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Bandolero!

If they move. Kill ‘em”. Il western da riscoprire. Rubrica a cura di Eugenio David Ercolani

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Caldo e luglio, due gemelli nati per far soffrire la gente, come scrisse Evan Hunter nel suo romanzo Lo spettacolo è finito. Tremolanti gocce di sudore che in costante slalom si snodano tra cicatrici, nei, sabbia raggrumata e terra secca. Sopracciglia perennemente aggrottate e sguardo che cerca di districarsi dai raggi del sole che, prima di toccare il suolo, si fondono insieme creando spesse lenzuola di calore che si avvinghiano alla pelle. Articolazioni surriscaldate e movimenti meccanici dettati da input annebbiati. Progressivi e fulminei stati confusionali. Battiti rallentati, tempie strette e brezze truffaldine che si alzano senza preavviso e la cui altrettanto repentina scomparsa non fa che accentuare l’afa che si insinua nelle narici. Il caldo ci invade e ci penetra, dettando legge su tutto: ormoni e umori, stati d’animo, sonno ed energia. Il calore ci porta alla contraddizione; esso è erotismo e pigrizia, frustrazione e voglia d’avventura. Il sole è estate e il western è il cinema del calore. Il genere non sarebbe quello che è senza fronti sudate e raggi di sole che per un attimo accecano impedendo di poter prendere la mira, senza borracce piene d’acqua, senza labbra crepate e volti arrossati, senza cavalli schiumanti e deserti che sono sinonimo di morte, in cui possono sopravvivere solo avvoltoi e scorpioni. Nonostante, forse, vedere un western avvolti dall’appiccicume estivo sia come mangiare un ghiacciolo in pieno inverno, per questo numero di Dust si è scelto un western particolarmente sudato e calorifero seppur dimenticabile.

Bandolero+1Da caposaldi di varia natura come I professionisti e Cat Ballou, passando per fenomeni culturali come Soldato blu fino ad arrivare a pellicole meno conosciute ma, ciononostante, preziose ed essenziali come Io non credo a nessuno e Duello a El Diablo: di tutti i film di cui si è parlato su questa pagina Bandolero! (1968) è senz’altro il titolo meno significativo. Perché quindi soffermarcisi? Perché il film diretto da Andrew V McLaglen è emblematico di quella fusione tra il western classicamente epico del decennio precedente e quello cinico, violento e politicizzato che aveva iniziato a sostituirlo dalla metà degli anni Sessanta. Proprio per la sua semplicità in Bandolero! queste realtà sono, più che mai, evidenti.

Fingendosi un boia, Mace Bishop (James Stewart) arriva in città con l’intenzione di liberare suo fratello Dee (Dean Martin) dall’impiccagione. Dee e la sua banda sono stati arrestati per l’ennesima rapina in banca e per l’ennesimo omicidio a essa legata. Stavolta a perdere la vita è stato un innocente cliente, marito dell’avvenente mezzosangue Maria Stoner (Raquel Welch). Dopo aver liberato suo fratello e i suoi complici, Mace riesce, nella confusione generale e con la banda già inseguita da un’ampia posse, a derubare la banca in cui tutto ha avuto inizio. Coincidenza vuole che nel mentre proprio Maria venga presa come ostaggio. A guidare gli uomini di legge alle loro calcagna è lo sceriffo locale Johnson (George Kennedy), da sempre segretamente innamorato della statuaria mezzosangue. Gran parte dell’inseguimento si svolgerà al confine messicano, quindi in territori presidiati da Bandoleros, il cui unico scopo è uccidere più gringo possibili e a essere decimati saranno sia gli inseguiti che gli inseguitori. Nonostante le proteste iniziali, Maria, che non aveva mai provato nulla per l’anziano marito, lentamente e inesorabilmente si innamora di Dee, che persuaso dal fratello inizia a credere che un’altra vita è possibile, a illudersi. Dalla sparatoria finale, infatti, tra fuggiaschi, lo sceriffo con i suoi uomini e i Bandoleros, solo due usciranno vivi…

