Il 2024 è stato un anno di grande cinema. Dopo una contrazione che lo ha visto indietreggiare durante la pandemia e lentamente recuperare nel 2023, il 2024 – finalmente – lo riporta in vetta, segnando la ripresa delle imponenti produzioni cinematografiche, l’audacia di storie senza tempo e la realizzazione di pellicole in grado di scuotere lo spettatore affrontando, in maniera inedita e originale, temi necessari della nostra epoca. Il 2024 ha riacceso la curiosità nel pubblico che è tornato, volentieri, in sala, attivando un passaparola che ha fatto bene al big screen e che ha generato un riscontro economico positivo che fa ben sperare per il 2025.
Non è stato facile stilare un elenco dei migliori film del 2024. Inoltre, cosa significa migliore? Per Taxidrivers i lungometraggi che seguono rappresentano quelli che per completezza espressiva, ma anche per intrattenimento e partecipazione diffusi ci hanno emozionati e hanno rinvigorito la passione che nutriamo nei confronti del cinema. Pertanto, ecco la lista dei migliori film del 2024 per Taxidrivers, con il desiderio che il 2025 si riveli ancora più sorprendente (Diletta Ciociano).
Editing articolo: Sandra Orlando.
I migliori film del 2024
Perfect Days di Wim Wenders
Le “giornate perfette” di Hirayama (Koji Yakusho, premiato alla 76ma edizione del Festival di Cannes per la miglior interpretazione maschile) si dividono tra il lavoro di inserviente nei bagni pubblici di Tokyo e piccoli rituali quotidiani. Dalla cura mattutina delle piante domestiche alle foto scattate agli alberi durante la pausa pranzo, dalle canzoni di Lou Reed, Janis Joplin, Patti Smith e Nina Simone ascoltate andando a lavoro, alle pagine di Faulkner e Patricia Highsmith lette prima di addormentarsi.
Non la felicità, probabilmente, ma la serenità di un uomo che ha saputo abitare la propria solitudine eliminando (o quasi) il passato e il futuro dall’equazione. Una pace flebile, fragile, aperta ad accogliere l’imprevisto (una partita a tris tra le mattonelle del bagno, l’arrivo di una nipote, i giochi infantili con un uomo malato terminale) ma condannata a incrinarsi pericolosamente quando questo sfugge al controllo. Il sorriso è sempre a qualche passo dalle lacrime, del resto, in Perfect Days, ma è proprio su quel confine sottile, su quell’equilibrio delicatissimo tra felicità e sofferenza, luce e ombra, che si gioca il senso stesso del film.
A quasi quarant’anni da Tokyo-Ga il regista Wim Wenders torna ancora una volta sulle tracce del cinema di Ozu trovando un curioso equilibrio tra sensibilità orientale e occidentale. La chiave ideale per entrare in quel mondo dove “un’altra volta è un’altra volta” e “adesso è adesso”.
Mattia Caruso
La zona di interesse di Jonathan Glazer
Gran Premio Speciale della Giuria alla 76ma edizione del Festival di Cannes e Oscar come miglior film straniero, La Zona di Interesse è un film che ha lasciato decisamente il segno in quest’anno cinematografico. Jonathan Glazer confeziona una visione capace di dare un senso nuovo ad uno sguardo contemporaneo sempre più assuefatto ad immagini sovrabbondanti, ridondanti, prive di ‘verità’.
Ispirato dall’omonimo romanzo di Martin Amis, La Zona di Interesseci immerge nella aberrante cecità di Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante di Auschwitz, e di sua moglie Hedwig (Sandra Hüller): la casa a piani con il giardino, eden surrogato, costruita accanto al campo di concentramento, è il loro idilliaco luogo in cui vivere e far crescere i propri 5 figli. Attaccata al loro sguardo, al loro olfatto, al loro udito, una nuvola di morte sovrasta e riempie quello ‘spazio bianco’, insieme alle urla, agli spari. La coabitazione è con l’orrore, in una alienazione assoluta.
