Vincitore del Gran Premio della Giuria allo Slamdance Film Festival L’incidente è l’esordio alla regia di Giuseppe Garau. Il Festival del cinema di Porretta Terme.dove il film è inserito nel concorso principale. Per l’occasione abbiamo conversato con il regista Giuseppe Garau.

Giuseppe Garau e il suo L’incidente
L’incidente ha vinto il premio della giuria allo Slamdance Film Festival, considerato da tutti come una versione radicale del Sundance. Per come funziona quel festival so che è molto difficile emergere.
Guarda, è stato tutto veramente assurdo. Quando ho mandato il film non avrei pensato di arrivare alla fine perché le regole sono allo stesso tempo estremamente democratiche e ultra selettive. Me ne accorgo ora che, come altri filmmaker che avevano partecipato al festival, sono diventato un programmatore. Innanzitutto c’è il divieto di votare qualcuno che conosci. Ognuno dei sedicimila film che arrivano ogni anno deve essere visto almeno una volta e se non prende dieci non ha nessuna chance di arrivare alla fase finale. Ho anche scoperto che non è retorica quando si parla di questo festival online come di una vera e propria comunità. Tramite loro ho conosciuto persone davvero importanti che mi chiedevano del film senza altri interessi che non fossero collegati al fatto che l’avevano visto e volevano conoscerne di più.
In effetti L’incidente, per immediatezza e urgenza espressiva, ricorda da vicino il cinema indie ancora lontano dalle lusinghe delle Major, quello forte di idee che riuscivano a supplire alla mancanza di budget. L’incidente è un film altrettanto libero e da questo riesce a trarre parte della propria forza.
Sì, infatti io lo definisco un film abbastanza punk proprio perché comunque è motivato da una forte urgenza espressiva. La sua potenza consiste, come dici tu, nel fatto di essere libero e immediato anche nelle sue imperfezioni.
Direi che sono anche quelle a renderlo affascinante.
Secondo me il problema è che quando fai un film con un processo industriale di sette/otto anni di gestazione, il film si perfeziona ma al tempo stesso perde qualcosa in termini di spontaneità. Facendolo in tre/quattro mesi succede esattamente il contrario e di questo lo spettatore se ne accorge. L’unica difficoltà è la disabitudine dello spettatore a vedere lungometraggi che raccontano la storia in maniera così diretta.
Si è poco abituati a vedere opere così poco filtrate da codici cinematografici e produttivi.
Esatto. È un aspetto che può venire apprezzato, com’è successo allo Slamdance ma comunque per me non è stata una cosa programmata. Era una necessità che poi è diventata un valore.

Il paradosso di partenza
La vicenda che racconta il film nasce da un evidente paradosso esistenziale, quello a cui dà vita Marcella dopo che un incidente stradale manda a pezzi la sua vita famigliare. La donna decide infatti di risollevare le proprie sorti comprando un carro attrezzi e iniziando a fare la soccorritrice. Dall’essere soccorsa decide di diventare quella che soccorre gli altri.
L’incidente è il momento in cui lei tocca il fondo in tutti i sensi, ma l’incontro con l’autista di carro attrezzi, è un colpo di fulmine perché Sara rappresenta tutto quello che Marcella non riesce a essere anche in termini di personalità. Di lei ammira il controllo che esercita sulle cose e il fatto che arriva sul posto e risolve tutto. Dopo averla conosciuta si convince che quella può essere una sfida adatta a lei anche se tutti le sconsigliano di compiere quel passo.
Al di là della contingenza dei fatti questo incipit allarga l’orizzonte del racconto portandolo su un piano esistenziale poiché il carro attrezzi rimanda alla volontà di Marcella di essere padrona delle proprie azioni.
Mi piace moltissimo come lettura. Di fatto è così anche nel senso più materiale del termine visto che a un certo punto entra in possesso di un telecomando che le permette di regolare le luci dei semafori cittadini. La tua è una considerazione che non era ancora venuta fuori nei vari scambi e la trovo molto molto interessante e stimolante.
Un romanzo di formazione?
Per come lo abbiamo raccontato L’incidente potrebbe essere una sorta di romanzo di formazione, con la protagonista che supera una serie di ostacoli per arrivare alla sequenza finale in cui si ribalta la situazione iniziale. In quella infatti Marcella soccorre i propri familiari portando a compimento il proprio percorso di consapevolezza.
Sì, nonostante ci sia questa doppia valenza di soccorrere la famiglia ma anche di rischiare di danneggiarla. Nell’arco narrativo legato alla trasformazione del personaggio l’immagine a cui sono più legato è quella dove lei ride in controluce. A me piace molto quel momento del film perché è l’unico in cui Marcella ride, felice di aver trovato finalmente il suo posto nel mondo seppur consapevole che per conservarlo dovrà comunque prevaricare e danneggiare gli altri.