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Nel 1968 escono nelle sale film ruvidi di registi giovani che contaminano il genere, titoli come Joe Bass l’implacabile di Pollack, Impiccalo più alto di Ted Post e Costretto ad uccidere di Tom Gries. Su tutti domina Sam Peckinpah che a breve macchierà – indelebilmente – di sangue il mito del West con la sua allegoria sulla guerra in Vietnam. John Wayne dichiarerà di disapprovare Il mucchio selvaggio proprio per questo motivo. In Italia, nel mentre, il genere aveva dato alla luce una ramificazione ‘terzomondista’ e rivoluzionaria, con titoli come Tepepa (1968) di Giulio Petroni e il precedente Quién sabe? (1966) di Damiano Damiani. Insomma, il western stava mostrando il suo volto più violento, reagendo a quello che stava accadendo nel mondo, raccontando la disillusione e la sfiducia nel potere. L’eroe non è più l’uomo di legge dalla morale vigorosa, ma è colui che cerca cinicamente e persino spietatamente di sopravvivere nonostante tutto e quasi sempre finisce per soccombere. Non c’è più una morale unica che accomuna gli uomini; l’etica morale è soggettiva e ambigua, come la legge e la giustizia. Non c’è spazio per i sogni se non in quel frangente prima del grande salto (Butch Cassidy docet).

Bandolero! si schiaffa proprio in questa fase avanzata nella metamorfosi del genere, e in effetti vi aleggiano molti degli elementi elencati: un maggiore gusto per la violenza, un finale amaro in cui aspettative e ambizioni svaniscono nel rosso, un ‘look’ più moderno e graffiato, un capovolgimento nella figura dell’eroe. Il problema è che il film, che comunque vanta un cast, almeno maschile, di tutto rispetto (la Welch come al solito aleggia, non recita), manca di cognizione di causa. Molti registi di generazioni passate trovarono in questa nuova libertà espressiva e stilistica terreno fertile, tra questi Don Siegel e Robert Aldrich, i cui film già si ponevano controcorrente. Nel caso di giganti come Ford, Hawks o Hathaway, il loro cinema per quanto non abbracciasse i temi più sovversivi, pur essendo perfettamente consapevoli di quello che stava avvenendo, continua ad essere impeccabile e sempre attuale. Del resto l’eleganza e la sapienza nel racconto rendono tutto senza età. McLaglen, invece, è un mestierante dalla difficile collocazione.

Il regista di Bandolero!, ma anche di Chisum e I due invincibili, nasce a Londra nel 1920. Figlio del divo degli anni Venti e Trenta Victor McLaglen, il piccolo Andrew passa la sua infanzia e adolescenza sui set cinematografici, da subito dandosi da fare nei ruoli più disparati. Quando il Re Mida Ford gli dà la sua prima grande opportunità, McLaglen Jr aveva già collezionato un numero di esperienze notevole. L’opportunità era quella di essere l’aiuto regista in Un uomo tranquillo (1952). Chi però davvero lo prenderà sotto l’ala sarà John Wayne; il Duca infatti gli produce, tramite la sua Batjac Productions, il primo lungometraggio: La camera blindata (1956). Seguirà Il vendicatore dell’Arizona quello stesso anno. Prolifico sia nel cinema che nella televisione, a plasmare la sua carriera sarà proprio Wayne, che alla fine degli anni Sessanta, trovatosi sprovvisto di “maestri”, preferirà mettersi nelle modeste ma controllabili mani di McLaglen. Non è sorprendente quindi che sia circolata la voce che a dirigere alcuni suoi film sia stato proprio il protagonista di Un dollaro d’onore. Bandolero! è forse, insieme a I 4 dell’oca selvaggia, il suo film più famoso, tra quelli slegati dal nome del divo americano.

Il fatto è che McLaglen tratta questo nuova e moderna visione del West non come un’esigenza espressiva ma come semplice moda stilistica. Quando il mucchio di Peckinpah o i Newman e Redford nel film di George Roy Hill periscono, le loro morti sono pregne di un fortissimo contenuto metaforico e le loro figure si elevano a simboli, incarnando un sentimento che trascende la pura narrazione. Dall’altro canto le morti in Bandolero! risultano fini a se stesse, ricche soltanto di un vacuo pathos melodrammatico. Quindi, oltre a un cast altisonante, a una curiosa colonna sonora a firma dell’immenso Jerry Goldsmith, che sembra essa stessa una fusione tra epoche e stili diversi (del resto l’innovazione portata da Morricone era ancora cosa fresca) e a una fotografia calda e avvolgente, quel che rimane è un bimbo in punta di piedi, che sogna di essere alto quanto il padre.

Eugenio Ercolani

 

La prossima settimana: Tom Horn

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