fbpx
Connect with us

Interviews

‘I re del Luna Park’ intervista con il regista Marco Pellegrino

In quattro episodi il racconto di una delle più famose famiglie pugliesi di giostrai, rappresentanti di un mondo antico che fatica a sopravvivere ma ancora capace di ammaliare. Su Sky Documentaries e in streaming su NOW e disponibile anche on demand

Pubblicato

il

marco pellegrino

La docuserie I re del Luna Park in onda su Sky Documentaries dal 30 novembre in quattro episodi, prodotta da Ballandi, diretta da Marco Pellegrino, ideata e scritta da Marco Pellegrino, Giulio Beranek, che è anche interprete, e Daniela Mitta, racconta la vita quotidiana, le passioni e le difficoltà dei Monti Condesnitt, una delle più famose famiglie pugliesi di giostrai, fra le ultime rimaste a difendere una tradizione che rischia di sparire. Realizzata nell’arco di 12 anni la docuserie racconta le reali vicende dei personaggi che hanno ispirato il romanzo Il figlio delle rane (edizione Bompiani) scritto a quattro mani dagli stessi Marco Pellegrino e Giulio Beranek.

I Monti Condesnitt sono una delle ultime famiglie pugliesi di giostrai, fieri custodi della tradizione del Luna Park itinerante. Negli anni ’80, mentre il Luna Park raggiunge il culmine della popolarità, la Sacra Corona Unita si insinua nella vita dei Monti Condesnitt, sfruttando il biglietto omaggio come strumento di ricatto e controllo. La frattura generazionale tra i Monti Condesnitt emerge lentamente, ma inevitabilmente, quando Amilcare, unico figlio maschio, decide di affrancarsi dal controllo paterno e intraprendere un percorso pericoloso: viaggiando tra i Balcani e l’Italia, Amilcare si lega a personaggi oscuri e a traffici di armi, e in breve tempo costruisce una rete criminale tanto efficace quanto devastante per il nome della famiglia. Nonostante la sofferenza e il dissenso dei suoi parenti, il giovane porta avanti i suoi affari, mentre la criminalità pugliese si riorganizza in alleanze sempre più potenti e brutali. Nel corso degli anni, la famiglia Monti Condesnitt, una volta ammirata e rispettata, si trova così sempre più isolata, segnata dalle indagini della polizia e dalla crescente ostilità delle bande rivali. La tensione familiare si intensifica tra chi vuole preservare la tradizione e chi, come Amilcare, persegue il potere e il denaro a qualsiasi costo. (Fonte: Sky)

In occasione dell’uscita della docuserie abbiamo fatto alcune domande al regista Marco Pellegrino.

Marco Pellegrino e Giulio Beranek

Inizio con il chiederti cosa significa mettere insieme così tanto materiale (perché la serie è stata realizzata nell’arco di 12 anni) e racchiuderla in soli 4 episodi e cosa significa farlo con un’altra persona. Perché tu sei il regista, ma la serie nasce dal romanzo scritto con Giulio Beranek (Il figlio delle rane) e racconta di Giulio.

La genesi di tutto il lavoro è un po’ complicata. Tutto inizia più o meno intorno al 2011/2012, quando ho conosciuto Giulio sul set di una serie tv nella quale io facevo l’assistente alla regia e lui l’attore. Abbiamo iniziato a conoscerci e ovviamente lui mi ha folgorato nel raccontarmi un po’ il suo passato, il suo background: non mi ha raccontato subito tutto quello che c’è nel documentario, però già l’inizio mi ha offerto una curiosità nei confronti di questa sua storia e da lì ho iniziato un po’ ad avvicinarmi al suo mondo, alla sua famiglia. Ogni tanto andavo giù a Taranto per andare a trovarlo, per andare a trovare la sua famiglia. Nel frattempo lui aveva raccolto insieme a un altro regista, Emanuele Tammaro, un po’ di materiale derivante da un backstage di un film che aveva fatto, Mar Piccolo, e l’aveva conservato con l’idea di farci un documentario che, in effetti, era in fase di gestazione. Successivamente ho proposto di raccogliere anche quel materiale e di iniziare un mio percorso di studio. Inizialmente volevo anche io fare un piccolo documentario, incentrato in particolar modo sulla famiglia di Giulio.

