Il Festival del Cinema di Porretta Terme è onorato di ospitare la premiazione della sesta edizione del Premio Nazionale Elio Petri. Il riconoscimento è dedicato a opere prime o seconde che si distinguono per la loro natura contemporanea, in cui è evidente, seppur non sempre in modo esplicito, l’eredità artistica di Petri. Queste opere affrontano tematiche di denuncia sociale e politica, in perfetta sintonia con il suo cinema, e si caratterizzano per un uso originale del linguaggio cinematografico.
Eraclio “Elio” Petri nasce il 29 gennaio 1929 a Roma in una famiglia di origini artigiane, in un quartiere operaio. Petri è figlio unico, educato da gente semplice che però gli insegna grandi valori. In un’intervista con Dacia Maraini alla fine della sua vita, Petri sostiene di aver preso dalla madre il lato affettivo, di aver tenuto il padre come modello sociale e di aver ereditato dalla nonna il suo rigore morale.
Manifesta fin da giovanissimo un interesse per politica e cinema, tanto da venire espulso, per ragioni politiche, dalla scuola religiosa di S. Giuseppe de Merode. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, prende forma la sua dedizione al Partito Comunista Italiano e parallelamente inizia a immergersi nel mondo del cinema. Petri comincia a collaborare con i primi cineclub e lavora come critico per le pubblicazioni l’Unità e Gioventù nuova. Negli anni Cinquanta è uno dei protagonisti della rivista Città aperta, per la quale scrive un saggio sul rinomato regista Elia Kazan. Nel 1956, in risposta all’invasione sovietica dell’Ungheria, Petri si unisce ad altri intellettuali, tra cui Alberto Asor Rosa, Natalino Sapegno ed Enzo Siciliano, per firmare il Manifesto dei 101. Il documento rappresentava una netta critica alla gestione politica di Palmiro Togliatti, il segretario del partito, riguardo a quegli eventi.
Apprendistato all’ombra di grandi maestri
Attraverso un amico, Petri conosce il regista Giuseppe De Santis, che gli chiede aiuto per realizzare Roma ore 11 (1952). Petri si occupa delle inchieste giornalistiche e della sceneggiatura, imparando dal maestro i primi trucchi del mestiere. L’anno dopo affianca De Santis nella regia e nella stesura della sceneggiatura di Un marito per Anna Zaccheo. Dal cineasta ladino Petri eredita la plasticità visiva delle sue opere, a volte definibile perfino espressionista, la forte tensione ideologica e l’intransigenza nel difendere stile e contenuti dei suoi film. Come sceneggiatore, collabora anche con noti registi come Carlo Lizzani per Il gobbo (1960) e Gianni Puccini per L’impiegato (1960).
L’assassino– il film d’esordio

Marcello Mastroianni in L’assassino
Nel 1961 Petri fece il suo esordio alla regia con L’assassino, un thriller psicologico in cui si distinse per la sua collaborazione con Marcello Mastroianni.
L’assassino mette immediatamente in evidenza un tipo di cinema profondamente connesso alla cronaca, sebbene si distolga da una semplice catalogazione degli eventi. Le influenze della Nouvelle Vague si manifestano chiaramente nelle immagini del regista romano, che all’epoca furono frequentemente paragonate a quelle di Truffaut. Il film si distingue per l’uso audace del flashback, i movimenti di macchina inusuali e il frequente ricorso allo zoom, insieme a toni ironici e a un umorismo nero che caratterizzano questo debutto.
Ciò che Petri mette in risalto va oltre l’intreccio thriller: emerge una rappresentazione di una classe borghese focalizzata sul desiderio di denaro e sesso. L’immoralità del protagonista non è l’unico aspetto messo in discussione, ma piuttosto l’intero sistema sociale che permette alla legge di calpestare i diritti del cittadino, il quale diventa schiavo del mito borghese. In questo primo film di Petri si possono scorgere chiari tratti di un fervore esistenziale, filtrati attraverso una narrazione che tenta di seguire “le regole del gioco”.
