Il 12 dicembre è una data significativa: infatti, costituisce assieme il compleanno e l’anniversario della morte di Ozu Yasujirō. Il regista giapponese è stato e continua a rappresentare un’enorme fonte di ispirazione per numerosi cineasti orientali e occidentali. Per citarne solo alcuni: Wim Wenders, Jim Jarmusch, Aki Kaurismäki, Hou Hsiao-hsien e Kore-eda Hirokazu.
Con l’intento di celebrare il Maestro e di renderlo noto ad un pubblico più ampio, in questo articolo tratteremo solo alcune opere appartenenti alla fittissima filmografia di Ozu, provando a individuarne i tratti stilistici tipici.
Brevi accenni della vita di Ozu
Innanzitutto, chi è stato Ozu Yasujirō?
Nato a Tokyo, ma cresciuto in un paese di campagna, egli manifesta fin dalla tenera età un carattere irrequieto e una precoce tendenza all’alcool. Ben presto Ozu scopre il mondo cinematografico, da cui rimane profondamente colpito, rendendolo poi la propria passione. La sua vita è ordinaria, simile a quella che conducono i personaggi dei suoi film.
Negli anni Venti inizia a lavorare presso una casa di produzione e scrive gag per film comici. Con La spada della penitenza (1927), suo primo e ultimo jidai-geki (dramma storico), Ozu approda alla regia. Tra il ’27 e il ’30 il regista realizza numerosi film, oggi per lo più andati persi. Essi appartengono a diversi generi: film di studenti, erotico-grotteschi, film sulla gente comune, commedie, drammi criminali. È ben evidente l’influenza americana, soprattutto il riferimento alla slapstick comedy.
Una scena di Il coro di Tokyo (1931)
Durante gli anni Trenta Ozu diventa un regista molto apprezzato e noto, girando per lo più film sulla gente comune, prediligendo tematiche famigliari (nello specifico il rapporto padre-figlio). Inoltre, egli mostra le dure condizioni di vita legate alla crisi del Giappone. In questi anni la stilistica dell’autore diventa sempre più raffinata e costituirà la base per tutte le opere successive.
Tornato dalla Cina occupata, dove era stato spedito a combattere nel 1937, negli anni Quaranta Ozu viene spinto a realizzare film di stampo più patriottico. Realizzerà così Fratelli e sorelle della famiglia Toda e C’era un padre. In questi anni si accentua uno stile che progressivamente elimina il lessico e l’artificio della tecnica, a favore di uno sfoltimento degli elementi. Negli anni Cinquanta egli ritornerà a trattare storie famigliari, ora intese come entità a sé stanti, quasi indipendenti dalla società circostante: in questo modo, è in grado di abbracciare una dimensione universale.
Ozu Yasujirō muore a Tokyo nel 1963 e ora riposa nel tempio di Engaku-ji (Kita Kamakura).
Peculiarità stilistiche ricorrenti
Prima di prendere in considerazione un caso specifico, proviamo ora a evidenziare alcuni elementi frequenti.
Innanzitutto, se consideriamo la struttura narrativa, le opere del regista costituiscono un vero e proprio percorso verso un’armonia (wa), concetto fondamentale per i giapponesi. Infatti, all’inizio gli eventi presentati possiedono un apparente ordine, messo poi in crisi da un disequilibrio provocato da un conflitto tra parti. Ciò verrà risolto da una comprensione bilaterale delle ragioni dell’altro. Fondamentale, poi, è ricordare che per i personaggi dei film di Ozu è più importante il concetto di volere per l’altro piuttosto che di volere per sé.
L’armonia ricercata è ulteriormente potenziata grazie all’utilizzo di pose parallele e di movimenti all’unisono da parte dei personaggi, ma anche da un vestiario simile (come in Ohayō). Il comune sentire dei protagonisti è anche un comune agire, rafforzando l’idea di wa.