Poi è venuto fuori tutto il materiale di repertorio, foto, altri video, ma soprattutto un elemento chiave che ha poi effettivamente acceso il motore della docuserie: le lettere di Amilcare. Si tratta di 15 buste di lettere, il suo romanzo, la sua autobiografia legata al periodo balcanico. La lettura di tutto quel materiale ha convinto poi anche la produzione, la Ballandi, ad ampliare il racconto e a renderlo seriale, proprio perché effettivamente tutta questa compresenza di personaggi, di linee verticali aveva senso di essere raccontata in questo modo.

Quindi, per rispondere alla tua domanda, è stato un rapporto di collaborazione e di amicizia con Giulio. Parte della sua storia, infatti, è poi diventata anche la mia, impegnandomi quasi 12 anni.

Per quanto riguarda la differenza tra romanzo e docuserie il primo ha un’anima narrativa, quasi favolistica, con elementi di surrealtà, mentre nella seconda ci sono personaggi reali che, a loro modo, sono surreali. L’aspetto surreale c’è sempre, ma nel romanzo è più narrativo, mentre nella docuserie è più legato ai personaggi.

Una famiglia surreale

In effetti non so se è perché sono tanti i membri della famiglia, se è perché c’è tutta la questione di Amilcare, però si presta come famiglia, anche per il mestiere che fanno, allo spettacolo in generale. Pur essendo una docuserie e quindi un racconto della realtà, c’è questo elemento, in qualche modo, surreale.

Sì, poi diciamo che il mio punto di riferimento sin dall’inizio era un po’ il linguaggio in stile Pietro Marcello. Come riferimenti, in generale, potrei citare La Bocca del Lupo di Marcello e Le cose belle di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno. Quest’ultimo è un film in due episodi girati nell’arco di molti anni e quando l’ho visto ho avuto un’illuminazione su come poter sbloccare determinati passaggi narrativi tra il passato e il presente. Io avevo accumulato molto materiale sulla famiglia Monti Condesnitt, e, nel chiudere tutto il lavoro, mi ero reso conto che si poteva aggiungere anche un livello narrativo che dialogasse proprio su un confronto tra il passato e il loro presente. Alla fine è stato anche facile riuscire ad aggiungere una nota poetica, anche emozionale, e poi la cosa meravigliosa è che tutti i personaggi che ci sono ne I re del luna park sono personaggi completi a loro modo, sono archetipi pronti da usare per questa storia.

Ed è questo quello che piace, secondo me, e che riesce della docuserie: sono, a loro modo, spettacolari, però sono umani, sono l’emblema di personaggi veri nei quali chiunque si può rispecchiare. Non solo nella persona in sé, ma anche nei rapporti tra i personaggi, dai battibecchi dei nonni, alle paure della madre, alla voglia di evadere di Giulio, chiunque si può ritrovare in quello che viene raccontato con semplicità e sincerità.

Ma infatti la sfida per me è sempre stata quella di rendere universale un racconto che comunque è particolare. La facilitazione ovviamente è data dal contesto in cui sono inseriti i personaggi, che è comunque un contesto sempre un po’ ambiguo, quello del Luna Park, del circo. Si tratta di un qualcosa che è sempre stato un po’ al centro dell’attenzione di una buona parte del pubblico. In questo caso c’era l’ambiguità tra un mondo di favola e di luci colorate e tutta una linea crime che gioca su due livelli, uno dei quali è lo stereotipo che si ha nei confronti del mondo dei nomadi. Molto spesso questo popolo che noi raccontiamo, i dritti, vengono confusi come zingari, sinti, rom. Quindi c’era anche la necessità di fare un po’ chiarezza su una realtà culturale anche da un punto di vista antropologico.

Ridurre I re del luna park a “serie documentaristica” vuol dire non dire la verità. I re del luna park è molto di più, è una serie, un documentario, ma anche un racconto di formazione, un crime. Ed è anche quello un punto di forza della serie.

Sì, assolutamente e sono contentissimo che questa cosa sia evidente perché era l’obiettivo che mi ero prefissato. Poi io e Giulio siamo due cinefili (io ho fatto un percorso di storia del cinema all’università) e insieme abbiamo visto tanti film. Tra questi un titolo che abbiamo visto tante volte durante questi anni è C’era una volta in America, che può sembrare un paragone azzardato, ma in realtà ci siamo tornati spesso per cercare un modo di scrivere una storia attorno alla sua vita.