Il prologo, la fine, i salti temporali efficacissimi e destabilizzanti (l’allora e l’adesso di ciò che a noi resta, nel quotidiano, di quella materia), la musica ‘nietzschiana’ della talentuosa Mica Levi, un’estetica profonda e compartimentalizzata, incorniciata da dieci telecamere fisse, gestite da remoto da cinque dispositivi di messa a fuoco, per riprendere le scene contemporaneamente da diversi spazi, destrutturano una narrazione che mantiene saldamente la sua altissima modernità e capacità espressiva. L’effetto di questa tecnica è evocaticamente potentissimo, subliminale ed inquietante nel renderci un offuscamento interiore ed esteriore: la perdita della propria umanità.
Maria Cera
Povere creature (Poor Things) di Yorgos Lanthimos
Leone d’oro al Festival di Venezia; Oscar come miglior attrice protagonista nonché per la miglior scenografia, il miglior trucco e i migliori costumi; vincitore di numerosi altri premi fra cui il Golden Globe, Povere creature del regista greco Yorgos Lanthimos (qui l’approfondimento di Taxidrivers) è stato sicuramente uno dei casi cinematografici dell’anno.
Il coming of age di Bella Baxter (Emma Stone), creatura generata dal dottor Godwin Baxter (William Dafoe) innestando nel corpo di una donna suicida il cervello del feto che portava in grembo, si sviluppa in atmosfere steampunk, dove abbondano numerose trovate visive, dalle mostruose creature fantastiche, chimere realizzate con il corpo di una specie e la testa di un’altra, a inquadrature grottesche e distorte mediante obiettivi fish-eye.
Tratto dal romanzo omonimo dello scrittore scozzese Alasdair Gray, Povere creature reca in sé numerosi altri riferimenti letterari e filosofici: dal “Frankenstein” di Mary Shelley alle teorie politiche, culturali e filosofiche dell’illuminismo e al “Candido” di Voltaire.
In una girandola di avvenimenti e situazioni assistiamo alla progressiva crescita intellettuale di Bella, donna adulta con il cervello di un bambino, che la porterà, grazie alle esperienze vissute nel suo grand tour attraverso il Mediterraneo, a emanciparsi come persona e, soprattutto, come donna. Scoprendo il sesso e utilizzando il proprio corpo per scardinare le diverse convenzioni sociali senza più tabu e ipocrisie.
Un film nel quale, oltre alla tematica femminista, si possono riscontrare numerosi altri argomenti su cui riflettere. Un’opera profonda e vitale che, piaccia o no, non può certo passare inosservata.
Marcello Perucca
Past Lives di Celine Song
Una storia di passato e presente, di identità, nostalgia e malinconia, rimpianti e accettazione.
Nora e Hae Sung, due amici d’infanzia profondamente legati, si separano quando la famiglia di Nora emigra dalla Corea del Sud. Due decenni dopo si ritrovano a New York. Vivranno una settimana cruciale in cui si confronteranno sul destino, l’amore e le scelte che segnano il corso della vita, in una storia d’amore moderna e struggente (Sinossi ufficiale del film).
Past Livesè un film d’amore, tenero e delicato. In cui l’altra e l’altro (irraggiungibili) si fanno parte introiettata del Sé. Per Nora soprattutto, che ha dovuto cambiare paese, lingua, cultura. Una parte sopita che riemerge poi con tutta l’intensità emotiva che si è voluta rimuovere.
Hae Sung è lo specchio di com’era Nora e di come sarebbe stata se non fosse partita; le restituisce un’immagine di se stessa che nel profondo non ha mai abbandonato. Na Young non esiste più, ma vive ancora nell’intimo e lui ha il potere di risvegliarla.
Apprezziamo ancora di più Past Lives se pensiamo che è il primo lungometraggio di Celine Song. Quanta sapienza nella costruzione delle scene, la cui simmetria è sicuramente studiata con accuratezza ma possiede il pregio della spontaneità!
