In una landa desolata volutamente e orgogliosamente non specificata del nostro pianeta, circondata da un mare ‘x’ in un tempo non precisato, Davide Manuli riscrive la storia del fanciullo d’Europa. Kaspar Hauser apparve misteriosamente a Norimberga nel 1828. Poche le parole in grado di pronunciare, maldestri i movimenti, sbilenche le reazioni al mondo esterno. Il suo nome e poche altre parole risuonavano ossessive nel suo scarno lessico, acqua e pane era tutto quello che riusciva a ingerire, Kaspar non era in grado di spiegare dove fosse stato nei suoi sedici anni di vita. Una creatura selvaggia dall’animo nobile, innocente e moralmente puro, Kaspar Hauser era un enigma troppo complesso e straordinario per il popolo che non perse tempo a etichettarlo come impostore e furbo e, dopo poco, ad assassinarlo. La storia del trovatello d’Europa – emblema di quello spirito romantico che tanto esaltava il bon sauvage, miseramente corrotto dalla mano dell’uomo – ha destato vivaci discussioni e prodotto analisi e interpretazioni confluite in migliaia di libri e articoli, senza considerare il prolifico lavoro artistico espresso in pièce teatrali e film. L’autore di Beket segue un fil rouge estetico e poetico per rielaborare in modo personalissimo, geniale e audace quel mito che 38 anni fa ispirò Werner Herzog nella stesura e messa in scena de L’enigma di Kaspar Hauser, la più celebre delle rappresentazioni cinematografiche del mito, sostituendo al calzante non-attore Bruno S. la performer-attrice e premio Ubu, corpo androgino per eccellenza ottenuto con costante esercizio fisico, Silvia Calderoni.
Rigorosamente in bianco e nero a riprova di un rinforzo grafico della dualità per un paesaggio visivo alla Ciprì e Maresco, ridotto all’essenza scenica della scarnificazione di luoghi irriconoscibili, popolato da solo ‘sei anime’ dicotomiche prima dell’arrivo del settimo elemento disturbante, il re-dio-estraneo-impostore Kaspar, La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli è la lettura post-moderna ambientata in una Sardegna irrintracciabile di un mito fatto di figure archetipiche e significati metaforici. Allo Sceriffo (Vincent Gallo), tutore-carceriere dall’accento texano di nero vestito, si oppone il Pusher (ancora Vincent Gallo) vestito di bianco, colui che ‘intossica’ l’isola ed è al servizio della Duchessa (Claudia Gerini), sovrana dark di un regno che non c’è. La sua nemesi è la Veggente (Elisa Sednaoui), che dona amore per soldi. A completare il quadro demografico dei sopravvissuti all’annientamento apocalittico di un popolo, di una nazione, dell’umanità, è la coppia formata da Drago (Marco Lampis), servo per natura, e il Prete (Fabrizio Gifuni), in sella alla canonica bici e con indosso, insieme, pistola e talare. Lo Sceriffo lo aspetta, Kaspar arriva dal mare. Un nome tatuato sul petto, le cuffie alle orecchie, una tuta e delle scarpe da ginnastica, Kaspar Hauser è una creatura androgina che si muove a ritmo di electro-music (Vitalic è l’artefice dell’impulso vitale e sonoro di questa creatura aliena), un re-dio-estraneo-impostore agli occhi della ridotta popolazione che, incapace di leggerne il messaggio profetico, o semplicemente la diversità, lo annienta. La società in cui il malcapitato Kaspar Hauser approda ha perso le coordinate spazio-temporali, è stata corrosa e corrotta e si crogiola nel conflitto. Sporadiche tracce di un’umanità schiacciata si leggono nelle cure dello Sceriffo, nelle lacrime del Pusher, nell’inquietudine della Veggente, nel monologo disperato di un Prete che non sa a cosa credere, ma anche, specularmente parlando, nella crudele ignoranza della Duchessa e nella totale fedeltà al padrone di Drago. In questo scenario di contraddizioni e sospensioni semantiche dove la desolazione è tanto primordiale quanto post-atomica/moderna, il rapsodico Kaspar di Manuli risalta come un freak tra i freaks, un ‘portatore sano di diversità’, un artista concentrato nel suo gesto creativo reiterato che viene educato dal suo mentore a diventare un Dj.
Una visione da Lichtblick Kino – il cinema più piccolo di Berlino – La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli è stato il miraggio di un’italianità cinematografica latitante (purtroppo sempre più spesso non per mancanza di talento). È audace e sperimentale, Manuli, nella scrittura, nella messa in scena – che ricorda il cinema muto, con i suoi stacchi netti – e nel casting, quest’ultimo tanto esplosivo quanto rischioso: l’eccellente ed eclettico Gifuni recita insieme al radicale e qui convincente più che mai Gallo, a una Gerini sempre disposta a nuove sfide di genere, e a Calderoni, un’attrice strappata al teatro di ricerca (Teatro Valdoca, Motus), a cui coraggiosamente e con grande successo il regista milanese affida il ruolo principale. Storia di un alieno tra presunti umani, il film è di per sé una metafora del cinema di Manuli nell’universo italiano della settima arte.
Francesca Vantaggiato