Minoru e Isamu in una scena di Ohayō
Tipica dei film di Ozu è poi la posizione bassa della macchina da presa, ad altezza tatami (il pavimento delle case giapponesi). Spesso questo comporta a eludere dall’inquadratura le parti superiori dei soggetti ripresi, soprattutto se prossimi alla cinepresa. Inizialmente questa scelta deriva dalla volontà di rappresentare il punto di vista dei bambini, soggetti prediletti del primo Ozu. Essa è anche legata all’abitudine dei giapponesi di sedersi sui tatami. Tuttavia, questo espediente permette anche di teatralizzare e ritualizzare la scena, nonché di restituire il punto di vista dello spettatore cinematografico e teatrale, che si colloca in basso rispetto allo schermo o al palcoscenico.
Tornando alla teatralizzazione della scena, Ozu posiziona la macchina da presa in modo tale da rendere lo spazio scenico alla pari di quinte teatrali. Ciò avviene grazie alla sapiente abilità del regista di sfruttare gli interni giapponesi, giocando con una certa geometria generata dalle linee dei tatami e degli shoji e da numerosi oggetti dai motivi geometrici. Gli shoji, alternati tra aperti e chiusi, l’uso di spazi adiacenti e il posizionamento degli oggetti risaltano la profondità di campo e creano effetti di quadro nel quadro. Attraverso ciò, si rimarca il carattere fittizio del cinema.
Altre caratteristiche dello stile di Ozu
Inusuale per l’epoca è il modo in cui Ozu filma le conversazioni. Infatti, il cinema classico comporterebbe la presenza di campi-controcampi, con gli accordi di sguardi. Egli sceglie, invece, di posizionare la cinepresa frontalmente rispetto a chi parla e di mantenere una certa distanza con il soggetto ripreso. In questo modo, oltre ad anticipare di molti anni le scelte stilistiche proprie di un certo cinema della modernità (ricordiamo Jean-Luc Godard) e, quindi, interpellando direttamente lo spettatore, i personaggi parlano l’uno come l’altro: si richiama così nuovamente il carattere armonico delle opere del regista.
Nei film di Ozu si trovano svariate inquadrature che raffigurano panni stesi. Essi suggeriscono un’idea di quotidianità, semplicità e ordinarietà dei piccoli gesti.
Infine, tra i numerosi tratti frequenti vi è la presenza di campi vuoti, che spesso fungono da transizione tra scene. Infatti, non solo sono utilizzati per introdurre il luogo in cui si svolgono le vicende, ma costituiscono delle vere e proprie immagini-sentimento. In questo modo, essi possiedono la capacità di prolungare nel tempo le emozioni dei personaggi. Non a caso, spesso questi inserti sono posizionati appena dopo una scena drammatica, facendo perdurare le sensazioni provate da un determinato soggetto. Con questo espediente, quindi, il sentire dei protagonisti della vicenda è condiviso anche dal pubblico, che non fatica a immedesimarsi in ciò che vede, grazie anche alla semplicità e vicinanza alle vicende trattate nei film.
Tarda Primavera (Banshun, 1949)
Con Tarda Primavera ci avviamo verso l’ultimo periodo della carriera cinematografica di Ozu. Egli ha ormai affinato una stilistica che prevede un’economia formale, la ripetizione di storie simili, la collaborazione assidua con lo sceneggiatore Noda Kōgo e con la stessa equipe di attori.
Il film costituisce il punto di partenza per la realizzazione di Tardo Autunno, ma soprattutto sarà il modello per Il gusto del sakè, che costituisce il testamento artistico del regista ed è una vera e propria variazione sul tema di Tarda Primavera.
La vicenda vede come protagonisti Shukichi (Ryū Chishū), professore vedovo, e la figlia Noriko (Hara Setsuko), che trascorrono felicemente le loro giornate insieme. Masa (Sugimura Haruko), la zia, vorrebbe maritare la nipote, essendo ormai una “tarda primavera”. Dopo una perplessità iniziale, Shukichi si rassegna e si convince che è la cosa giusta da fare. Cercando dei pretendenti per la figlia, però, intuisce che quest’ultima non ha alcuna intenzione di abbandonarlo. Spinto da Masa, Shukichi inventa uno stratagemma che possa convincere Noriko: egli fingerà di volersi risposare con una donna più giovane, avendo così chi badi a lui.
Ryū Chishū e Hara Setsuko in una scena del film
Innanzitutto, ancora una volta è presente il tema della famiglia, in particolare la disgregazione del nucleo famigliare. Nel corso della vita i rapporti umani si evolvono, mutano e spesso alcuni legami si affievoliscono. Questo è un avvenimento inevitabile, che è necessario comprendere e accettare.