I giorni contati
La Nouvelle Vague e il Neorealismo, insieme alla profonda lezione dei maestri Rossellini e Antonioni, trovano espressione in un capolavoro poco noto del cinema italiano: I giorni contati (1962). In questo film, Salvo Randone interpreta Cesare, un stagnaro che, dopo essere stato testimone della morte di un uomo per infarto, inizia a interrogarsi sul senso della vita e decide di abbandonare il suo lavoro. Immerso in un’atmosfera che è al contempo concreta e metafisica, Cesare si confronta con un bilancio cupo della propria esistenza, avvertendo la fine imminente.
I toni esistenzialisti si intrecciano a un frustrante sentimento di solitudine, spingendo il protagonista a vagare tra i luoghi del suo passato e in spazi a lui inusuali. Recuperare il tempo perduto diventa per lui un’urgenza estrema, ma la sua evasività lo costringe ad arrendersi alla realtà che lo circonda, ritornando così al suo lavoro. Randone si rivela autorevole e convincente, dominando il film con un monologo quasi incessante che cattura l’attenzione e il cuore dello spettatore.
I giorni contati, tuttavia, non riscuote il successo sperato.
Il maestro di Vigevano
Nel 1963 Petri conquista il cuore del pubblico on una commedia dolceamara, tratta dal romanzo di Lucio Mastronardi: Il maestro di Vigevano.
Sceneggiato in collaborazione con l’inossidabile coppia Age e Scarpelli, Il maestro di Vigevano mette in scena Alberto Sordi nei panni di Mombelli, un uomo di lettere e umanista, ruolo da lui già interpretato in Totò e i Re di Roma. Il protagonista del film si trova a confrontarsi con le ridicolaggini del preside e le ambizioni imprenditoriali di sua moglie Ada, interpretata da un’improbabile Claire Bloom. Desideroso di tornare a una vita rustica per sfuggire alla frenesia della quotidianità, Mombelli deve comunque fare i conti con le sue responsabilità.
Questo terzo lungometraggio di Petri si ricollega a un’altra opera significativa degli anni ’60, Il boom (1963) di Vittorio De Sica. In questo film il desiderio consumistico che caratterizza l’epoca è messo in luce da chi non può permetterselo: c’è chi è disposto a perdere una fortuna e chi, invece, sacrifica il proprio ruolo di educatore a favore di guadagni economici e prestigio accresciuto.
Il maestro di Vigevano segna un momento cruciale nella carriera di Petri. In questo contesto, il regista esplora nuovi terreni narrativi e si accorge che il suo impulso polemico e sarcastico ha troppo poco spazio per farsi sentire.
Pur subendo l’overdose di comicità in un film dominato dalla presenza di Sordi, Petri riesce a colpire nel segno, costruendo così una “realtà” alternativa che gli servirà per dar vita a personaggi mediocri che costelleranno i suoi lavori successivi. La follia, che si fa sinonimo di grottesco, pervade il film attraverso la materializzazione dei sogni del misero insegnante, vittima di una scuola, una moglie, colleghi e della volgarità dei nuovi ricchi.
La decima vittima
Petri esplora il territorio della fantascienza ispirandosi ai B-movies di Antonio Margheriti con La decima vittima (1965), un adattamento del racconto di Robert Sheckley.
Questo film, il primo a colori per Petri, racconta con agilità e crudo realismo la storia di una caccia all’uomo concepita come un olocausto controllato dopo la quarta guerra mondiale, per evitare l’annientamento totale dell’umanità. Oltre alla chioma ossigenata di Marcello Mastroianni, il film presenta una scenografia mozzafiato, con ambientazioni che richiamano la pop-art e costumi futuristici indossati da Elsa Martinelli e Ursula Andress.
I temi della caccia all’uomo e della pace sociale su cui si basa un nuovo potere mondiale ricorrono spesso nel lavoro di Petri, rappresentando il conflitto tra l’individuale e il sociale. Sebbene La decima vittima presenti alcuni difetti, è un progetto ambizioso e singolare nel panorama del cinema italiano, meritando un apprezzamento maggiore di quanto ricevuto al momento della sua uscita. L’impatto visivo di quest’opera in technicolor ha spesso portato a leggerla come un inno al glamour e al design, ma in realtà Petri mira a criticare queste stesse realtà, il consumismo crescente e i desideri “all’americana”.
La decima vittima si presenta come una favola ricca di riferimenti contemporanei, più attuale di molte cronache o inchieste giornalistiche.
