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Noir In Festival

Noir in festival: come sta il Giallo in Italia? Intervista al direttore Giorgio Gosetti

In occasione della XXXIV edizione del Noir in Festival, il più importante festival italiano dedicato al genere, abbiamo avuto il piacere di conversare con il suo fondatore Giorgio Gosetti, che, insieme a Marina Fabbri, ne è anche co-direttore. Con lui abbiamo parlato dei momenti più importanti di questa edizione, oltre al futuro del genere, specie in Italia dove sembra finalmente rinascere

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Abbiamo avuto il piacere di conversare con Giorgio Gosetti, direttore del Noir in Festival assieme a Marina Fabbri. Il Festival, fondato dallo stesso Gosetti –  che è anche delegato generale delle Giornate degli Autori a Venezia, oltre cheDirettore di Italia Cinema per la promozione all’estero, critico e saggista – giunto ormai alla sua XXXIV edizione, nasce nel 1979 a Cattolica, per poi spostarsi a Viareggio, Courmayeur ed infine a Milano, dove oggi si tiene ogni Novembre.

Negli anni accoglie ospiti illustri, attinenti ognuno a diverse sfere della cultura, ospitando il festival anche due premi letterari e diverse masterclass dedicate alle più varie forme d’intrattenimento, dal fumetto al giornalismo. Tra gli ospiti di quest’anno troviamo la celebre scrittrice statunitense Joyce Carol Oates diverse volte finalista per il premio Pulitzer grazie alla sua prolifica attività – il giornalista e podcaster Pablo Trincia (Veleno, il dito di Dio) e l’attrice Asia Argento.
Assieme a lui abbiamo parlato del cinema noir e del suo stato dell’arte, del festival e delle opere in concorso che più hanno caratterizzato quest’edizione.

Domanda dai caratteri generali: il festival si è appena concluso, e le volevo chiedere quale considera il risultato più importante di questa edizione, gli aspetti che pensa abbiano valorizzato maggiormente il lavoro suo e del suo team, dal punto di vista artistico e organizzativo.

Un festival che giunge alla sua 34esima edizione ha da un lato il problema di consolidare la sua tradizione e dall’altro quello di inserire elementi che lo ringiovaniscano, lo rinfreschino, di modo che rimanga al passo con la materia di cui si occupa. Nel nostro caso occupandoci della materia più popolare in assoluto, il tema era quello di abbandonare il cliché tradizionale per scoprire le trasformazioni del genere. 

É il lavoro che abbiamo fatto, insieme a Marina Fabbri, scegliendo il vincitore di una categoria importante che riprende il nome di Raymond Chandler, il Raymond Chandler Award, assegnato quest’anno alla più grande scrittrice americana vivente, Joyce Carol, un’autrice in senso assoluto di grandissima produttività, di grandissima fama e anche molto prolifica. Ha pubblicato romanzi, infinite raccolte di racconti, saggi, interventi critici anche spesso sull’attualità. La sua presenza a Milano al teatro Franco Parenti con 850 persone dimostra che è una personalità il cui profilo va oltre le semplici abitudini del genere e sono molto contento di vedere che in questi giorni debutta in libreria il suo nuovo romanzo, Macellaio, mentre festeggia con noi il premio a tema. 

Abbiamo cercato anche di allargare i confini abituali, preoccupandoci in particolare anche di fumetti e di podcast, due generi di grande trasformazione in questo momento storico. Credo che anche qui ci siamo dedicati, appoggiandoci alle scuole di giornalismo e di arti grafiche dell’università IULM, al tentativo di stabilire un rapporto nuovo con il genere.

Poi, per quanto riguarda il festival in sé, quest’anno abbiamo avuto una selezione cinematografica, sia per le opere italiane edite con il premio Caligari assegnato insieme alla IULM, sia per il concorso internazionale che si è concluso con la vittoria di uno straordinario talento all’esordio come Jia ting jian shi (Brief History Of A Family) di JJ Lin. Mi pare di poter dire che abbiamo formato la più bella selezione internazionale degli ultimi anni.

In relazione ai titoli del concorso e delle altre sezioni, sappiamo ovviamente che il tema principale del festival è il noir, ma volevo chiederle se dai film selezionati emerga quest’anno un tema principale, un fil rouge che leghi tra loro le opere in concorso.