Na Young e Hae Sung bambini, Nora e Hae Sung adulti si muovono sempre al centro di una coreografia che crea cornici perfette, sia a Seoul che a New York, in una valorizzazione puntuale dei corpi, degli sguardi, delle intese.
Il tono del racconto è sincero, nel contenere i sentimenti senza mai alzare la voce, senza pianti o melodrammi. Eppure, così struggente. Celine Song ha saputo gestire con invidiabile sicurezza una materia narrativa, tra l’altro, in parte autobiografica, romanzandola, e rendendola nello stesso tempo vera.
Utilizzando un’ efficace armonia tra dialoghi e silenzi, in cui la colonna sonora di Christopher Bear e Daniel Rossen s’inserisce in maniera toccante, discreta, suggestiva.
Una profonda riflessione sull’identità, sugli snodi esistenziali del passato e del presente.
Margherita Fratantonio
The Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne
Un Feel-Good Movie natalizio con un’impronta autoriale, quella di Alexander Payne, che ritorna all’ambientazione scolastica dopo Election, affilata satira al vetriolo sui vincenti durante uno scandalo elettorale. In The Holdovers, con meno astio e più malinconia, si allestisce invece la reclusione da festa comandata di un terzetto alquanto improbabile: il professore di civiltà antica Paul Hunham, ruvido e sarcastico, uno studente indisciplinato, Angus Tully, e Mary Lamb, cuoca afroamericana e mater dolorosa. Sono gli holdovers (quelli che sono trattenuti) del Natale 1970 alla Barton Academy, tradizionalista college del New England, dove ogni anno gli alunni che non possono ritornare in famiglia trascorrono le vacanze nell’istituto sotto la sorveglianza di un insegnante e l’assistenza di un inserviente. Ma holdovers significa anche residui, gli emarginati di una società elitaria, gerarchica e classista, come lo sono i protagonisti di questo film in bilico tra commedia intimista e dramma esistenziale, con uno sguardo, seppur lontano, al coming of age.
Alexander Payne ritorna alla cifra tematica della sua filmografia (solitudine pessimista, tenera inadeguatezza, scarmigliata marginalità) con un campionario di perdenti in cui traspare gradualmente umanità ed empatia, tra le frizioni scoppiettanti tra gli asociali Hunham e Tully e la resilienza della rassegnata ma non arresa Mary, dove solo nella comunanza di destino si può reperire un baluardo di salvezza, dove la condivisa cognizione del dolore significa afferrare improvvisamente la vita, propria e altrui. Niente di melenso e commiserevole però nell’approccio di Payne, che dona alla caratterizzazione dei personaggi rispettosa dignità, controbilanciando ogni guizzo di sentimentalismo sotto la scorza figurativa di un inverno gelido e innevato, di un frugale e intransigente isolamento, in cui però il regista distilla vellutata ironia e impalpabile fascino.
Aggirando il paragone impari con L’attimo fuggente (qui la cultura greco-romana subentra alla poesia romantica), The Holdovers ammalia nella sua profonda superficie come cinema vintage, con un mood stilistico degli anni Settanta, tra grafica dei titoli di testa, scelta dei piani, zoom all’indietro, fotografia simil-analogica, con una fauna umana obliqua e dirompente, che pare provenire dal cinema di Hal Ashby, Arthur Penn e Paul Mazursky e che respira una cappa di ghettizzazione e lutto con la guerra in Vietnam sempre incombente. Se poco brilla sul fronte dell’originalità (a tal punto che Payne si è liberamente ispirato a un film francese del 1935, Merlusse), The Holdovers si consegna però con autentica affabilità al suo pubblico, attraverso, appunto, lezioni di vita e grazie al contributo di infallibili interpreti, Paul Giamatti (vincitore del Golden Globe), l’esordiente Dominic Sessa (con il suo volto rétro) e la misurata Da’Vine Joy Randolph (Oscar da non protagonista).
Martina Volpato
Vermiglio di Maura Delpero
Fresco di candidatura ai Golden Globes e con la speranza di aggrapparsi agli ultimi 5 posti disponibili per gli Oscar, Vermiglio di Maura Delpero prosegue un viaggio iniziato nel migliore dei modi a Venezia con il Gran Premio della Giuria.