A ciascuno il suo
L’inquietudine intellettuale di Petri e il suo sguardo perspicace sugli intrighi del potere si combinano inevitabilmente con l’attitudine altrettanto amara e disincantata di Leonardo Sciascia. Il film A ciascuno il suo (1967), adattamento dell’omonimo romanzo dell’autore siciliano, racconta una storia intricata che mette in luce i legami tra mafia e potere. Questo lungometraggio segna l’inizio di due collaborazioni fondamentali per Petri: quella con l’attore Gian Maria Volonté e quella con lo sceneggiatore Ugo Pirro.
Il film presenta una trama intricata che si dipana lentamente, scena dopo scena, trasmettendo al pubblico una tensione sottile e palpabile, ben celata nei volti enigmatici dei personaggi siciliani e nell’uso del teleobiettivo. C’è sempre qualcuno che osserva, uno sguardo che penetra la superficie di un mondo a dir poco impenetrabile.
Petri mescola l’apatia di una “onorabile società” con una sensualità che si manifesta in atti furtivi, gesti erotici e abiti neri. In questo modo, Sciascia, Petri e Pirro intervengono sulla realtà italiana, non vista come un fenomeno storico isolato, ma come un elemento cruciale della dinamica socio-politica siciliana e italiana.
Nel film si fa evidente una chiara inclinazione verso un cinema d’impegno civile, che troverà la sua piena espressione nella “trilogia sulla nevrosi” degli anni settanta.
Un tranquillo posto di campagna
Un tranquillo posto di campagna (1968) si presenta come un esperimento cinematografico felice, quasi un naturale seguito del precedente La decima vittima.
Il film, abilmente oscillante tra sogno e realtà, si configura come un’allegoria sul ruolo dell’artista nella società contemporanea, rappresentando un uomo confuso, amareggiato e smarrito in una fitta nebbia di false credenze e ideali in frantumi. Le tele dipinte dal personaggio di Franco Nero e la pop art fungono da sfondo per questa narrazione, simboleggiando un disperato tentativo di tornare alla realtà ancorandosi agli oggetti.
Un tranquillo posto di campagna esplora, quindi, la complessità della personalità del pittore, rivelando in modo drammatico la morte dell’idea romantica di arte. Il film pone in luce la sua crisi personale e la perdita di fiducia nella rappresentazione del reale.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Gian Maria Volontè in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
Nel 1970, le sale cinematografiche italiane accolgono Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, il film di maggior successo di Elio Petri, insignito dell’Oscar per il Miglior Film Straniero e del Gran Prix della giuria al Festival di Cannes. Questo lavoro segna l’inizio di una trilogia della nevrosi, sviluppata in collaborazione con Ugo Pirro. L’atmosfera delle stragi, degli atti sovversivi, delle rivolte studentesche e, soprattutto, l’acutizzarsi delle tensioni politiche di quegli anni, costituiscono il cuore pulsante della pellicola.
La colonna sonora di Ennio Morricone, la fotografia di Luigi Kuilliver e il montaggio di Ruggero Mastroianni arricchiscono quello che è indubbiamente un capolavoro della cinematografia italiana, destinato a segnare un decennio difficile, caratterizzato da una lotta serrata tra le varie fazioni politiche, parlamentari ed extra-parlamentari. Il grottesco di Indagine si fonde con l’incubo e l’allucinazione, mentre il realismo si dissolve in una ragnatela mentale intrisa di angoscia. La legge è sfidata e infranta in nome di una possibile ristabilizzazione della “normalità”. A questa normalità si contrappone l’uomo di potere, colui che può cavarsela senza essere sospettato, e che deve indossare una maschera per sopportare il peso del suo ruolo. Venire smascherati, quindi, equivale a trovare la libertà.
L’ambiguità della maschera di Volonté, che interpreta il protagonista, riflette pulsioni contrastanti: da un lato, egli si compiace sadicamente di essere al di sopra della legge; dall’altro, desidera un rassicurante ritorno alla normalità, per liberarsi dal peso di una facciata insostenibile. La maschera, nel capolavoro di Petri si impone all’interno della narrazione come travestimento e simulazione.