In realtà la sequenza finale pur svolgendo una funzione catartica per le sorti del personaggio getta comunque dei dubbi sull’esito finale del suo percorso. Mi riferisco a quando la figlia dice alla madre che il gelato che le ha comprato fa schifo. Ciò equivale a dire che per Marcella i problemi non sono ancora finiti.
Io sono sempre molto affascinato dalle battute finali dei film di Billy Wilder perché in un’affermazione si può riuscire a trovare la sintesi totale tra dramma e commedia. Ovviamente il modello che ti ho citato è inarrivabile però l’ispirazione è quella. In realtà nella mia testa lei non torna insieme alla sua famiglia ma la sta solo riaccompagnando a casa. Anche se poi nel film si lascia anche l’ipotesi che hai detto tu. Però a quella battuta sono molto legato, perché è come se riportasse immediatamente al senso del film, al fatto che non c’è scampo, che non poteva andare diversamente.
Il punto di vista del film di Giuseppe Garau
Tutto il film è ripreso da un punto di vista interno al carro attrezzi mentre nella scena finale, seppur in campo lunghissimo, possiamo vedere il mezzo dall’esterno. Questo cambiamento formale può alludere anche a quello relativo all’esistenza della protagonista.
Mi piace che tu abbia notato questa grammatica. Per me il gioco della macchina da presa e quindi di quel cambio di inquadratura sta nel fatto che quando inizia il film noi siamo nel sedile posteriore perché quello accanto al guidatore è occupato dalla bambina. Quando la bambina va dal padre il posto si libera e noi spettatori insieme alla mdp siamo per la prima volta vicini a Marcella. È lo stesso motivo per cui quando la protagonista nel finale si ricongiunge con la sua famiglia, noi siamo costretti a scendere, lasciando andare Marcella per la propria strada. Non mi sarebbe mai piaciuto chiudere il film con ancora noi dentro. Volevo trovare qualcosa che facesse sentire la necessità di separarci dalla protagonista e l’ho trovato dentro di me per il fatto che sul mezzo non c’era più un posto libero per noi.
L’incidente parla di una donna incastrata all’interno delle situazioni. Così è la mdp “incastrata” all’interno del carro attrezzi. La posizione di quest’ultimo rimanda alla dimensione esistenziale della protagonista.
Sì, questo sì. Sono contento che l’hai notato. Ti dirò di più, il fatto che la messa a fuoco sia sempre all’altezza del volante evidenzia la dimensione claustrofobica della nostra condizione, segnalando che noi siamo sempre lì e non ne usciamo. Se fossimo usciti dal veicolo per seguire i personaggi sarebbe andato benissimo lo stesso però nella mia testa il nostro sguardo doveva restare lì bloccato con lei.

Giuseppe Garau e la parte più tecnica
Peraltro il fatto che il punto di vista del film sia all’interno del carro attrezzi rimanda a una dimensione interiore del racconto e dunque al subconscio della protagonista. Anche perché è vero che la realtà è ripresa quasi in presa diretta con stile documentario, ma, mano a mano che l’azione va avanti, il clima diventa sempre più surreale.
Entrando più nel tecnico l’uso del formato 16 mm crea molta più intimità con i personaggi proprio perché non è definito come il 35 mm ma neanche sgranato come il super 8. Insomma si produce una posizione di mezzo in cui siamo molto vicini a Marcella. Una cosa interessante ma che all’inizio non era voluta è che paradossalmente siamo sulle sue spalle. Qualcuno mi ha detto che è come se ci fosse un angelo o un diavolo che incombe sopra di lei perché questa intimità forzata può essere anche respingente. Passare un’ora dentro un veicolo accanto a un’altra persona senza poter mai scendere provoca qualche disagio.
Il 16 mm è quello originalmente usato per i filmati industriali e che in seguito per la maggiore maneggevolezza e il costo contenuto è diventato sempre più in voga nel cinema indie promosso dal Sundance. Uno dei primi a usarlo fu John Cassavetes in Ombre.
Si, proprio così. L’ha usato spesso Darren Aronofsky per parlare di autori più recenti. In realtà oggi come oggi il il 35mm e il digitale si possono scambiare nel senso che a volte anche il direttore della fotografia più esperto non riesce a distinguerli. Il 16 mm invece, per via delle imperfezioni della sua grana diventa quasi un linguaggio a sé, quasi un’astrazione, e comunque è già un filtro sulla realtà per cui i registi lo usano per veicolare anche un certo tipo di sensazioni.
L’imperfezione del formato equivale a quella della realtà di Marcella e di chi le sta attorno.
L’incidente è un film molto minimale e anche la pellicola di per se lo è. Quando si gira in digitale si può decidere di fare tantissime scelte, anche applicare dei look sul monitor per vedere già che tipo di atmosfera si vuole creare. Con la pellicola invece c’è poco da fare, il look rimane sempre quello a meno che tu non intervenga con la color. Aggiungo che il film è stato girato senza monitor, quindi noi non vedevamo nulla di quello che giravamo fino al momento in cui la pellicola veniva sviluppata. Il fatto che gli attori non potevano riguardarsi è stato un altro elemento da cinema d’altri tempi.