Quando un direttore non ha un’idea preconcetta, non va mai a cercare un film che corrisponda a una sua idea. Questo lo si scopre spesso una volta terminata la selezione, quando si scopre una possibile armonia che lega un film all’altro: troviamo magari le corrispondenze tra vari personaggi. Direi che questo ci racconta come il genere sia diventato lo strumento per indagare da un lato le personalità, dall’altro il contesto.

Uso volentieri le definizioni date da due registi che abbiamo avuto ospiti, due forse tra i registi che si sono distinti di più nel concorso di quest’anno.
Il tedesco Gustav Müller ha realizzato un film, Vogter, vicino alla tradizione del prison room, il cinema carcerario, che però, come lui stesso ci ha detto, man mano che girava il film in un genere che ama da sempre e che sceglie da sempre, si è reso conto che il centro del suo racconto era la personalità della protagonista, una guardia carceraria che si ritrova a dover decidere come comportarsi nei confronti del detenuto che poi sa essere l’assassino di suo figlio. 

Dall’altra parte il regista vincitore del Black Panther Awards di quest’anno, cioè JJ Lin con il suo già citato Jia ting jian shi (Brief History Of A Family), ci ha raccontato come in realtà cercasse un modo per disegnare una storia di segreti e di verità nascoste di una famiglia della buona borghesia cinese di questi anni, e pian piano si è reso conto che il noir gli forniva gli ingredienti con cui indagare i personaggi e il contesto di questa storia. Succede quindi che alla fine ha fatto un percorso inverso rispetto a quello di Gustav Müller: non voleva fare un film di genere ma si è ritrovato ad averlo tra le mani, mentre Müller voleva fare un film di genere e si è ritrovato a raccontare le psicologie e l’inconscio dei personaggi.

In mezzo ci sono svariati altri film.  Lo spagnolo L’Infiltrada, racconta l’infiltrazione di una poliziotta in uno dei commander dell’ETA basca nel periodo più duro, nello scontro tra i ribelli baschi ed il governo centrale spagnolo. L’italiano Dedalus di Manzetti è invece il tentativo di interpretare tramite il genere quella che sembra la passione selvaggia di questi anni, il contest, che consente di emergere dall’anonimato alla notorietà di quegli influencer che altrimenti non avrebbero altrettanta popolarità.
Potrei poi continuare con la lista dei vari film, per dimostrare sempre la stessa cosa, utilizzando le parole di Joyce Carol: il noir è un veicolo, il noir è un ambiente, un mondo, all’interno del quale stanno le storie, le psicologie e le persone.

Riguardo il film da lei citato ‘Dedalus’, nella sezione dei film in concorso internazionale abbiamo un solo film italiano. Mi chiedevo, rispetto all’evoluzione che il genere in Italia ha avuto negli ultimi anni, grazie anche ad opere quali ‘l’ultima Notte di Amore’, piuttosto che la trilogia realizzata da Sollima, se il noir qui in patria sembri in qualche modo vedere una nuova luce. Come si posiziona oggi nel nostro contesto nazionale e sul piano internazionale? Soffre rispetto ad altre cinematografie estere oppure ha ritrovato un rinnovato vigore?

Dobbiamo ricordarci che il noir in Italia ha radici molto profonde, molto lontane e spesso non dichiarate. Mi piace sempre ricordare che Luchino Visconti ha debuttato con quello che oggi noi chiamiamo un film noir, Ossessione, tratto dal romanzo Il postino suona sempre due volte. Mi piace ricordare che Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni in realtà racconta un fatto di cronaca nera.

Noi poi abbiamo avuto almeno tre generazioni, tre movimenti che sono inevitabilmente connessi a questo genere. Penso al cinema di impegno civile, dei grandi autori come Damiani Petri, Rosi, spesso ispirati da Sciascia. Dall’altra parte tutto il filone del gotico, da Freda a Bava a Fulci fino a Dario Argento, il più famoso di tutti.
Penso poi anche a una derivazione molto popolare, quella che noi chiamiamo il periodo poliziottesco, che poi a cavallo degli anni ‘70 è diventato un genere estremamente popolare, con personaggi come Tomas Milian e altri. Abbiamo avuto poi un lungo periodo di silenzio e difficoltà nel riconnettersi con il genere da parte di molti nostri autori. Credo che questo stia cambiando profondamente e che il merito originario sia stato di grandi successi seriali televisivi, uno tra tutti La Piovra.