Noi abbiamo comunque come obiettivo quello di completare la trilogia di questo lavoro, che è fare un film o addirittura una serie di fiction, però nella docuserie, come dici tu, c’è qualcosa di più. Volevamo aggiungere qualcosa di diverso e io ho voluto farlo anche da un punto di vista estetico. All’inizio avevo paura che fosse un po’ difficile da comprendere, ma il risultato è un insieme di tante cose, di tanti linguaggi: c’è una parte di documentario classico però poi ci sono anche momenti che vanno verso l’osservazione del loro quotidiano.

Le scelte di Marco Pellegrino

In relazione a scelte più estetiche c’è il racconto molto intimo ed empatico di Giulio (il protagonista narratore e anche un po’ imbonitore) che avviene sul divano all’interno di un campino (che lui definisce casa e il luogo dove si ritrova), simbolo di movimento continuo al quale lui allude più volte e che diventa una delle cause dei suoi comportamenti. Al tempo stesso è anche significativo il fatto che non si sposti mai e che tutta la serie sia ambientata lì, come a dire che ha trovato stabilità, ha trovato una casa e un luogo accogliente, ha trovato un mezzo che lo può far esprimere al 100%.

Tra l’altro in aggiunta a questo c’era l’idea di inserire una sorta di momento di animazione in stop motion con il quale, dietro la finestra di quel campino, si iniziassero a vedere paesaggi diversi, come a dire che il luogo è lo stesso, ma è una casa che può spostarsi, quindi una casa dietro la cui finestra si possono vedere paesaggi infiniti. Tutto questo poi è stato riassunto con la scena finale.

Però è assolutamente corretto quello che dici, ed è un’immagine, un simbolo che tocca un aspetto importante, cioè la malinconia, la nostalgia, che è un leitmotiv della cultura dei dritti, in particolar modo della famiglia Monti Condesnitt. In generale, però, ogni volta che ho avuto modo di dialogare con un dritto, oltre all’entusiasmo e l’orgoglio nei confronti della propria cultura, della propria tradizione, della propria differenza, c’è anche questa vena nostalgica nei confronti di un mondo che si è trasformato e rispetto al quale fanno molta fatica a trovare una posizione, un bilanciamento. La casa, il campino, è diventato ormai un luogo fermo e anche loro, in qualche modo, si stanno stabilizzando e trasformando.

L’unico compromesso, che li tiene ancora legati al passato, è vivere comunque su quattro ruote e non su delle fondamenta. L’idea era ragionare su questa ambiguità tra restare fermi e guardare dietro alla finestra e avere la possibilità di immaginare ancora un viaggio, ancora un movimento.

La visione metaforica

A proposito di costrizione nell’episodio 3 c’è una frase Per gente come noi il carcere è la punizione più pesante che racchiude questo disagio del continuo spostarsi. È un po’ come se vedesse il fermarsi e lo stabilirsi in un luogo come una prigione.

Assolutamente, ed è una cosa che è presente veramente in ogni dettaglio, anche a livello proprio sonoro, cioè vivere in una roulotte implica ascoltare dei suoni diversi. In questi 12 anni ci ho vissuto e ho avuto modo di trascorrere quasi tutte le estati, a volte anche per diversi mesi. Quando piove il suono della pioggia è assoluto, batte sul tetto e non puoi far altro che sentire quello. Così come quando c’è il vento. Quindi è proprio un paesaggio anche acustico che permea tutto e per questo la sensazione di vivere per un dritto all’interno di un luogo chiuso e protetto, anche a livello sonoro, è pesante. È una prigione a tutti gli effetti, quindi un carcere è una prigione moltiplicata per tre.

In base a quello che hai detto mi viene in mente che una cosa interessante è come hai aperto tutti e quattro gli episodi, osservando e ascoltando. In generale spesso vediamo immagini dall’alto, soprattutto la città o il Luna Park, che vanno in parallelo. Il Luna Park, che loro vivono e del quale vivono, è un po’ una città nella città, ma è anche quello che ci permette di capire quello di cui poi parlerà la serie. Il primo episodio si apre, appunto, con una visione dall’alto del Luna Park, il secondo si apre con una farfalla che è per certi versi sinonimo di libertà, in contrasto alla questione di Amilcare, ma poi mostra comunque pezzi di giostre, il terzo nel silenzio e nei rumori di casa mostra l’interno dell’abitazione, il quarto si apre con immagini di repertorio che mostrano comunque un paesaggio. Tutto richiama un po’ la dinamicità degli spostamenti che ha dovuto compiere questa famiglia, ma anche l’accoglienza e il cambiamento di una città che li ha cambiati e che è stata cambiata in qualche modo. C’è in generale un’attenzione a un gioco, un’attrazione piuttosto che alla natura che può essere visto anche in chiave metaforica.

