Parlare con lui è come trovarsi su un fiume, non sai mai da che parte ti trascinerà la corrente. Dalla psicoanalisi ai film di Iñárritu, passando per i registri akashici. Sto parlando di Gianluigi Perrone, visionario del cinema di genere, ma anche giornalista, regista e produttore, un artista poliedrico che si è distinto per la sua capacità di mescolare e fondere linguaggi cinematografici diversi, esplorando con coraggio le frontiere del cinema più innovativo. Il suo ultimo film si chiama Spillover, una pellicola che affronta le dinamiche globali della pandemia analizzandole attraverso prospettive multidimensionali, che uniscono fantascienza e realismo. Un lavoro catartico che lancia un forte messaggio di speranza.
Spillover è un film che esplora temi quali l’isolamento, la resilienza e l’interconnessione umana, fondendoli fra loro quasi a creare un mosaico, in cui ogni pezzo, alla fine, trova il suo posto.
«Non a caso uno dei possibili titoli originali era Mosaic. Ho sviluppato la struttura narrativa del film corale sul concetto di archetipi: ognuno dei personaggi del mosaico di Spillover è, di fatto, un archetipo junghiano, dove centrale è l’infante, il bambino. Mi piace immaginare il mio film, come una sorta di cattedrale, un film di fantasia basato su concetti spirituali animistici, in cui ci si immagina un mondo con un organismo e le nazioni come organi. E nonostante abbia questa dimensione fantascientifica, tutte le storie sono vere, anche se rielaborate nella mia testa. Volevo raccontare come vive un genitore, una famiglia in generale, o una genitorialità mancata, come quella appunto di Vivian, (Apryl Reagan), che ha un desiderio di maternità così forte, da accettare anche una relazione tossica. Inoltre volevo utilizzare un linguaggio simile a quello della comunicazione asiatica, perché la lingua cinese strutturalmente è più poetica, è più gan jue, emozione.»
Stiamo parlando di un film che è anche spirituale: che tipo di approccio ha verso la spiritualità?
«Ho sempre avuto un interesse profondo verso la spiritualità. L’aver lavorato con Alejandro Jodorowsky nel film Ritual, mi ha permesso di avvicinarmi alla psicomagia. E questa mia passione è cresciuta notevolmente dopo il mio trasferimento in Asia, dove ho avuto modo di girare per i monasteri taoisti e ho realizzato un progetto in realtà virtuale, “Transcend”, legato proprio alla meditazione del buddismo tibetano che, devo dire, ha avuto anche molta esposizione. Questo approccio qui, che è lo stesso approccio di Jodorowsky, ci dà una motivazione in più per fare cinema. E Spillover è diventato un mezzo perfetto, tant’è che il film si apre proprio con una frase di Jodorowsky.»
Lei è nato in Italia e, dal 2012, vive in Cina. Ma com’è arrivato a costruirsi una carriera internazionale?
«Mi sono avvicinato a Hollywood grazie alla Cina. Ho lavorato in diverse distribuzioni, e anche nella compagnia di un grosso produttore coreano, Kim Dong-Joon, produttore di Old Boy tanto per citarne uno, ma anche di un paio di film di Kim Ki-duk, che si muoveva tra Hollywood e la Cina. Ci siamo conosciuti a una proiezione di Old boy a Pechino e da lì abbiamo iniziato a lavorare insieme. Ho amato quel film alla follia. Lui è stata una di quelle persone che mi hanno introdotto letteralmente a Hollywood, mi ha portato ad alcuni party che venivano organizzati dall’Academy Awards, mi ha fatto incontrare attori e attrici famosissime e, di conseguenza, mi ha portato un po’ a lavorare a quel livello internazionale.»
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Spillover è un progetto che ha visto le riprese svolgersi tra Cina, Stati Uniti e Italia. Perché questa scelta?
«Ho sviluppato questo triangolo, Europa, Cina e Stati Uniti, perché volevo fare un film corale su un argomento che stava diventando topico. Avendo lavorato in un contesto cross culture, ho imparato a diventare un ponte culturale. Per capire i cinesi ho studiato il taoismo, adattandomi ovviamente anche al confucianesimo. Il mio obiettivo, che poi si è tramutato in pellicola, è stato quello di raccontare il diverso approccio alla pandemia nei tre diversi continenti che hai citato. E ho notato effettivamente che gli Stati Uniti, con la loro identità, con la loro società, reagivano con la rabbia, con il paradosso, con una follia, che poi ha portato a un conflitto. L’Italia invece l’ho raccontata analizzandola attraverso i social media, e ho notato dal di fuori una grossa differenza, un grosso cambiamento, un peggioramento della cultura italiana. E questo l’ho voluto tradurre nella parte del film in cui ci sono i personaggi italiani, descrivendoli in modo più sarcastico, comico e a tratti grottesco, se vuoi. La parte cinese è molto emotiva, molto oscura, è un film molto triste da un certo punto di vista, ma molto sincero. Parliamo di un popolo che ha una sua fortissima identità ma, allo stesso tempo, ha vissuto dei grandi traumi che sono ancora vivi. É un popolo che si ritrae, si chiude in se stesso.»
È stato facile produrre questo film?
«Non esattamente. Avevo dei coproduttori americani e il film doveva essere girato in parte a Portland. Era tutto pronto. Poi improvvisamente, appena è diventato Presidente Biden, scopro che gli americani non si fidano più, vogliono delle assicurazioni e le rassicurazioni in Cina sono impossibili, quindi abbiamo perso parte del budget e ho dovuto riscrivere quella parte di sceneggiatura, ed è stato un peccato perché c’era una scena di guerriglia urbana pazzesca.»
E per quanto riguarda la distribuzione?
