Youth di Wang Bing è un film documentario composto da tre episodi, Spring, Hard Times e Homecoming, manifesto del regista cinese presentato nel biennio 2023-24 tra Cannes, Locarno e la Mostra del Cinema di Venezia. Il film è la seconda uscita dell’annata 2024 di Wang Bing, che ha presentato al Festival di Cannes anche il toccante Man in black.
Questo progetto non è solo un documentario che si spinge ai margini del reportage narrativo, ma è una iniziativa ricorrente della dialettica del regista cinese che fa della sua arte un progetto di denuncia sociale.

Una scena dal terzo episodio, ‘Youth (Homecoming)’
Youth di Wang Bing, la trama
Youth si compone dei capitoli Spring, Hard Times e Homecoming, ed è stato realizzato nell’arco di dieci anni tra riprese e lunghissima fase di montaggio. Le immagini sono state catturate tra il 2014 e il 2019 nelle fabbriche della città tessile di Zhili, nella ricca provincia di Zhejiang, nella Cina orientale. Il regista ha seguito i lavoratori dei vari laboratori tessili della città nelle loro lunghe e ripetitive giornate, segnando da una parte la monotonia e la ripetitività del loro lavoro; dall’altra i pericoli e l’assenza di tutele; e ancora, le battaglie contro i propri datori (sfruttatori) e anche numerosissimi scorci di vita, lontani dalle macchine da cucire. Ci sono i dormitori, i treni della speranza verso le città natale lontane, e anche colorati matrimoni sulle montagne dello Yunnan.
Il film è un prezioso e completo compendio della vita di un moderno proletariato nella Cina della trasformazione economica, e si propone come un seguito naturale alla precedente produzione del 2016, Bitter Money, girata tra l’altro nei medesimi luoghi.

Wang Bing e la dialettica dell’osservazione
Wang Bing si è chiaramente affermato negli ultimi quindici anni della sua carriera come la più attendibile sorgente di informazioni sulla Cina più nascosta. O per meglio dire, l’artista che meglio viene riconosciuto e accreditato per aprire le porte a questo universo così gelosamente nascosto. È la voce di un popolo senza voce o la forza di parlare, e la sua arte ha una presa strepitosa e una solida ricettività a livello internazionale.
Questa produzione non fa eccezione e il leitmotiv è il medesimo, sebbene ciascuno dei tre lunghissimi episodi si distingua per un fil rouge proprio: l’inizio e la fioritura, il gioco, di lavoratori giovanissimi costretti dietro le macchine da cucire; i momenti di crisi e le battaglie per un ambiente di lavoro più giusto; e poi il ritorno a casa, che ha più le sembianze di una fuga. O di una ritirata. E per alcuni non c’è una vera e propria casa a cui tornare, lavoratori disperati con prospettive ridottissime e speranze vanificate da padroni sfruttatori e polizia concussa.
Nella lunga documentazione offerta da Youth accade tutto quello che il diritto del lavoro ha combattuto: sfruttamento e condizioni disperate, ancora in essere in un luogo del mondo che vorrebbe guidare l’economia mondiale. Così Wang Bing ci costringe a riflettere attentamente sul sistema consumistico dell’industria dell’abbigliamento anche se, clemente, sul finire, ci tiene a sottolineare come la produzione ossessivo compulsiva di quei capi d’abbigliamento sia dedicata al mercato interno. Chi lo sa se è così, le maglie dell’industria del tessile cinese arrivano ovunque.
Ecco, il regista offre finalmente un luogo dove sfogarsi a questi operai sfruttati e per lo più dimenticati, senza che questi facciano nulla di “particolare”; se non fosse per quella unica confidenza disegnata al chiarore di un monitor che rivela un fatto storico per lo più taciuto. Una certa rivolta che risale al 2011 e scatenata da un tragico evento, di cui poco si conosce.

Una scena dal primo episodio, ‘Youth (Spring)’
Il cinema della persistenza
Wang Bing stenta a tagliare contenuti, ad applicare un montaggio che deformi la narrazione naturale della vita, come se questo potesse mancare di rispetto ai protagonisti e alle loro storie di ordinaria sofferenza. Assistere allo svolgersi naturale degli eventi è una forma di tutela che in un qualche modo il regista vuole garantire alla società di cui racconta. A partire dal suo celeberrimo esordio, West of the tracks, Wang Bing è un narratore lento e metodico, un paziente osservatore a cui si riconosce il merito di aver portato la Cina cruda e reale nelle case degli occidentali.
E così nuovamente, le storie dei protagonisti si raccontano nella straziante ripetizione dei movimenti e del contesto, un ambiente malsano in cui i gesti ricorrono schizofrenici e rapidi. Attendiamo in qualunque momento l’incidente, poiché tutto quell’equilibro è così prossimo alla catastrofe.
Nel cinema di lentissima osservazione, di cui Zavattini sarebbe stato estimatore, apprendiamo come lo svelamento avvenga per lenta sedimentazione. Per cui vale la pena di aspettare, tenacemente, non senza una sofferta visione, per poter fare breccia nel muro dell’invisibilità di questa umanità lontana.