La classe operaia va in paradiso
Il secondo capitolo della trilogia della nevrosi, La classe operaia va in paradiso (1971), rappresenta una svolta nel cinema italiano, essendo il primo film a esplorare in modo quasi antropologico le dinamiche e le gerarchie all’interno di una fabbrica. In questo ambiente, la catena di montaggio e il lavoro a cottimo riducono i corpi a una condizione di sofferenza, quasi fino alla mutilazione fisica, trasformando il manicomio nell’unica luce in fondo al tunnel. Lulù Massa, interpretato magistralmente da Gian Maria Volonté, è l’incarnazione dell’uomo-macchina: la sua vita ruota attorno alla fabbrica, il lavoro è il suo unico interesse, mentre la famiglia diventa un microcosmo di contorno e la casa si riduce a un semplice rifugio dove riposare davanti a un televisore. Questo moderno uomo-macchina ha smarrito il significato della vita; lavora non per nutrire l’anima, ma unicamente per soddisfare bisogni materiali e arrotondare lo stipendio.
Presentato in anteprima al festival del Cinema Libero di Porretta Terme, il film suscitò un acceso dibattito, con esponenti della sinistra che criticavano Petri per la sua posizione riformista e rinunciataria, proponendo addirittura di distruggere le copie della pellicola. Petri, dal canto suo, rispondeva che il pubblico si era avvicinato al film con un pregiudizio che veniva dall’estremismo politico dell’epoca. Tuttavia, la pellicola conquistò il riconoscimento al Festival di Cannes, dove vinse la Palma d’Oro ex-aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi.

La classe operaia va in paradiso di
Elio Petri
La proprietà non è più un furto
Il conflitto con la critica di sinistra, seguito dalla tensione con la Democrazia Cristiana, condurrà Petri a esprimere con amarezza il suo pensiero: “Forse è giunto il momento di non fare più cinema”.
Nelle opere che seguiranno, emerge una nuova propensione verso il teatro, a partire dall’ultimo film della trilogia sulla nevrosi: La proprietà non è più un furto (1973). Questo film sfida le convenzioni, risultando ostico e disturbante nella misura giusta; è una critica feroce al modello capitalistico occidentale e alle sue fondamenta, rappresentate dalle banche, dal denaro e dalla proprietà.
I volti del film appaiono provati, alterati, carichi di rabbia; facce finte e sudaticce emergono come silhouette da uno sfondo nero, e l’azione perde di verosimiglianza, così come i personaggi, che si trasformano in un gioco di maschere che sostituiscono un mondo privo di identità. Non c’è una continuità drammatica nel film, ma piuttosto una giustapposizione di situazioni che mette in pratica la “rinuncia all’azione” brechtiana. Le luci, volutamente “pop”, creano un effetto iperbolico che accompagna forme allucinatorie e grottesche; il naturale si frantuma per dare vita a una deformazione espressiva. Nella partita enigmatica tra i tre ladri, non si riscontra l’ordine opposto al disordine, né la legge contrapposta all’infrazione: manca un’opposizione duale tra bene e male. Si assiste piuttosto alla costruzione di una teatralità espressionista, con volti che, alterati nei loro contorni e nelle loro espressioni, diventano vere e proprie maschere.
La proprietà non è più un furto fu accolto negativamente dalla critica e dal pubblico, portando nuovamente alla proposta di distruggere la pellicola. L’indignazione di Petri fu profonda, alimentata dalla delusione per i continui attacchi ai suoi film e per le incomprensioni che suscitavano.
Todo Modo
Tre anni dopo, nel 1976, esce Todo Modo, un film ispirato ancora una volta a un’opera di Leonardo Sciascia. Con questo lavoro, Petri si prefigge un obiettivo chiaro: mettere in discussione la Democrazia Cristiana, accusata di aver ripristinato in Italia un modello capitalistico irrazionale e di aver riportato il paese a una forma di governo pre-fascista, caratterizzata da clientelismo e corruzione. Secondo Petri, la dirigenza democristiana degli ultimi trent’anni si presenta come una commedia dell’arte, popolata da personaggi ipocriti, subdoli e inadeguati.
