La Grande bellezza di Sorrentino non è più un film; si tratta piuttosto di un’opera d’arte, uno di quei capolavori che non si “possono” capire con le solite categorie, i soliti luoghi comuni manichei (bello-brutto, lento-veloce, antico-moderno), ma nei confronti del quale bisogna lasciarsi trasportare dal fluido delle immagini, dal ritmo, dai colori, dalla luce, dalla cura dei dettagli e del montaggio, dalla psicologia che emana da ogni istante, da ogni fotogramma, da ogni gesto anche lontano, evulso, insignificante. Bisogna, come davanti ad un quadro di Manet o Kandinskij, lasciarsi andare, abbandonarsi alla bellezza, al mistero della “perfezione”, della geometria (simmetrica o asimmetrica che sia), dello sforzo creativo nel restituire un mondo, un’umanità, una magia, dando luce ai lati oscuri, alle contraddizioni, al malvagio che si cela sotto la grazia.
In questo senso La grande bellezza è un’opera (non parlo più di film in senso proprio) caravaggesca, seicentesca, che va oltre la purezza del Guercino traboccando nel chiaroscuro pastoso ed inquietante di Velasquez. In quel crinale tra sogno e veglia, tra poesia e morte, evanescenze e materiali in decomposizione che è già di per sé bellezza; una bellezza però “mancante”, che viene sempre meno al suo compito, che cade e decade, che non riesce mai veramente ad essere, ad esistere, che nel momento in cui appare ecco che scompare, evocando chissà quali enigmi, risolvendo chissà quali misteri. Una bellezza puramente contemplativa e allo stesso tempo sbruffona, iconografica, fatta di marmi e luce, umori e passioni, sempre più intangibili, astratte, una bellezza che non produce più nulla, non porta più a nulla, che non mette in piedi nessuna utopia né speranza, che non evoca più nulla se non la propria pigra ed autistica auto-conservazione.
Una bellezza “stagnante”, autoreferenziale, circolare, senza via d’uscita, claustrofobica, che stupisce ed ammalia per la sua indifferenza, per la sua miopia, per il suo essere mancata, per il suo venir meno, per il suo non poter essere colta, vissuta, partecipata, abbracciata, osannata e vilipesa. Una bellezza morta e sepolta sotto il grigiore dei millenni ma sempre li, puntuale a ricordarci di essere, ancora, vivi e vegeti spettatori del suo esibirsi nonostante tutto, del suo darsi patetico al di fuori di qualsiasi logica né identità.
Una bellezza in questo senso oggettiva, che dimostra la materialità dell’esistenza, l’abitudine meccanica del suo ripetersi senza uguale e sempre diversa, che ci fa credere e dubitare della nostra presenza, nel non riuscire più a capire e ad essere compresi; come si può partecipare ad un monumento, ad una strada, ad una statua se essa è muta, se non parla la nostra lingua e se noi ne siamo sempre più estranei? Non può allora che darsi una comunicazione “morta”, puramente simbolico-evocativa, di rimando, di riflessa memoria, di istinto animale, di stimolo cerebrale interrotto chissà quando e da chissà chi. Un dialogo tra sordi che diventa un dialogo tra muti.
Eppure in questo astratto e fantasmagorico mutismo, dentro lo splendore ovattato e terso di una bellezza che svanisce, che si toglie mentre si dà, che viene meno e si abbandona al suo abbandono sublime, resta ancora l’uomo, con le sue paure e contraddizioni, schiavo di una dimensione terrena di cui non potrà mai liberarsi, dentro la quale dovrà sempre e comunque fare i conti con se stesso, con la propria debole spavalderia, con il proprio triste coraggio.
È questa la forza che Sorrentino imprime al suo film, alla sontuosa messa in scena, alla granitica sfarinatura di Jep Gambardella, nel suo pellegrinare snaturato, nel suo essere testimone e notaio di un rito vecchio come il mondo; quello cioè del prendere coscienza del proprio non esistere (o non esistere più), nel vagare ciechi nel buio avendo come unico punto di riferimento una purezza persa, una innocenza perduta per sempre, quel faro di giovinezza che per quanto illusorio dava “senso” e misura a tutto, anche agli errori, all’indifferenza, al dolore, alla perdita. Una grazia che graziava tutto, che riusciva nel miracolo di permettere al male di sigillare il bene, al brutto di dare cittadinanza al bello, nell’alveo di una dialettica che non si spezzava mai.
Una magia in realtà molto vecchia e rodata, di cui anche Fellini e i suoi grandissimi sceneggiatori (Tullio Pinelli e Ennio Flaiano) si sono nutriti.
Quel giocare circense con le esistenze, con l’esserci e il non esserci, tra favola e disperazione (basti pensare all’episodio straordinario per pathos e linguaggio del suicidio di Steiner e dell’uccisione dei figli ne La dolce vita), tra grottesco e gusto del tragico, che permetteva ancora alla parola, al dire (senza essere detti) di avere un suo preciso valore esegetico, morale, anarchico, rivoluzionario.
In questo calore estatico, in questa nemesi da racconto perduto, sperduto tra infinite intenzioni, Sorrentino e Fellini si toccano, si parlano, pur essendo lontani, lontanissimi.
Al di là della diversa declinazione ed impatto dei suoi film (La dolce vita uscì nel ’60 provocando uno scandalo reale che La grande bellezza non ha in fin dei conti mai suscitato e forse non aveva neanche intenzione di suscitare), è in gioco qui il significato stesso della bellezza, il suo statuto ontologico nella società e oso dire nell’antropologia umana.
La bellezza felliniana era ancora una bellezza “popolare”, autentica, misurata e misurabile (anche nei suoi eccessi), aperta, fruibile, pronta a tutto, disponibile, vivibile, capace di utopie e rivoluzioni, magie ed evoluzioni seppur invischiata nel suo lato più grottesco e tragico. Si donava generosamente e senza remore, dolce e spietata, rumorosa ed ostile, eterea e crudele.
La grande bellezza di Sorrentino certifica, come già detto, l’assoluta mancanza del bello, la totale vacanza di un significato più profondo, originario, primitivo, di una speranza (anche distruttiva e nichilistica) da cui potrebbe nascere una possibile alternativa. Una bellezza –bruttezza statica, improduttiva, stagnante, da cui non si entra e da cui non si esce, asettico tabernacolo per un Dio sfrattato, che non c’è e non c’è mai stato, distratto ed indifferente, che ha lasciato solo l’uomo a creare la sua perfezione imperfetta. L’uomo gettato in questa bellezza “forzata”, ammaliante, infernale, autistica, paurosa e terrificante (perché puramente formale e mai di sostanza, di partecipazione e di gestualità effettiva nel costruire una polis etica) si smarrisce proprio nel suo momento più alto e supremo, quello della creazione. L’uomo non fa che creare il proprio smarrimento in ciò che ha creato di più bello e sublime.
Un paradosso in verità oggettivo che origina dalle contraddizioni della società delle merci e del capitale. L’uomo che ha paura della felicità e dell’amore e vive assuefatto all’orrore e alla morte. L’umano che si fa macchina e la macchina che si umanizza. La vecchia storia.
Ma al di là del grado di scandalosità o di oscenità che Sorrentino e Fellini hanno impresso alle loro opere, lo sforzo dei due è quello di far parlare la dialettica di mostruosità e di grazia insita in tutte le cose, nella realtà così come nei sogni, nella pratica quotidiana degli uomini così come nei loro progetti di trasformazione.
In gioco qui non è solo un film. Ma la decifrazione di cosa rende ancora la vita umana degna di essere vissuta.
Claudio Vettraino