Sì, è assolutamente corretto. È proprio un abitare uno spazio che è solo apparentemente identico al nostro, ma è filtrato da un punto di vista che è diverso proprio perché è di chi vive maggiormente l’aperto (loro dicono la strada).

Per quanto riguarda l’idea di aprire le puntate con delle immagini metaforiche era anche una necessità per dare un segno di maggiore personalità a questo racconto, non volevo che diventasse un documentario con un linguaggio troppo classico, un po’ patinato. Volevo che ci fosse un segno che lo potesse distinguere proprio perché la storia che viene raccontata è particolare, si porta dietro elementi che dialogano bene con le metafore, con il mondo surreale e quindi ho voluto divertirmi anche con il linguaggio del cinema.

Effettivamente I re del Luna Park non è il classico documentario. Al di là della storia, che è molto interessante, sono curiosi anche questi aspetti più metaforici che, in qualche modo, fanno parte di loro perché ci sono spesso delle associazioni con le giostre, cioè ogni personaggio è rappresentato e si identifica con una giostra.

Esatto. A proposito di questo devo dire che purtroppo non c’è stato modo di inserire tante cose che sono rimaste ai margini, ma un aspetto che secondo me è molto interessante, e che credo comunque venga fuori, è anche l’animismo che c’è in questo mondo. L’associazione che Giulio fa della sua famiglia a ogni singola giostra è reale. Ogni dritto si sente la propria giostra, c’è un rapporto con l’attrazione che è un rapporto filiale, addirittura alcuni ci parlano con le giostre perché non sono solo oggetti, non sono solo proprietà, ma sono il frutto del loro lavoro, della loro esistenza. Dalla loro giostra dipende il loro futuro anche in termini economici e di appartenenza a una tradizione. Poi c’è anche da dire che sono proprietà che hanno un costo elevato e portarli in giro o averli è veramente come costruire una famiglia.

I temi della docuserie

Tra le tante tematiche della docuserie c’è anche quella del potere, al quale si fa riferimento in tutti e quattro gli episodi. Da una parte c’è per esempio Amilcare che in qualche modo brama il potere (capisce che in alcune situazioni salva gli altri e pensa di essere più forte di chiunque e non si ferma), dall’altra c’è la visione di Giulio. È come se ci venisse mostrata una strada e due modi diversi di percorrerla. Nonostante i pochi episodi sei riuscito a raccontare una cosa da più punti di vista, un po’ perché sono tanti loro un po’ perché ci sono i due lati della medaglia.

Mi verrebbe da dire che il potere è anche un potere delirante che deriva da una necessità di riscatto, che è un po’ la parabola soprattutto di Amilcare e quella che ha rischiato di essere dello stesso Giulio, che poi per fortuna è stato salvato. Una cosa che mi preme dire è che quello che viene raccontato, per quanto possa essere manipolabile dal linguaggio cinematografico, è tutto reale.

marco pellegrino

Quello del potere è un tema che hai analizzato correttamente ed è la base di quello che è accaduto in questa famiglia. Non so se le stesse dinamiche sono presenti in altre famiglie dritti pugliesi o del sud Italia. La parabola di Amilcare è quella di un ragazzo che è stato investito di un potere di natura patriarcale: lui, in quanto primogenito maschio deve preparare un futuro da reggente nel momento in cui si rende conto che il linguaggio della strada è un linguaggio fatto di prevaricazioni tra pizzo, ritorsioni, roghi di giostre, di attrazioni. A un certo punto lui ha iniziato ad apprendere quel linguaggio, a farlo suo, non solo per un discorso di difesa, ma anche perché si sentiva tagliato fuori. Poi qua c’è anche una componente quasi attoriale in un personaggio del genere. Lo dice anche come battuta Vlado: Si è guardato troppe volte Scarface. Sono convinto che un certo umore derivato da alcuni film visti in tv l’abbiano in qualche modo condizionato al punto da voler restituire questo a suo modo, con l’abilità di un dritto, con l’abilità di un attore nato.

