Il libro di Martina Bonichi, The end. La solitudine dello spettatore, suscita, già dall’accattivante titolo, un immediato interesse. Innanzitutto perché il discorso sul cinema è declinato sul versante della fruizione, dello spettatore, e questo spostamento di prospettiva apre a riflessioni che si pongono come il rovescio e il ribaltamento degli usuali approcci; poi perché tutto il volume è attraversato da un anelito di speranza nei confronti dello spettatore medesimo, irrimediabilmente esposto all’ultimo frame che sembra condannarlo a un lutto non elaborabile.
L’opera d’esordio di Bonichi non si pone su un piano estetico – non prova a proporre una teoria in base alla quale esprimere il valore di un film – ma su un versante psicanalitico, finanche etico, che, a tratti, trascende lo specifico cinematografico, cercando, più in generale, di cogliere la posizione di smarrimento dell’uomo di fronte all’incontenibile caducità delle cose. Il cinema, dunque, si presenta come dispositivo onirico, come sogno, e lo spettatore, dopo aver attuato un processo di proiezione e identificazione, si ritrova, alla fine del film, a dover compiere un doloro ritorno a se stesso: la solitudine, per l’appunto, lo bracca. Non a caso, nel testo in cui abbondano le citazioni vengono spesso riportati stralci dei Frammenti di un discorso amoroso di Barthes (“Il mondo è pieno senza di me, come nella Nausea; esso gioca alla vita dietro a un vetro; io lo vedo vicinissimo e tuttavia separato…..”), proprio per indicare l’essenziale asimmetria della relazione spettatore-cinema. Allora, c’è una possibilità di redenzione in questa situazione di gettatezza (direbbe Heidegger)? Dopo tanto domandare, Bonichi, pur non possedendo una certezza, auspica che lo spettatore possa sopravviverea ciò che vede. E ciò può avvenire grazie a un processo di memorizzazione (una memoria “immediata” e una “differita”) che permette di smarcarsi dall’inesorabile oblio della fine; ecco perché al lapidario “The end” si sostituisce uno speranzoso “Non finisce qui….”.
L’unica osservazione che si potrebbe muovere all’interessante testo è che la tematizzazione dello spettatore si pone su un piano individuale, senza considerare le implicazioni comunitarie che in generale l’arte, e soprattutto il cinema, comporta. Insomma, come l’ultimo, prezioso film di Leos Carax, Holy Motors, faceva notare, la questione della comunità è decisiva, perché la bellezza del gesto (artistico) fa tutt’uno con la capacità d’osservazione: senza una comunità in grado di osservare, si può, a rigore, ancora parlare di “sopravvivenza a ciò che si vede”? Chi scrive spera che questa modesta chiosa possa costituire un stimolo in più all’appassionata ricerca della promettente autrice.