’s EdgeGo Playing with Ice The Lake Monday, Wednesday, Friday Nautical Mile Uncle & Son), 1 tailandese (Overseas) e 1 cambogiano (Two Girls Against the Rain). Ancora due titoli sono da annoverarsi in quella che il festival ha definito diaspora asiatica in America, Linsanity di Evan Leong sulla storia di Jeremy Lin, stella dei New York Knicks acclamata nel mondo del basket americano nel 2012 dopo una serie di drammatiche vicende e avversità di ogni sorta, e Someone I used to know di Nadine Truong sulla reunion in una notte di mezza estate di tre amici dai tempi del liceo che insieme cercano di risolvere la loro infelicità mentre il loro incontro scivola in una spirale senza controllo.

L’appuntamento con l’ultimo lavoro del tailandese Apichatpong Weerasethakul, Palma d’Oro 2010 con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes è sicuramente uno tra gli eventi più attesi. Mekong Hotel – questo il titolo – ha inglobato il girato di un film mai realizzato, il fantasy-horror Ecstasy Garden, ed è un ritratto malinconico e agghiacciante della vita del Mekong Hotel, un albergo situato sul fiume Mekong che scorre nel nord-est della Tailandia segnando il confine con il Laos. Sulla terrazza e nelle camere da letto dell’albergo si aggirano i protagonisti della storia, una madre-vampiro identificata nella cultura tailandese con la figura del Pob – un fantasma che si ciba di carne umana – la misteriosa figlia, un giovane chitarrista che si innamora di lei, un suo amico. Il fiume, con il suo scorrere lento e inesorabile, è testimone degli incontri nonché carattere principale della (non) storia sospesa tra fatti e immaginazione. Il film, girato dopo la ponderosa inondazione del fiume che ha visto un governo lento e incapace di intervenire prontamente in soccorso di un Paese in ginocchio, esaspera la cifra stilistica di un autore-narratore per immagini d’eccellenza al quale le canoniche regole del racconto stanno strette. Così, ancora una volta, sogno e reale sono i pilastri di un dialogo serrato costruito su parole sovrapposte da cui è più importante lasciarsi suggestionare e suggerire emozioni invece di cercare tra di esse un’associazione logica di senso. Un sentimento di inquietudine accompagna ogni scena e relazione a due, mentre le note country e blues del chitarrista si stagliano come contrappunto rassicurante durante i 61 minuti di durata del film. Al di là del fiume si intravede il Laos, Paese segnato dalla guerra che l’ha dilaniato, ora percepito come lontano e murato in una realtà di sospetto e timore.

Non ha mancato di sollevare perplessità a Cannes e non ha incontrato un’accoglienza più calorosa nello scettico pubblico dell’Asian Film Festival Berlin.  Apichatpong Weerasethakul rifiuta ogni patto compromissorio, e con l’industria cinematografica e con lo spettatore. Il suo è un cinema puro e rigoroso, poetico e politico, rivoluzionario nell’impatto della relazione inversamente proporzionale tra la disarmante semplicità estetica e l’ostica complessità semantica, fatta di rimandi culturali e visioni cinefile e personali. È la condizione dell’uomo in una società senza garanzie annichilita dalla costante incertezza sul futuro alla luce di un presente non proprio roseo, Mekong Hotel è una poesia visiva ispirata a una fiaba oscura realmente accaduta.

Francesca Vantaggiato 

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