Distanza e solitudine
Prima parlavi del doppio livello creato dalla presenza del finestrino. Un altro effetto che ha quest’ultimo è quello di produrre una distanza tra Marcella e gli altri palesando una solitudine tipica del mondo contemporaneo.
All’interno delle nostre auto ci si sente in qualche modo spersonalizzati. I nostri comportamenti dentro l’abitacolo sono diversi da quelli che abbiamo quando siamo fuori. Un personaggio dice che il clacson è lo specchio dell’anima ed è vero perché per esempio lo suoni quando sei nervoso. A quel punto diventa un’estensione della nostra personalità. Poi sicuramente il finestrino crea questo senso di solitudine e di separazione a cui facevi cenno. D’altronde il discorso della messa a fuoco serviva proprio a enfatizzare il senso di isolamento vissuto da Marcella. Quando lei si allontana la sua figura si sfoca proprio perché lei esce da quella che è la sua dimensione.
In qualche modo questo fa il paio con ciò che racconta la parte centrale del film, quella in cui Marcella rischia di perdere la propria anima per inseguire un sogno che la fa diventare rapace con il prossimo. Un passaggio che tu rappresenti con un nonsense tragicomico e surreale.
La verità è che quando sei con le spalle al muro, come succede a molti lavoratori, sei disposto anche a prevaricare gli altri per tirarti fuori dal guado. Poi la magia del cinema fa sì che anche quando lo fa Marcella comunque continuiamo a tifare per lei. A creare la dimensione tragicomica concorre anche Giulia Mazzarino che in molte espressioni, e per esempio quando usa il telecomando per controllare i semafori, a me fa molto ridere. Tieni conto che molte di quelle sono state improvvisate da lei.
Un trattato sulle nevrosi dell’uomo contemporaneo
Gli incontri della protagonista con gli altri personaggi danno vita a una serie di scenette davvero esilaranti, quasi tutte giocate sulla faccia degli attori e sul loro linguaggio del corpo. Nell’insieme si potrebbe parlare di un piccolo trattato sulle nevrosi dell’uomo contemporaneo.
Inizialmente la primissima stesura era quasi esclusivamente drammatica, poi rileggendola ho trovato noioso che si prendesse così tanto sul serio. Così da un certo punto in poi ho iniziato a inserire delle cose che mi facevano ridere e che hanno dato vita a un tipo di comicità inedita per l’Italia. Ad ispirarmi non è stata tanto l’ironia di Aki Kaurismäki, quanto il fatto che nelle sue prime opere, anch’esse della durata di 60-70 minuti, per risparmiare pellicola scriveva questi dialoghi in modo che gli attori non avessero espressione. Quando ho buttato giù questi dialoghi ho pensato di girarli in quel modo, con degli scambi di battute molto netti. Però poi, quando ho iniziato a lavorare con gli attori, ho messo in discussione questa cosa perché ho visto che non funzionava. Noi siamo un popolo mediterraneo, abbiamo la nostra espressività per cui ho iniziato a farli recitare normalmente nonostante il testo sia rimasto con questi dialoghi estremamente secchi e minimali. Da qui il contrasto tra un testo se vuoi anche un po’ nordico nella sua espressione e un’interpretazione pregna del vigore delle nostre latitudini.

