L’industria cinematografica hollywoodiana, soprattutto nell’età classica, ha definito nettamente la collocazione dei personaggi femminili e di quelli maschili. Alle donne era concesso di attendere che la loro vita iniziasse grazie agli uomini, mentre a questi andava il merito – e il divertimento – dell’azione. Nonostante il cinema riesca a portare costantemente alla luce storie e ruoli femminili capaci di sovvertire questa narrazione, la strada verso l’abbattimento di stereotipi così radicati è ancora lunga.
La necessità delle donne di far sentire la propria voce è stata tematizzata da film dove personaggi femminili “non visti” hanno trovato nella scrittura una via per dichiarare la propria esistenza. Le loro voci, spesso inascoltate, sono state riversate in diari e lettere che, rinvenuti dopo la loro morte, ne hanno consentito il riconoscimento. Dal dialogo tra i linguaggi della letteratura e del cinema sono nate opere capaci di restituire voce e visibilità a donne le cui storie risultano preziose per la lettura del presente. La trattazione di questi film, quindi, non potrà prescindere dalla storia di coloro che li hanno resi possibili.
I diari di Adèle Hugo
Adele H. – Una storia d’amore (L’histoire d’Adèle H., François Truffaut, 1975) è un film complesso sin dal suo titolo. Se quello italiano ne banalizza, almeno in apparenza, l’essenza, quello francese risulta più preciso. L’opera racconta di alcuni anni tormentati della vita di Adèle Hugo (1830-1915), figlia del celebre scrittore francese Victor Hugo. Adèle soffriva di schizofrenia ed erotomania, un disturbo che la condusse all’ossessione per l’ufficiale Albert Pinson. Spinta dalla malattia, la donna si allontanò dalla Francia e dalla sua famiglia pur di seguirlo ma, anno dopo anno, la sua condizione psichica si aggravò fino a renderla irriconoscibile e irrintracciabile. Dopo circa dieci anni in giro per il mondo, Adèle ritornò in Francia, passando gli ultimi quarant’anni della sua vita in una clinica psichiatrica.
L’esistenza di Adèle Hugo, così lontana dai canoni della buona società del Diciannovesimo secolo, è stata per lungo tempo avvolta dal mistero. Verrà alla luce solo negli anni Sessanta, dopo tredici anni di studio dei suoi diari da parte della ricercatrice Frances Vernor-Guille. È proprio a partire dalle parole di Adèle, quindi, che François Truffaut ha concepito il film a lei dedicato.
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Adèle Hugo attraverso la macchina da presa di François Truffaut
La narrazione cinematografica ha inizio nel 1863, quando Adèle (Isabelle Adjani) è appena arrivata ad Halifax sulle tracce di Pinson (Bruce Robinson). La sceneggiatura – di Jean Gruault e Suzanne Schiffman oltre che di Truffaut – non ricostruisce canonicamente la storia della protagonista, un personaggio già carico di un passato sconosciuto. Ciò rende sin dall’inizio complesso decifrare gli occhi di Adèle (quindi di Adjani) tanto per i personaggi che le stanno intorno quanto per il pubblico. La giovane, infatti, si presenta più volte mediante false identità e mente costantemente sulle motivazioni che la trattengono lì. Per tutto il film, l’intento di Adèle sarà quello di avvicinarsi con qualsiasi mezzo all’uomo che la rifiuta.
Ce n’est pas une histoire d’amour
Se per storia d’amore si intente quella tra due persone che nutrono reciprocamente un sentimento, quella di Adèle H. non lo è. Nonostante l’unidirezionalità dell’amore di Adèle possa apparire il motore della narrazione, il crudo realismo che si sostituisce al romanticismo significa qualcosa di diverso.
Adèle H. è la storia della ricerca di libertà da parte di una donna, seppure spinta alle estreme conseguenze. Nel libro Le donne e la pazzia, Phyllis Chesler nota come per molto tempo comportamenti femminili disapprovati dalla società siano stati interpretati come follia. Adèle soffre effettivamente di schizofrenia, ma ciò non toglie che la sua malattia possa essere letta come una disperata ribellione a cosa implicava (e implica) essere donne in una società che le relega in gabbie dorate. Un punto di vista così lucido è stato reso possibile dal continuo aggancio del film alle pagine scritte da Adèle Hugo. Sono molte, infatti, le scene in cui il suo personaggio è intento a scrivere quelle stesse parole che le hanno consentito di farsi sentire decenni dopo la sua morte.