Le somiglianze tra Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini e Todo Modo sono numerose; entrambi i film condividono un’ambientazione fredda e quasi meta-teatrale, un microcosmo astratto in cui i corpi si dissolvono. Ma a differenza di Pasolini, Petri evita forzature. I dilemmi razionali presenti in Todo Modo rimangono senza risposta, creando così un parallelo con la vita politica italiana degli anni ’60 e ’70, segnata da misteri irrisolti. Petri non enfatizza il recupero di un sentimento religioso né approfondisce il tema della corruzione; ciò che anima il film è l’odio verso la classe dirigente, presentato in un contesto apocalittico e grottesco.
Rilasciato durante il periodo del compromesso storico, il film sollevò serie questioni politiche, criticando aspramente l’avvicinamento tra il Partito Comunista Italiano (Pci) e la Democrazia Cristiana (Dc). Tuttavia, divenne un caso esplosivo, un tema decisamente intollerabile dal punto di vista politico, dopo l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978.
Le buone notizie
Le buone notizie (1979), conosciuto anche come La personalità della vittima, è un film che si presenta con una certa superficialità: alienato, ma non alienante, a tratti didascalico e poco chiaro. Petri costruisce la storia attorno a un piccolo borghese, interpretato da Giancarlo Giannini, che lavora in una società televisiva e trascorre la sua intera giornata davanti a sei televisori, che trasmettono i programmi previsti nelle sei ore successive. Questo uomo, afflitto dalla paura del buio, si limita a leggere un libro rimanendo sempre sulla stessa pagina. È convinto di non piacere alle donne e cerca conferme attraverso conversazioni morbose con una collega, mentre comunica con la giovane moglie attraverso parole volgari e brevi atti sessuali.
La trama, intrisa di minacce incomprensibili ma tangibili, trova il suo significato nella cornice rappresentata dalle “buone notizie” trasmesse dai televisori nell’ufficio del protagonista: blackout, omicidi di magistrati, disordini pubblici, decessi legati all’inquinamento, incertezze economiche e auto ferme per mancanza di benzina, tutti eventi che dipingono un quadro inquietante della realtà. Fuori dallo schermo si svela una Roma popolata da montagne di rifiuti, gente in conflitto e una generazione di giovani e anziani drogati. La violenza globale e l’assenza di confini anticipano un futuro sempre più globalizzato.
Questa satira grottesca sulla televisione e sul suo potere di condizionamento intellettuale e morale si muove tra realismo e metaforizzazione, spingendo al limite elementi già presenti in opere precedenti. L’aggressività formale è superficiale e offre un’interpretazione parziale e forzata dei problemi sollevati. L’opera risulta sarcastica e amara, riflettendo su una società dello spettacolo in cui la vita e la realtà vengono schiacciate dalla simulazione.
L’ultimo lavoro incompiuto: Chi illumina la notte
Chi illumina la notte rappresentava il progetto incompiuto del regista Elio Petri, chiuso prematuramente dalla sua morte. Rimane solo la sceneggiatura, ma prima di abbandonare questo mondo, Petri inviò a Giuseppe De Santis tre lettere “orali”, dettate al registratore, in cui ripercorreva alcuni momenti significativi della sua esistenza. In queste parole si delinea il suo manifesto intellettuale, una vita segnata dall’oppressivo fascismo della sua infanzia, dalla disillusione politica e da un panorama cinematografico italiano in declino, descritto come “un elefante castrato”. La solitudine che lo circondava lo opprimeva; i vecchi “compagni di strada” che sostenevano il suo cinema degli anni ’60, lo criticavano per la sua opera “reazionaria” degli anni ’70, gettandolo nello sconforto più profondo.
Petri non si dedicava al cinema politico, ma al “cinema del politico”, mettendo in scena le maschere della realtà politica e portando avanti un discorso che si allontanava da ogni simbolismo fisso, in un costante smarrimento di significato, influenzato dal disorientamento ideologico degli anni ’70.
Il destino ha voluto che Elio Petri morisse a 53 anni, la stessa età di Cesare, lo stagnaro de I giorni contati, un film che si è trasformato nel suo testamento artistico. La sua lucida inquietudine accompagnava un crescente senso di confusione e perdita di riferimenti, che colpivano non solo il Cinema, ma anche l’intera società italiana. Le maschere esasperate dei suoi film diventano uno strumento prezioso per svelare “gli scheletri nell’armadio” di personaggi moralmente discutibili. Paradossalmente, la maschera serve a Petri per rivelare la realtà sottostante, rendendola in forme espressionistiche e spigolose.