C’è poi la grande vitalità dei nostri scrittori di giallo, che sono diventati degli autori internazionali ormai. Da Carlo Lucarelli in avanti fino a De Giovanni abbiamo protagonisti di grande impatto e di grande riuscita, spesso anche capaci di ispirare il cinema, come Romanzo criminale che viene da Giancarlo De Cataldo che ha generato tutto un fenomeno fino a Suburra, timbrato da Sollima.

Oggi abbiamo grande vitalità di autori: l’anno scorso il premio Caligari ha premiato L’ultima notte di amore, quest’anno in concorso erano presenti molte sfaccettature, opere diverse tra loro, dallo straordinario professionismo di Sollima con Adagio fino quasi al fantasy a tinte noir del film che poi ha vinto, ovvero Mimì il principe delle tenebre di Brando De Sica, fino a The Well di Federico Zampaglione, che invece attinge dalla tradizione dell’horror italiano.

Il tentativo è stato quello di far vedere quante modalità, quante sfumature, stiamo cominciando a mettere in campo. Dedalus è appunto un’altra conferma, ma penso anche a l’Indelebile di Simone Valentini, che in realtà non abbiamo voluto inserire in concorso solo perché volevamo assegnare il premio speciale, il premio Luca Svizzeretto al suo protagonista, Fabrizio Ferracane, che è uno degli attori più sensibili, originali e giustamente da far risaltare in questi anni.
Addirittura siamo andati a chiudere il festival con altri due elementi apparentemente molto lontani dalla tradizione, dalla radice, un film come l’esordio alla regia di Violetta Rovetto dal titolo il Migliore dei Mali, che in realtà è un film per adolescenti che ruota intorno ad una scomparsa, per poi raccontare dell’altro.

Infine, il film di chiusura Fatti Vedere di Tiziano Russo, che è in verità una commedia romantica, dalle tinte gialle: a me piace pensare che il giallo, attraverso la black comedy in primis, possa coniugare anche generi diversi e fare anche sorridere non soltanto inquietare. Gli italiani sono bravi, cominciano a essere molto bravi, a mio parere oggi soprattutto attraverso il filone della serialità televisiva. Abbiamo del resto aperto il festival con una serie televisiva che è Gangs of Milano, ispirata ed interpretata da Salmo, in particolare in quest’episodio che è un film vero e proprio, Bén Dàn. Ma anche per quanto riguarda la sala, sono convinto che siamo in un momento in cui possiamo davvero conquistare e riconquistare anche l’attenzione internazionale.

Fatto salvo un dettaglio: il noir si può fare certamente anche con pochi mezzi, ma se si vuole avere una caratura e una visibilità internazionale, più che per quanto riguarda altri modi di raccontare, il noir ha bisogno di mezzi produttivi. Questo, nella situazione attuale dell’industria cinematografica italiana è un po’ più facile ottenerlo attraverso la serialità televisiva, che non per un film da distribuire in sala. 

Riguardo il fumetto, da lei citato poco fa, come sappiamo, il legame con il noir è un legame antico. Lo stesso termine noir viene dal fumetto francese degli anni ‘30. Quest’anno poi in particolare il fumetto e la sua evoluzione sono state al centro di alcuni vostri incontri con Paolo Bacilieri e Maurizio De Giovanni. Volevo quindi chiederle se potesse parlarmi del rapporto tra queste due generi, come si sono influenzate e come continuano a influenzarsi vicendevolmente e se crede che questo, oggi, sia ancora rilevante.

L’Italia in questo campo vanta due campioni assoluti tra tanti bravissimi sviluppatori e creatori di storia. Sto pensando da una parte a Diabolik, che festeggia peraltro ormai i suoi quasi settantacinque anni, e dall’altra parte a Dylan Dog, che è diventato un fenomeno internazionale ormai da molti anni.
Adesso abbiamo Paolo Bacilieri, che in chiave di narratore per le Graphic Novel sta istoriando l’opera di Giorgio Scerbanenco, il fondatore del noir italiano, a cui noi abbiamo dedicato un premio.