Questa è una componente che sento molto in Amilcare, anche dopo averlo conosciuto, e in parte direi che la sento anche in una veste più bonaria e più nobile in Giulio, che è riuscito a sfogare tutto questo nel suo talento d’attore che non è un talento coltivato in accademia. La prima volta che l’ho conosciuto e gli ho chiesto da che accademia venisse lui mi ha risposto Vengo dalle giostre. E credo che nel giocare, nel recitare, c’è anche un po’ l’eco di questo gioco del potere, di posizionarsi in un certo modo di fronte agli altri. Osservandoli ho capito che c’è un modo, un linguaggio muto, diverso, sotterraneo, che è fatto proprio di un’esperienza di strada, basata sul doversi difendere, dover usare altri sensi per sopravvivere, per non farsi calpestare dagli altri.

Buoni e cattivi secondo Marco Pellegrino

Se vogliamo tornare all’impianto più favolistico Amilcare può essere considerato quasi come il cattivo della storia. A tal proposito ho apprezzato molto la scelta che hai fatto di cambiare completamente nell’ultimo episodio, come se fosse diverso dagli altri. C’è Amilcare al centro e c’è il potere che lui racconta, ma che si trasforma in perdono. Giulio, che fino a quel momento è stato il protagonista assoluto, è come se sparisse per mettere al centro l’altra versione e farla raccontare anche a lui. Un ultimo episodio che diventa una riflessione e mostra il modo di reagire di tutta la famiglia.

Sì, ma per me è una scelta obbligata perché ho proprio un approccio particolare col tema del cattivo, nel senso che i cattivi nelle storie sono funzionali ad alimentare il conflitto e i contrasti spingendo i personaggi a risolvere dei problemi e quindi a raggiungere il loro obiettivo. In questo caso Amilcare è cattivo perché rappresenta un conflitto nel passato di Giulio, però, a suo modo, è stato anche un capro espiatorio di una realtà collettiva, quella dei dritti, in questo caso dei dritti pugliesi (perché non si può fare di tutta l’erba un fascio).

Comunque dietro le situazioni malvage e dietro la sua negligenza c’è anche un principio di altruismo, almeno all’inizio. Poi si è completamente disperso ed era necessario restituire anche i suoi rimorsi, la sua malinconia verso un passato che poteva andare in un altro modo.

Il motivo per il quale Giulio a un certo punto sparisce in quarta puntata era anche un po’ voluto dal fatto che Amilcare in fondo è il Giulio che potrebbe essere stato se avesse scelto di continuare a essere come suo zio. Quindi in qualche modo Amilcare è anche Giulio in quarta puntata, solo che alla fine Giulio è stato più fortunato o semplicemente più intelligente.

marco pellegrino

Forse il quarto episodio è quello più impegnativo anche per lo spettatore. Si arriva a mettere in dubbio tutto quello che è stato raccontato nei primi tre episodi. Gli stessi personaggi si interrogano su quello che è successo, sul futuro e si insinua il dubbio su chi sono davvero i dritti. E a questa segue una riflessione sull’oggi, sul fatto che non si va più al Luna Park, c’è un momento di smarrimento fino a quando torna Giulio.

Sì, è praticamente uno sliding door, l’abbiamo sempre pensato così Amilcare. Conoscendoli meglio sono due persone completamente diverse però in Giulio quell’anima lì resta anche come un sottile senso di colpa che lui dichiara anche di avere a seguito della prima popolarità conseguente al suo film. Per fortuna il percorso del presente e del futuro di Giulio ha preso un’altra strada, però in Amilcare io vedo un po’ di Giulio, o meglio vedo quello che poteva diventare Giulio nell’avere assorbito così tanto di quelle dinamiche e di quelle regole.

La musica

Un elemento imprescindibile in questa storia, tanto da diventarne quasi un protagonista, è la musica. Vieni da esperienze nel campo della musica che qui metti in pratica alla perfezione. Sembra quasi che la musica accompagni e faccia parlare i personaggi, è una musica avvolgente che va di pari passo con quello che viene mostrato. In alcuni momenti è una musica stile thriller, in altri è più allegra.

Mi trovo d’accordo con questa analisi e soprattutto mi rende felice perché la vivo come una conferma di alcune idee che avevo e che ho avuto con Giorgio Lolito (che insieme a me ha lavorato alla musica). In realtà tutto è nato in questo modo: in questi anni che ho trascorso in Puglia con la famiglia di Giulio spesso mi portavo dietro qualche synth, computer, la chitarra e buttavo giù delle idee che non sapevo dove sarebbero andate a finire ma mi dicevo che potevano essere utili per questo documentario. Quando abbiamo iniziato a montare le puntate ho chiesto alla produzione di essere affiancato da un compositore per recuperare quelle idee che avevo buttato di getto, ma anche per accompagnare le immagini in maniera cinematografica.