L’effetto è davvero molto divertente provocando risate diverse da quelle suscitate dalla commedia mainstream. L’incidente al suo interno è composto da micro racconti in cui si nascondono perle di una cinefilia che a me ha ricordato anche le comiche del cinema muto e per esempio un film come Il monello di Charlie Chaplin. In fondo il telecomando per Marcella è come il bambino per Charlot: le serve per riparare i danni che lei stessa ha provocato.
In effetti questo collegamento esiste. La cosa assurda però è che questa cosa a Torino la fanno per davvero perché quando ho avuto un incidente mi sono trovato circondato da carri attrezzi. Ho scoperto che, come Marcella, anche quei soccorritori lasciavano questi bigliettini all’incrocio delle strade o davanti ai negozi. Ma ti dirò di più, in realtà la ricompensa a chi segnala loro un incidente è di 250 euro e non di 50 come capita nel film. Ma il cortocircuito anche più divertente è che quando abbiamo girato la scena dell’incidente più grave in cui abbiamo ribaltato un paio di auto, continuavano ad arrivare carro attrezzi veri sul set perché c’era qualcuno che li chiamava. È stata una situazione surreale ma divertentissima.
Musiche e interpretazioni nel film di Giuseppe Garau
Nel racconto della storia la musica è come se andasse in controtendenza ai fatti che capitano a Marcella: mentre quelli sono drammatici le musiche tendono quasi a diminuirne il livello di realismo trasportandoci in una dimensione vicina al sogno, soprattutto nelle scene notturne.
Mi fa piacere che tu l’abbia notato. La musica è arrivata dopo in montaggio. Da regista non mi piace molto usare la musica per suggerire le emozioni che il pubblico dovrebbe provare. Dapprima avevo optato per musiche un po’ tradizionali poi ho scoperto un’artista islandese che si chiama Hekla, che suona il Theremin. Non so come, ma ho iniziato a provare i suoi brani sul film sentendo che portavano la storia in una dimensione altra nonostante non sapessi cosa dicevano i testi. La cosa assurda è che poi durante una proiezione in Ucraina sono venuto a sapere che nella scena in cui Marcella saluta la figlia prima di separarsi il testo della canzone racconta una scena simile.

Nel ruolo di Marcella Giulia Mazzarino è bravissima nel recitare un ruolo da cinema muto. Le espressioni della sua faccia, intellegibili eppure così esplicative, e le posture del corpo costruite su una rigidità che diventa incomunicabilità esistenziale danno vita a una grande performance.
Posso dirti una cosa incredibile di Giulia Mazzarino e cioè che lei non ha provato nulla. Giulia è arrivata da un impegno teatrale il giorno prima di girare. Abbiamo fatto una lettura del copione, dopodiché lei ha iniziato a recitare sequenze lunghe anche due o tre pagine. Considera che lei è sempre in scena come in un videogioco in cui uno dopo l’altro arrivano gli avversari. Con Anna Coppola, che interpreta colei che gli vende il carro attrezzi, in un giorno hanno girato tutte le scene. Le hanno provate per la prima volta un quarto d’ora prima. Erano tutte scene lunghissime, girate di fila, con pochi tentativi a disposizione perché comunque con la pellicola potevamo farne cinque, sei massimo.
Giulia dice che per Marcella si è ispirata molto alla mia personalità però io credo che ci sia molto di lei dentro il suo personaggio. In generale come regista è stato bellissimo vedere tutti questi attori e attrici che arrivavano e che davano vita ai personaggi quasi in diretta, con la mdp che diventava testimone oculare di questi incontri. Il fatto che Giulia come Marcella incontrasse per la prima volta gli altri interpreti ha aggiunto verità al film. Comunque Giulia conto di averla anche nel film che sto scrivendo, in cui i tram di Torino figureranno come elementi del film.
In quanto tempo l’hai girato?
In due settimane, da lunedì al venerdì.
Il film è il 12 dicembre al Porretta Film Festival. Oltre a quello dove sarà possibile vederlo?
Abbiamo trovato una piccola casa di distribuzione che si chiama Flickmates. Assieme a loro abbiamo iniziato un tour che durerà fino a maggio, giugno. Nel sito della Flickmates appariranno luoghi e date delle prossime proiezioni.
Il cinema di Giuseppe Garau
Parliamo del cinema che ti piace.
Per quello italiano dico Vittorio De Sica e Elio Petri, quello americano Billy Wilder. Poi mi vengono in mente Kaurismaki e Chantal Ackerman per il suo discorso sulla dilatazione del tempo cinematografico. In generale amo i film che presentano uno sguardo radicale e molto personale con una scelta formale forte.