Noi abbiamo chiesto di disegnare la locandina di quest’anno a Vanna Vinci, vincitrice del Romics d’oro di quest’anno, che ha fatto, secondo me, un’opera molto bella, molto forte e di impatto, contenente una citazione cinematografica molto esplicita, perché il personaggio disegnato al centro dell’immagine è la Barbara Stanwyck de La fiamma del peccato.

Maurizio Di Giovanni, che è in primis uno scrittore, poi un ispiratore di serialità televisiva, ha trovato una nuova chiave lavorando sul commissario Ricciardi, anche insieme al direttore Bonelli e a Pierracciano, per creare una dimensione nuova del suo personaggio. Quindi c’è un travaglio di esperienze costante e molto vitale. La scuola italiana, questa sì, è già rappresentata nel mondo.

Anche perché, è ovvio che stiamo parlando di mezzi comunicativi che richiedono molta creatività, grande visualità, ma che, soprattutto nel segno dell’impatto e dell’impegno produttivo, sono più affidati al singolo, rispetto a quanto richiesto nella produzione cinematografica.
A me piace molto, infatti, guardare alla dimensione del fumetto: le immagini delle nostre locandine sono sempre state affidate, negli ultimi anni, alle grandi matite, diciamo così, di questo genere. Penso che, da questo punto di vista, non abbiamo veramente niente da imparare da nessuno.

Avete avuto diversi ospiti importanti quest’anno: ci sono stati tanti incontri, masterclass, dal premio a Joyce Carol, Paolo Trincia e i fumettisti appena citati. Può parlarci brevemente di queste masterclass, dei criteri tramite cui sono state scelte e quali sono stati gli ospiti più graditi? E ancora quali vorrebbe portare nelle prossime edizioni, e quali crede farebbe più piacere vedere agli spettatori del Festival?

I festival in questo periodo stanno subendo una grande trasformazione, stanno diventando sempre più occasioni di incontro con varie personalità, ancor più che occasioni di valorizzazione delle opere, film o libri che siano. Io vado un po’ in controtendenza, invece. Amo cioè avere ospiti che siano profondamente legati con la materia di cui stiamo parlando. Non mi piacciono gli ospiti che vengono scelti in base alla loro visibilità. Chi mi porterei dietro?

Mi porterei dietro tutti, ma se dovessi citarne tre, direi James Jones, secondo me uno dei migliori documentaristi in attività. È stato membro e presidente della nostra giuria, ma soprattutto ha portato al Festival uno straordinario lavoro che si chiama Antidote, una bellissima inchiesta condotta dal giornalista bulgaro Christo Grozev a proposito dei sistemi occulti con cui il servizio segreto russo cerca di perseguire e giustiziare gli oppositori di Putin nel mondo.

La seconda persona che mi piace citare, in questo caso interna alla nostra azienda, quella che per me è stata una grande scoperta, Letizia Toni, attrice giovanissima, ormai molto nota perché ha interpretato il personaggio e la giovinezza di Gianna Nannini nella serie Netflix Sei nell’anima, perché secondo me è la conferma di una generazione di interpreti italiani di grande spessore, di grande qualità umana, intellettuale, oltre che artistica. È stata una bella scoperta che mi piacerebbe tanto ritrovare nei prossimi anni.

La terza è totalmente straordinaria, un’icona del genere, Asia Argento, che qui è approdata con una travolgente dimensione anche comica, allegra, festosa attraverso il film che ha chiuso il festival, Fatti vedere di Tiziano Bruno. Un po’ in controtendenza con quello che noi ci aspettiamo da Asia. Per me è stata una meravigliosa apparizione dentro il festival di quest’anno, e vorrei dirle quanto le sono grato, anche per averci fatto scoprire una sua vena segreta ironica, scherzosa, gioiosa, luminosa che normalmente non le attribuiremmo. Bisogna poi tenere conto che il noir da molti anni è nel segno di Argento, il padre, che è stato spesso nostro ospite. Ecco, questa presenza di Asia per me ha avuto un valore doppio anche perché mantiene forte l’unione con una famiglia a cui ci sentiamo molto legati.