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Collage di una donna
Il film d’archivio risulta il mezzo perfetto per la ricomposizione di storie che sono state travisate o dimenticate. In Un’ora sola ti vorrei (2002) la regista Alina Marazzi ricostruisce con cura la storia di sua madre, Luisa Marazzi Hoepli, morta suicida dopo lunghi anni di disagio psicologico.
Il film di Marazzi sfrutta pienamente il doppio binario che caratterizza il medium audiovisivo. I filmati d’archivio della famiglia Hoepli-Marazzi ricostruiscono con efficacia alcuni decenni della storia italiana del Novecento e, soprattutto, la vita di un certo strato sociale. È in questo spaccato che ha inizio la storia di Luisa, spesso protagonista delle immagini in questione. La giovane sembrava avere tutto: un nome importante, agio, bellezza e, successivamente, una famiglia sua. Questo non basta, però, a curare una psiche in difficoltà. Alla vita perfetta che le immagini sembrano testimoniare, infatti, fa da contrappunto il monologo immaginario in voice off che la stessa regista costruisce partendo dagli scritti di sua madre. È nelle oneste parole della donna, al riparo dagli occhi esterni, che le sue difficoltà possono finalmente essere riconosciute e dichiarate.
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A trent’anni dalla morte di sua madre, Alina Marazzi le dedica forse l’unica lettera d’amore possibile. È quella di una figlia che, in quanto donna, può finalmente leggere – e diffondere – con le giuste lenti una storia che, nel 1972, fu ridotta a un vago articolo di giornale.
La caduta degli dèi
L’ultimo titolo selezionato è forse uno dei meno conosciuti della filmografia di un regista come David Cronenberg, A Dangerous Method (2011).
A costituire il centro nevralgico dell’opera, la figura di Sabina Spielrein, una delle prime psicanaliste della storia. La sua vita e i suoi studi riemersero grazie allo psicanalista Aldo Carotenuto, che per anni studiò gli scritti di Spielrein e il suo carteggio con Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Nel 1980, Carotenuto pubblicò il libro Diario di una segreta simmetria che, oltre a riportare delle lettere del carteggio, ricostruisce e analizza i rapporti personali e professionali fra i tre. Se oggi tutti conoscono Freud e Jung, grazie agli scritti di Spielrein anche la sua vita ha potuto essere riscoperta e, ancora una volta, letteratura e cinema hanno contribuito.
Dietro due grandi uomini è stata nascosta una grande donna
Il film di Cronenberg ha trovato un riferimento prezioso nel libro di Carotenuto. Infatti, non racconta l’intera vita di Spielrein ma si concentra sugli anni che la condussero prima a Jung e Freud e poi alla professione di psicanalista.
Nel 1904 la giovane Sabina Spielrein (Keira Knightley) viene sottoposta alle cure di Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) a causa della sua schizofrenia. Il caso viene trattato da Jung attraverso la terapia sperimentale di Sigmund Freud (Viggo Mortensen), col quale il giovane medico si confronta intrattenendo una corrispondenza. A poco a poco la condizione di Sabina migliora, rivelando una mente brillante che non manca di attrarre l’attenzione di Jung. Sabina inizia a studiare medicina e, nonostante Jung sia sposato, i due instaurano un legame amoroso che, intrecciandosi con i rapporti professionali e personali con Freud, porterà i tre all’allontanamento tra loro.
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Il film di Cronenberg non si limita a trattare vicende private. A partire da esse, infatti, mette in scena delle dinamiche di potere che, ieri e oggi, le donne si trovano non di rado ad affrontare per poter praticare le loro professioni. Ne La distruzione come causa della nascita, Sabina Spielrein ha per prima sviluppato quel concetto di “pulsione di morte” che la storia ha invece attribuito a Freud. Dal canto suo, in Al di là del principio di piacere, egli ridusse il contributo della psicanalista a una nota a piè di pagina. Le vicende di Spielrein hanno avuto luogo nell’Austria del primo Novecento; il film denuncia condizioni che oggi non possono più essere ignorate.
L’importanza della voce
Adèle Hugo, Luisa Hoepli Marazzi e Sabina Spielrein sono donne le cui vite hanno attraversato due secoli. Nonostante questo, le loro storie continuano a parlare e a dimostrare quanto sia decisiva la possibilità di affermare la propria voce e, attraverso di essa, la propria esistenza. Anche grazie al cinema è stato restituito loro un corpo attraverso il quale continuare a parlare, nella speranza che nessuna donna rimanga ancora inascoltata.