L’idea iniziale che mi era stata proposta era di recuperare materiale da una library, di comporre in questo modo tutta la partitura e poi nel caso vedere alla fine se aggiustare delle cose, ma mi sono rifiutato subito. Ero convinto che in questo caso bisognasse lavorare come si lavora su un film, quindi montare e poi fare un lavoro di vestizione musicale che crea una punteggiatura degli umori e che segue il montaggio. Alla fine sono stato ascoltato perché ho avuto degli interlocutori molto intelligenti ed è stato fatto tutto un lavoro di scrittura musicale a montaggio concluso (nel mondo televisivo è una cosa che non si fa quasi mai). Per I re del Luna Park mi sono impuntato che dovevamo scrivere una musica originale proprio per quell’idea un po’ maniacale di dare una personalità a questo racconto. Non volevo rendere, anche da un punto di vista formale, questo lavoro assimilabile a qualcosa di già visto nell’ambito documentaristico.

Alla fine io e Giorgio ci siamo divertiti, tra pianti e risate è stato tutto super fluido, non ci siamo mai interrotti, non abbiamo mai avuto nessun tipo di blocco. Forse ero un po’ preoccupato di lasciare dei vuoti visto che abbiamo inserito molta musica e questa cosa succede in quarta puntata con delle sequenze senza musica, ma motivate anche dalle articolazioni del racconto.

L’utilizzo è giusto e non risulta ridondante o pesante, anzi può essere vista come un collegamento all’ambiente in cui vivono e lavorano dove la musica è quasi onnipresente.

Sì, e poi la veste musicale che abbiamo scelto di aggiungere non è del tutto filologica nel senso che abbiamo cercato di dare un po’ più una direzione cinematografica. La musica del Luna Park oggi è la musica trap (negli anni ‘90 era Corona e techno-house). Qualcosa l’abbiamo inserito, però, considerando che è una musica esteticamente un po’ complicata da gestire su lunghi periodi, alla fine è stata un po’ addolcita.

E in questo senso devo dire che l’ambizione mia e di Giulio è quella veramente di completare questo ciclo di tre passaggi: romanzo, docuserie e poi un film? O, nel caso, anche una serie tv chiaramente di natura fiction nel senso di usare attori. Quello che comunque secondo me resterà de I re del Luna Park è una traccia di realtà e di poesia. Intanto c’è un interesse da parte di alcune case di produzione rispetto a questa cosa. Per il momento vediamo un po’ come andrà la docuserie per capire se effettivamente ci sarà la possibilità di mettere in piedi il tutto. Le prime cose che io e Giulio abbiamo scritto prima del film, del romanzo e del documentario erano dei soggetti (dieci pagine di film). Poi ci siamo resi conto che questa voglia e questa urgenza di scrivere doveva essere sfogata in qualcosa di immediato e il romanzo è diventato il primo posto dove ci siamo sentiti a nostro agio.

Marco Pellegrino e Giulio Beranek a lavoro per un terzo capitolo?

Dopo aver visto la docuserie sono veramente curiosa di vedere un terzo capitolo, a maggior ragione se in chiave fiction, sia per ritrovare personaggi e dinamiche sia per osservare le tue scelte stilistiche in questo genere.

Ci sarà molto realismo magico. In generale ci stanno scrivendo in tantissimi, anche persone note ma che non conosciamo direttamente e tutti la stanno accogliendo come una cosa diversa. E la cosa che mi fa piacere, al di là del fatto che l’accoglienza è positiva, è che la stanno vivendo come una ventata di freschezza, una cosa finalmente diversa. Penso sia importante perché il mondo del documentario deve vivere anche di storie non conosciute, cioè non famose e purtroppo stiamo vivendo una fase in cui è difficile mettere in piedi o farsi produrre storie di questo tipo. Per questo la cosa che mi sta veramente dando soddisfazione è il fatto che la gente dica finalmente qualcosa di diverso. Spero che sia un modo anche per iniziare un percorso un po’ più coraggioso in questo mondo.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

I re del Luna Park

  • Anno: 2024
  • Durata: 4 episodi di 45'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Marco Pellegrino
  • Data di uscita: 30-November-2024

Vuoi mettere in gioco le tue competenze di marketing e data analysis? Il tuo momento è adesso!
Candidati per entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi Drivers