Un film quasi prevalentemente al femminile, partendo dalla regista stessa, dove tutto, anche i silenzi e le grandi distese innevate durante la Seconda Guerra Mondiale nel paesino trentino che dà il nome all’opera, sono da leggere in chiave metaforica. Se la guerra (sostantivo femminile) è la protagonista indiscussa della storia insieme alla famiglia Graziadei, è altrettanto vero che, nascondendosi e non facendosi mai vedere direttamente, il conflitto riesce a insinuarsi e creare problematiche e difficoltà a tutti coloro che sono rimasti a casa.
Vermiglio racconta l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale in una numerosa famiglia e di come l’arrivo di un soldato rompa completamente gli equilibri di un luogo isolato, soltanto ferito dalle conseguenze del conflitto. Conflitto che, nel resto del mondo, sembra finalmente estinguersi.
Una scoperta continua che va di pari passo con il susseguirsi delle stagioni, ma anche con l’infanzia e l’adolescenza e poi con l’innocenza e l’ignoranza. Il tempo, quasi congelato come lo spazio che circonda i protagonisti, sembra scorrere soltanto per i più piccoli e i più giovani che, con la spontaneità che li contraddistingue, scoprono e ci fanno scoprire il mondo, da vari punti di vista. Quei punti di vista che dovremmo sempre prendere in considerazione, anche oggi, per costruire un futuro migliore.
Veronica Ranocchi
Anora di Sean Baker
Anora è il film più ambizioso di Sean Baker, quello in cui riesce a mettere a punto una forma capace di farsi sentire senza togliere nulla all’umanesimo del racconto. A dimostrarlo sono le sequenze centrali girate nella villa di Ivan, quelle destinate a fare da cesura tra il prima e il dopo trasformando lo stile indie del regista in qualcosa di più classico, pensato per assecondare il cambio di passo in cui la commedia si colora di venature drammatiche.
Se la prima parte, – girata per lo più all’interno del Night -, presenta il Baker a cui siamo più abituati, con la macchina a spalla pronta a “documentare” la storia mescolandosi ai personaggi, quando si arriva dentro la casa degli sposi è come se Anora aprisse gli occhi sulla realtà del sogno che racconta. Le immagini perdono la frenesia iniziale diventando più composte. La mdp prende le distanze dai personaggi trasformando lo spazio nel proscenio di una piece teatrale in cui ad andare in scena è a suo modo una tragedia shakespeariana, con figli e genitori intenti a rimpallarsi le colpe di legami di sangue a cui non si può venire meno.
Baker divide quella porzione di racconto in tre atti separando la presa di coscienza dei personaggi dal conflitto che ne scaturisce, fino alla successiva alleanza tra le parti, per costruire una serie di immagini capaci di contenere al proprio interno azione e riflessione, movimento e stasi in una coreografia dove la performance dei corpi ha la stessa importanza di quella della parole.
Carlo Cerofolini
Il Ragazzo e l’Airone di Hayao Miyazaki
Ancora una volta Hayao Miyazaki ci conduce in mondi dipinti di assurdo, grottesco e inspiegabile. Il chiasmo narrativo è frutto del suo genio bambino contenuto nel corpo di un anziano saggio, che nel suo ultimo Il Ragazzo e l’Airone ha le sembianze dell’anziano prozio.
Il vecchio alter ego di Miyazaki spende le giornate arrovellato sugli equilibri delle forme di vita e nella ricerca di un erede, il che ricorda quanto il rinomato regista si sia torturato anni prima, annunciando il suo ritiro, e poi ritornando sui suoi passi. Il Ragazzo e l’Airone è un film che si è generato infatti a seguito di un annunciato ritiro, e che ha richiesto una lunga lavorazione, nato come una fenice dalle ceneri dei ripensamenti. Ma che, in ultimo, ha consacrato addirittura, e nuovamente, il proprio padre affettivo e di penna, al Premio Oscar.