Altra tematica affrontata è l’influenza americana presente nel Giappone del Dopoguerra. Nel film saranno presenti gag comiche che rimandano alla difficoltà dei cittadini a integrare questa nuova lingua e cultura. Nota è poi l’inquadratura che illustra il cartellone pubblicitario della Coca-Cola. L’argomento è anche utile per ragionare sul confronto tra tradizione (il Giappone anteguerra) e modernità (le novità occidentali), che influenzeranno gli usi e costumi del popolo nipponico.
In Tarda Primavera possiamo osservare i tratti tipici del regista: infatti, nelle riprese iniziali degli interni del tempio, dove si svolge la cerimonia del tè, la cinepresa è posta in basso e nello spazio adiacente rispetto a dove si svolge la scena principale. La posizione della macchina da presa, assieme a quella degli oggetti nello spazio scenico e all’accentuata profondità di campo, rimarca l’effetto di teatralizzazione e ritualizzazione percepito dal pubblico.
Come accade per gli altri film di Ozu, gli attori sembrano partecipare ad una sorta di cerimonia, i loro movimenti in qualche modo appaiono come dei balletti sapientemente coordinati e la recitazione è basata su un estremo minimalismo. Il volto rivela espressioni dai tratti che appaiono come predeterminati, facendolo apparire come una maschera universale. Frequenti, poi, sono le pose parallele e i movimenti all’unisono, che accentuano l’affinità tra i personaggi.
Evidente, poi, la scelta già citata di riprendere frontalmente le conversazioni tra personaggi, interpellando così lo spettatore. È interessante richiamare anche un’altra soluzione stilistica: Ozu, infatti, infrange ancora una volta le regole del cinema classico e attua molteplici scavalcamenti di campo. Così allora si interrompono la continuità spaziale e i raccordi di sguardo. Ciò non fa altro che ricordare al pubblico la finzione che appartiene al cinema, rendendo inoltre lo spazio un luogo astratto.
Ryū Chishū guarda verso la cinepresa
In Tarda Primavera emerge anche un’altra caratteristica propria dell’artista nipponico: la volontà di non mostrare gli eventi chiave che riguardano i protagonisti. Infatti, come noteremo più volte durante lo sviluppo del film, gli avvenimenti decisivi per alcuni personaggi vengono messi in ellissi: ad esempio il viaggio in treno di Noriko e il padre, oppure l’incontro con il futuro sposo della ragazza. Ciò deriva sicuramente dal minimalismo prediletto dal regista, ma implica anche la volontà non tanto di rappresentare l’evento in sé, bensì cosa esso significhi e come si ripercuota su alcuni individui, senza eludere una certa riservatezza e rispetto nei confronti dei personaggi. Questo è immediatamente riscontrabile nella scena del matrimonio di Noriko, mai mostrata al pubblico. Ozu preferisce mostrarci lo specchio vuoto presente nella sua stanza, dove una volta la ragazza si specchiava. La casa del padre, ora priva della presenza della figlia è restituita da campi vuoti, fino a giungere al finale struggente, dove la solitudine e l’amarezza fanno da padroni.
Conclusione
Nonostante un lasso di tempo notevole ci separa da Ozu, le sue opere risultano ancora fortemente attuali. La sua capacità di trattare temi quotidiani, restituendoli in maniera quasi universale e affrontandoli con grande delicatezza e potenza emotiva, risulta estremamente efficace. Lo spettatore è trasportato nel racconto in cui, in qualche modo, si sente coinvolto.
Oltre a ciò, i film del regista nipponico, con la loro semplicità, economia formale e la presenza di tempi dilatati, ci permettono di evadere temporaneamente dalla frenesia presente nelle nostra vite e di riscoprire gli antichi valori che si stanno ormai dissolvendo.
Se volete approfondire questo splendido artista, consigliamo la lettura di Il gusto del sakè. Ozu Yasujiro e il suo cinema di Dario Tomasi. Oltre a ripercorrere la carriera registica di Ozu, nel libro si esaminano a fondo le tematiche qua sinteticamente accennate. Un’appassionante lettura da non perdere.