«All’inizio non era un grosso problema, ma successivamente, il tema della pandemia è diventato motivo di accuse nei confronti della Cina a livello politico, e quindi è diventato un argomento intoccabile. Con Spillover c’è stato il terrore, perché tutti i distributori con cui ho lavorato in questi anni mi hanno detto che era un film troppo pericoloso, nonostante parlasse bene della Cina. Solo dopo l’uscita della serie The Three Body Problem su Netflix, essendo il mio film molto simile in quanto è fantascienza cinese concettuale che prende molto dalla fantascienza sovietica, infatti una delle influenze di Spillover è sicuramente il cinema di Tarkovski, nel momento in cui l’ho presentato come un film simile nello stile a The Three Body Problem, ho trovato distribuzione nel Nord America e Canada e il film infatti uscirà come distribuzione cinematografica theatrical, homevideo e sulle piattaforme. Credo che con il cambio di Presidenza in USA stia cambiando qualcosa in generale nella censura.»
Ritornando al film, quanto sono importanti i colori in Spillover?
«In questo film ogni colore rappresenta un elemento e una situazione differente: la malattia, la speranza, la presenza della minaccia. L’impatto visivo è fortissimo, i colori molto vividi sono praticamente dei segmenti. È stato tutto pensato a monte. Ho imparato con il tempo a fare la fotografia, cioè ho imparato a fare l’operatore di camera e ad avere un certo tipo di sapore fotografico. Mi piaceva molto una certa arte visiva, quindi Kenneth Anger, o Andres Serrano, ma anche Kandinskij, perché utilizzavano i colori e le forme geometriche in maniera subliminale. E in Spillover mostro delle immagini, dei colori e delle forme che hanno lo scopo di trasmettere un’emozione a chi le guarda. Quindi la sfida è stata quella di lavorare in maniera subliminale con la fotografia. Non volevo esprimere i concetti attraverso i dialoghi, che invece dovevano dare un contesto, ma volevo fare arrivare tutto attraverso l’effetto visivo.»
A proposito di fotografia, quali sono i suoi punti di riferimento?
«Credo che sia evidente Wong Kar Wai o meglio Christopher Doyle, che è il direttore della fotografia di Wong Kar Wai, soprattutto in The Moon for Love, e in 2046. E poi dop di enorme talento come Robbie Ryan e Sean Bobbitt, quest’ultimo direttore della fotografia del regista Steve McQueen. A livello visivo i contemporanei sono quelli, e ovviamente poi il mio caro amico Nicolas Winding Refn.»
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Mi parla della simbologia della maschera?
«Il personaggio è interpretato fisicamente da una donna, ma vocalmente da un uomo, perché volevo creare questo strano effetto. Già a monte, avevo chiara l’immagine di qualcuno che arrivava e spiegava cosa stesse succedendo. Questo personaggio ti rivela in parte quello che stai per vedere. E qui ritorna anche l’aspetto spirituale, ovvero che attraverso il processo spirituale si comprende la natura del tempo, delle cose stesse e del processo di ascesi. E ogni personaggio si trova in un momento diverso del processo. È un po’ come quando si leggono i tarocchi, ci mostrano quello che possiamo fare se andiamo nella direzione dell’illuminazione. La frase che identifica il film è proprio questa: “Non è facile entrare nella via, ma quando sei sulla via, tu diventi la via”.»
Spillover affronta tre argomenti: la pandemia, il cambiamento climatico e la guerra. Perché proprio una guerra globale?
«Le scene in cui il personaggio con la maschera parla del fatto che ci potrà essere una guerra globale, le ho girate prima che la Russia invadesse l’Ucraina, quindi prima che partisse tutto ciò. E non è che ho la palla di vetro. Vivo in un contesto multietnico che mi permette di avere amici in tutto il mondo e quindi mi confronto. E posso dire che tutti noi stiamo vivendo un enorme trauma globale a livello psicologico, che colpisce non solo la gente normale, ma pure i ricchi e i potenti. E quindi queste sono le conseguenze.»
In questo film un aspetto politico, umanistico, animistico, e anche un aspetto tecnico molto particolare per come è costruito. Ma ciò che più si percepisce è l’aspetto psicologico devastante che rimane, o sbaglio?
«Ho voluto mettere in luce l’aspetto psicologico di quello che sono stati gli effetti devastanti della pandemia. Tutti noi siamo stati disturbati da questa pandemia, ci portiamo dietro degli strascichi. C’è un disturbo viscerale nella pellicola che si tramuta in inquietudine e angoscia, intercalato però a momenti leggeri, come ad esempio le parti degli italiani.»
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Si parla tantissimo di film sulla figura della donna, sul patriarcato, e credo che Spillover si muova proprio in questo senso.
«Ho trattato il tema dell’abuso sulle donne per tutta la mia carriera, ho lavorato più volte con registi donne e ho una sensibilità di quel tipo. Ci sono tanti film che ho scritto, che hanno protagoniste donne, perché credo che l’elemento femminile, l’elemento creatore, l’elemento materno è la chiave dell’esistenza, è il mistero ultimo dell’esistenza. Non sarebbe mai potuto essere un protagonista maschile quello di Spillover. La dottoressa Sun non sarebbe potuta essere “il dottor Sun”, lui suo superiore uomo è comunque subordinato a lei che ne è la Conoscenza, l’Ispirazione, l’Intenzione. E lui vuole capire che cos’è l’esistenza. Il maschile e il femminile noi li basiamo solo sull’idea che è legato agli organi sessuali, ma in realtà non è così: siamo l’equilibrio di due forze, lo yin e lo yang. E ognuno di noi è uomo ed è donna, al di là della nostra natura sessuale. E questo è uno degli aspetti che ho voluto trattare soprattutto in quella storia.»
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