L’airone del film è un goffo messaggero camuffato: mutevole, si offre come il simbolo dell’eleganza delle risaie dei panorami giapponesi quando è uccello, per poi smontarsi in fattezze grossolane, con un corpo pieno di buchi e tenuto insieme da tappi improvvisati quando è uno spirito antropomorfizzato.
In un continuum di citazioni al volo e all’aviazione, e alla presenza di un Miyazaki bambino, Mahito Maki, che affronta momenti critici della propria crescita e li supera solo grazie all’amore alla fantasia, in questo film si parla inoltre di nuove vite e di eredità. Al punto che il più coraggioso e pronto ad affrontare le sfide rimane il giovane uomo, supportato da quell’enigmatico airone, mentre il mondo di adulti si squaglia. Gli appassionati riconosceranno il volto di Yubaba, l’arpia che gestiva LaCittà Incantata, e dei suoi uccelli antropomorfi.
Quindi anche in quest’ultima opera summa per nulla anticipata, Miyazaki diventa un narratore per adulti e di adatto ai bambini non rimane che il tratto morbido e i colori vistosi tipici della sua arte pittorica. Sebbene pieno di spunti autobiografici, il film è tratto dal romanzo E voi come vivrete? di Genzaburō Yoshino, e riflette con ispirata maturità sulla relazione familiare, il tempo che scorre e l’infinità dei mondi che abitiamo.
Rita Andreetti
Giurato numero 2 di Clint Eastwood
Pare che Giurato numero 2 (Juror #2, 2024) sarà l’ultima regia di Clint Eastwood. Un conclusivo tassello filmico che va a suggellare una lunga filmografia, utilizzata per descrivere la sua America. Protagonisti di queste storie personaggi alle prese con laceranti conflitti (esterni e interiori), e dove l’aula di tribunale, luogo topico presente in differenti sue pellicole, diventa l’agone in cui si devono risolvere questi contrasti. Con una regia divenuta sempre più asciutta e limpida, tranne i flashback che si palesano a Justin Kemp (Nicholas Hoult) in maniera violenta e incombente, scopriamo che la giustizia (giuridica e divina) darà la sua punizione. Lo script di Jonathan Abrahams si adagia sui canonici e funzionali modelli del court movie, tra cui il paradigmatico La parola ai giurati (12 Angry Men, 1957) di Sidney Lumet, e così al dramma intrinseco del protagonista si abbina un variegato “coro” che rappresenta, con le proprie opinioni sul caso su cui devono decidere, le differenti visioni etniche e di ceto di questa America odierna rischiosamente legata a pregiudizi.
Roberto Baldassarre
The Substance di Coralie Farget
Caso dell’anno, ha avuto del coraggio la regista francese Coralie Farget, è innegabile, a sceneggiare e dirigere un film come The Substance: presentato in Concorso al 77° Festival di Cannes, il film è un grottesco, distopico, feroce bodyhorror con un finale grandguignolesco.
La regista ha colto nel segno, a giudicare dal successo ottenuto e altrettanto coraggio ha dimostrato la rediviva attrice statunitense Demi Moore , qui nel ruolo di una ex-star sulla via del tramonto, Elisabeth Sparkle, divenuta show-woman di un noto fitness televisivo per signore, che mostra, senza timori e con grande disinvoltura, i segni degli anni sul corpo nudo e sul viso (in parte, di certo, accentuati dal trucco).
Un film che ha scosso e ha aperto strade nuove, forse indugiando in modo eccessivo nel finale (e non solo) su spargimento di sangue, parti sensibili dei corpi femminili e violenza gratuita o annunciata. Ma il messaggio arriva forte e chiaro: la ridondanza e la mostruosità chiamano a raccolta le masse diseredate, i desideri repressi o negati, il divario con le giovani e spesso superficiali generazioni, il desiderio di apparire e mantenere i propri spazi nel mondo, l’affermazione del potere maschile, l’alterazione della natura, la rabbia cieca di non poter essere forever young.