Il noir in festival nasce prima a Courmayeur per poi spostarsi per una breve parentesi a Viareggio e approdare infine a Milano. Nasce negli anni ‘80, giungendo oggi alla sua XXXIV edizione. Specie negli anni ‘80 si trattava sicuramente di un unicum, un festival che si distingue specialmente per la sua peculiarità, tanto da essere stato definito il Sundance d’Italia.
Volevo quindi chiederle come nasce l’idea, ma soprattutto se l’idea di far nascere un festival incentrato unicamente sul noir in qualche modo possa anche nascere in reazione a un contesto avverso a questo genere, dove il noir e in generale il cinema di genere in Italia sono sempre stati penalizzati dalla critica, perché mai considerati tanto autorevoli quanto il cinema arthouse o il cinema d’autore. Quali sono quindi le ragioni profonde che hanno portato alla nascita del Festival?

Il primo festival che si occupa di trattare generi quali il giallo, il mistero, il thriller e quindi anche l’orrore e in definitiva il noir, nasce a Cattolica sulla riviera Romagnola nel 1979-80, sulla scia di un prestigioso premio letterario che era il Gran Giallo Mondadori.
Lo ha fondato, ideato, diretto e concepito con grande lungimiranza Felice Laudadio che ha in quel momento sdoganato il genere dal suo essere letteratura minore, letteratura da treno o cinema da secondo spettacolo. 

Per una serie di vicissitudini e di trasformazioni, abbiamo dovuto lasciare la riviera Romagnola alla fine del 1990, per fondare quello che oggi è il Noir in Festival nel 1991 a Viareggio. Abbiamo voluto così chiamarlo proprio perché nel frattempo dal giallo in senso tradizionale la società stava cambiando il senso e la percezione del genere.
Ci siamo allora spostati a Courmayeur per poi stabilirci definitivamente a Milano, dove peraltro Giorgio Scerbanenco ha vissuto e lavorato, prima al Corriere della Sera e poi come scrittore. Perché nasce? Il festival in genere funziona così: viene fondato a partire da un’idea, che è solitamente radicata nella passione personale del suo fondatore, passione che pensa di poter convivere con altri. Vale per il festival di Torino che nasce da un gruppo di appassionati di cinema indipendente, vale per noi, a noi che piace questo genere, quello che definiamo lo specchio oscuro attraverso il quale capire e intercettare come cambia la società. 

Penso che certamente noi abbiamo accompagnato in questi 34 anni la trasformazione di un genere da semplice occasione di intrattenimento, di divertimento popolare – cosa che comunque rimane ancora oggi perché appunto la paura, il disagio, l’inquietudine, sono strumenti fondamentali per l’evoluzione personale e anche per la liberazione di sé stessi davanti allo schermo, e poi perché nel frattempo è stato utilizzato da grandissimi autori per raccontare la realtà.
Faccio un ultimo esempio: abbiamo dedicato un tributo speciale a Steven Soderbergh, regista molto familiare in quest’universo, che ha presentato in anteprima nazionale qui da noi Presence, un horror psicologico che affonda le sue radici nel genere.

Volevo riprendere il tema del noir come strumento di lettura per il presente. Nonostante il suo fascino antico, potendolo far risalire alle produzioni letterarie addirittura dell’800 con Allan Poe, il noir è un genere ancora molto esplorato e quindi le chiedo come crede che questo genere possa ancora oggi attrarre il pubblico e raccontare il nostro vissuto.

Il noir è il sentimento del tempo. Non è un genere, è un modo di guardare il mondo e come tale non solo non invecchia, ma è in assoluto lo strumento più giovane che esista per guardare come stiamo cambiando. Ogni decennio ha degli interpreti che lo connotano: si pensi a Quentin Tarantino che ha cambiato il senso degli anni ‘90. Oggi ci confrontiamo con le stesse evoluzioni, è un genere giovanissimo, vivacissimo, e tale rimane perché è, appunto, il sentimento del tempo.

Editato da Margherita Fratantonio