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Oltre il reale: riflessioni sul cinema d’animazione. Rubrica a cura di Raffaello Ruggeri

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Non nascondo di avere il desiderio di scoprire i meccanismi di fruizione che lo spettatore standardizzato ha di fronte al procedimento del prequel; se, contemplando la nuova sequenza informativa ne rimane affascinato oppure se prosegue la visione ignorando inconsciamente i nuovi enigmi e i meccanismi di memoria.

In un’operazione così dedita all’estasi del ricordo e al racconto del passato come mezzo di enfatizzazione di profitti economici, come senza dubbio anche di quelli espressivi, sarà piuttosto facile cadere in considerazioni che riguardano in primis la fastidiosa legge di mercato nell’odierna cinematografia.

Tredici anni dopo il successo di Monster & Co. ritroviamo trasportati nel passato, noi come loro, i due protagonisti, alle prese con lo studio e il duro allenamento, nella speranza di realizzare un giorno il sogno di poter essere un membro della Monster, l’azienda che sfrutta le urla dei bambini per trasformarle in fonte di energia primaria per il mantenimento del fabbisogno mondiale.

La fondamentale capacità di un prequel, fase posteriore a un successo commerciale, è quella di approfondire personaggi e raccontare microstorie del mondo diegetico ormai conosciuto e assimilato. Come insegna Lucas la commercializzazione di un prodotto, la creazione di un ulteriore merchandising può dare buoni risultati. La serializzazione funziona anche in termini narrativi e in questo l’operazione è ben riuscita. Il film descrive l’incontro della piccola matricola monoculare Wazowski, sognatore volenteroso, con l’altezzoso Sullivan, mostro dall’aspetto feroce, figlio d’arte e pigro talento naturale. Purtroppo l’iniziale competitività sarà la causa dell’allontanamento dall’esclusivo programma per spaventatori dell’Università. I due si rendono conto di dover mettere da parte le rivalità e lavorare insieme per riuscire a tornare nel programma di reclutamento. L’unico modo per farlo è quello di partecipare con una confraternita, la scadente Oozma Kappa, a I giochi dello Spavento. La “O.K.” diventa in assoluto la fucina, dove gli animatori sono chiamati a forgiare i nuovi personaggi di rilievo: il mostro di mezza età tornato di recente sui banchi scolastici; la coppia di litigiosi gemelli siamesi; Art, il personaggio più indovinato del film, laureando in filosofia new-age, dalla forma simile a quella di un arcobaleno, si rileva una deliziosa sfida al design. Uniti riusciranno a vincere, superando i propri limiti, ritoccando con beethoveniana caparbietà le imperfezioni congenite proseguendo verso un finale che esclude future carriere universitarie ma che s’impreziosisce di una candida, e poco volteriana, anima lavorativa.

Purtroppo, con una certa amarezza, non si può negare di non aver rinvenuto tracce del principale vizio che accomuna gran parte della cinematografia d’animazione americana, e non solo, creata a suo tempo dalla Disney, mantenuta a suon di successi e incassi cospicui: la morale, figlia trascinatrice delle classiche favole.

 

 

Le favole come ben sappiamo sono un genere letterario dalla cui azione si ricava un insegnamento sul modo conveniente di agire oppure una constatazione di carattere generale sul comportamento umano. Di conseguenza la creazione narrativa è affidata alla costruzione e al raggiungimento di questo percorso, confermando un esito già conosciuto: il mostrare la società attraverso un principio regolativo.

Pertanto è piuttosto facile imbattersi nella retorica puerile. In questo caso è vero che l’espediente della morale rimane il principale conduttore narrativo ma, grazie alla natura temporale conoscitiva (quasi un continuo e spassoso flashforward!), tutto si sospende trasformandosi in una riflessione sul faticoso mondo degli animatori stessi, che per riavere un futuro di dominio creativo, dovranno ancora percorrere con passione la strada secondaria.

Per tornare alla morale disneyana come frutto proibito di cui tutto il cinema d’animazione delle potenti industrie si sta nutrendo, e tra queste non è possibile escludere neanche la tanto osannata Pixar, è da ritenersi colpevole di aver fatto nascere la tradizione e la credenza che questi prodotti siano adatti soprattutto, se non esclusivamente a un pubblico infantile e consumista. “Il cinema d’animazione non nacque specificatamente come surrogato della letteratura per l’infanzia, ma si rivolse prevalentemente agli adulti, di cui rifletteva atteggiamenti e umori di fronte alla realtà quotidiana nella rappresentazione che di essa si dava in termini di satira o anche soltanto di bonaria ironia”: sarebbe logico ormai sostenere un’animazione più matura, meno legata al mondo fanciullesco, con temi e svolgimenti più profondi.

 Non vorrei essere interprete di una crociata contro la morale di creazione ma credo che ora quanto mai sia giunto il momento di una dimostrazione di crescita esistenziale con nuove forme di narrazione.

O forse abbiamo bisogno semplicemente di una moderna e memorabile fiaba.

Raffaello Ruggeri

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