Al fianco della Moore, nel ruolo della creatura da lei generata attraverso una permutazione settimanale (‘non c’è un tu e una lei’, recita la voce telefonica creatrice del magico medicamento, ‘siete sempre un’unità’), l’astro nascente Margaret Qualley, la bellissima e giovane Sue. Sue aspirerà ben presto ad abbandonare e uccidere la ‘madre’ (come nelle migliori tradizioni psicoanalitiche) per ottenere la piena autonomia e le più alte vette del successo nella medesima trasmissione (svecchiata e ringiovanita) condotta per anni dalla sua generatrice. Il prezzo da pagare, per entrambe, sarà altissimo, com’è spesso il prezzo che pagano le dive per mantenere un successo duraturo.
Un’’opera che può risultare complessa e finanche ostica, ma che ha riscosso un notevole successo di critica e pubblico.
Elisabetta Colla
Wicked di Jon M. Chu
Wicked prende spunto dall’omonimo musical di Winnie Holzman e Stephen Schwartz. Protagonista della pellicola una coppia inedita ed eccezionale, composta da CynthiaErivo e Ariana Grande, più che degne eredi delle interpreti originali di Broadway, Idina Menzel e Kristin Chenoweth (presenti in un delizioso cammeo).
Glinda la Buona (Grande) festeggia insieme ai suoi abitanti la dipartita di Elphaba (Erivo), strega dell’Ovest tanto temuta quanto crudele. Eppure, tanto tempo prima, le due hanno condiviso qualcosa in più di una semplice stanza nel dormitorio dell’Università di Shiz.
Nel corso della narrazione, attraverso il filtro del fantasy più puro e bello, emergono temi importanti e complessi, dalla rivalità che sfocia in amicizia alle insidie del dispotismo, dal senso di appartenenza all’accettazione di se stessi, dalla solitudine alla colpa, passando per l’eterno dilemma sul Bene e sul Male.
Insomma, si potrebbero scrivere almeno tre saggi sugli elementi che caratterizzano la nuova versione di Wicked, ed è l’aspetto più sorprendente del progetto, il cui obiettivo primario resta l’intrattenimento. E da tale punto di vista, ci si muove su un livello altissimo. La scrittura della Holzman, insieme al lavoro del paroliere Schwartz, sostiene un impianto pensato per il palcoscenico, adattandolo in maniera superba e straordinaria allo schermo. Il mezzo cinematografico consente evoluzioni che lasciano a bocca aperta e riempiono gli occhi di meraviglia, senza mai risultare ingombranti o posticci . Quando la magia ripaga tutte le attese.
A tre anni dall’uscita del suo primo capitolo, il viaggio messianico di Paul Atreides arriva al termine, con un kolossal fantascientifico da 122 milioni di dollari.
Come epocale è l’insieme di nomi ed artisti riuniti in quest’opera. Nel cast, ai già presenti Timothée Chalamet, Zendaya, Rebecca Ferguson e altri, si annoverano nuovi nomi di alta caratura, come Florence Pugh, Austin Butler ed un inaspettato Christopher Walken, assente da parecchio sul grande schermo.
Dirige la sinfonia visiva, per una seconda volta, il maestro Denis Villeneuve.
La casa degli Atreides è caduta. Gli Harkonnen si prendono il pianeta Arrakis, vittoriosi, ma la stirpe dei vinti non è ancora defunta. Paul Atreides (Timothée Chalamet) e sua madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson) riescono a fuggire e diventano parte della tribù dei Fremen.
Mentre il giovane impara le basi della sopravvivenza su Arrakis da Chani (Zendaya) e Stilgar (Javier Bardem), il suo desiderio di vendicare il padre e la casata non cenna a placarsi.
Con un’ispirazione a tratti kubrickiana, Villeneuve realizza sequenze oniriche e spirituali di rara bellezza, curate egregiamente in ogni elemento di atmosfera.
Il regista dà totale prova del suo estro registico, delineando ogni momento e situazione, dallo scontro politico o ai momenti di estasi mistica, con un’epica strabordante, vista raramente in questi ultimi anni.