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Disney+ Film

‘Sugarcane’: nei meandri della mostruosità sepolta

Su Disney Plus il documentario che indaga abusi e occultamenti nei collegi residenziali per indigeni in Canada

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A partire dal 1894, in Canada, centinaia di migliaia di bambini indigeni sono stati costretti a frequentare degli appositi collegi a loro dedicati, istituiti dal governo e in gran parte gestiti dalla Chiesa cattolica. Nei decenni, le denunce di abusi e sparizioni sospette in questi luoghi si sono moltiplicate, ma sono rimaste del tutto inascoltate. Nell’inquietante silenzio che le circondava, le stesse popolazioni indigene canadesi (le cosiddette Prime Nazioni) hanno allora deciso di avviare le loro ricerche personali, finendo per scoperchiare uno sconvolgente vaso di Pandora.

È questo l’incipit del nuovo documentario targato National Geographic, diretto da Emily Kassie e Julian Brave NoiseCat, vincitori per la regia all’ultimo Sundance Film Festival. Arrivato in Italia direttamente in streaming su Disney Plus, il film si inserisce in una storia troppo poco nota, seguendo le ricerche della popolazione Secwépemc nell’oscuro passato della St. Joseph Indian Residential School, all’interno della Riserva Sugarcane nella Columbia Britannica.

Lo sterminio tacito

Il documentario affronta con esaustiva integrità una storia incredibilmente ignorata per tanti anni, quella di un vero e proprio genocidio moderno, subdolo e spietato nella sua costante estensione cronologica per più di un secolo. Un tentativo di annientamento etnico che mostra già superficialmente una serie di angoscianti punti di contatto con il dramma dell’Olocausto. Il sistema dei collegi canadesi ricalca sottotraccia quello dei campi di concentramento: giovani ragazzi forzatamente internati, i cui nomi sono sostituiti dalla barbarica de-umanizzazione di numeri identificativi: lo strumento dell’inceneritore, utilizzato come fucina della morte per liberarsi delle presenze ritenute problematiche e l’insabbiamento costante delle prove sull’inesistenza valoriale assegnata alla vita indigena. Un lavoro archeologico di impattante gradualità, che riesuma gli orrori abbandonati dai clericali-gerarchi nel sottosuolo dell’oblio.

La narrazione degli eventi incastra alla perfezione l’inchiesta condotta da Charlene Belleau e Whitney Spearing con il punto di vista personale di alcuni sopravvissuti, ricavandone una dimensione complessa e stratificata. La sottigliezza della crudeltà umana viene resa così in una rappresentazione che rifugge dal banalizzante e schematico manicheismo, opponendosi alla polarizzazione semplicista e dicotomica tra innocenti e colpevoli. Grazie alle testimonianze raccolte emerge un quadro articolato, in cui i fattori compositivi sono plurimi e ramificati nella frammentazione fisiologica delle responsabilità comuni. La disumanità dei carnefici risulta condannata dalla placida ordinarietà con cui si manifesta, ripugnante ma che amaramente non sorprende, nonché sospinta sostanzialmente dalla connivenza dell’omertà sociale e dell’abbandono genitoriale. Elementi di fomentazione del dolore, che sicuramente non giustificano né attenuano le atrocità dello sterminio, ma non possono essere tralasciati nel bilancio ricostruttivo che il film si propone di completare.

L’anima collettiva di una nazione cancellata

L’analisi investigativa sui fatti si interseca quindi in modo inscindibile con la sofferenza del popolo Secwépemc. Già dopo pochi minuti Sugarcane ci trasporta nel microcosmo culturale della riserva, grazie al susseguirsi di immagini evocative, tra danze tradizionali e rodei durante il pawwow, tipico raduno celebrativo. La dimostrazione visiva di come le comunità di questo genere continuino a coltivare la propria identità più radicata, lottando costantemente per non scomparire, affossate nel baratro del colonialismo.

Pur non esplicitandolo totalmente, il film fa intendere come l’occupazione abusiva ultrasecolare dei territori nordamericani sia di fatto la base di tutto. Un processo di sostituzione etnica spesso assimilato ai più estesi Stati Uniti, ma che in realtà riguarda profondamente anche il Canada. Gli invasori europei, di cui la Chiesa cattolica è un degno rappresentante, identificano il primo tassello del domino violento che ha portato fino al sistema dei collegi nello scorso secolo, concatenato come una tappa purtroppo inevitabile nella lotta silente per il possesso di un’intera nazione.

Con la sua struttura, il documentario non si propone però di scavare nelle origini del tentativo di cancellazione collettiva, bensì vuole riflettere sulle sue conseguenze più attuali. Il rischio di un’operazione di questo tipo è quello presente in ogni narrazione che affronta i risultati delle devastazioni razziali: la ri-traumatizzazione costante. Tuttavia, la scelta ricade su una linea meno scontata e decisamente più intuitiva, riflesso perfetto dell’attitudine dei protagonisti. L’obiettivo non è infatti mai quello di generare compassione nello spettatore attraverso una spinta all’impossibile e pretestuosa immedesimazione (quanto meno per noi europei), decidendo invece di addentrarsi nei meandri della memoria collettiva, riesumandone i lati laceranti per favorire la consapevolezza e la metabolizzazione. Per questo motivo si decide di non dare vero spazio al punto di vista ecclesiastico, oltre al fatto che i pochi preti del collegio rimasti in vita non sembrano inclini a parlare. Non si tratta quindi di imbastire un processo mediatico ai colpevoli, ma di mostrare il modo in cui le vittime inascoltate provano a ritrovare l’anima che è stata loro strappata.

Tutto ciò senza ricadere nell’estremismo agiografico, ma mantenendo uno sguardo imparziale sulla risposta umana al trauma, incarnata ad esempio dagli incendi dolosi alle chiese del Paese subito dopo le scoperte aberranti. Attraverso diverse prospettive indigene sull’argomento e mantenendo saggiamente separato il concetto di religione dagli umani detentori del potere spirituale, il film ci dona tutti i mezzi per comprendere il sentimento comunitario, senza giudicarlo o forzarne la condivisione.

Al contempo, però, si svela come la riconciliazione degli autoctoni con lo Stato e la Chiesa passi inevitabilmente dal dialogo costruttivo e dall’azione di riparazione che dovrebbe partire dalle stesse istituzioni. E qui subentra il vero ostacolo. Le alte sfere del potere si limitano alle parole, ammettendo la propria responsabilità, ma senza fare nulla per cercare di colmare il divario persistente. Le parole del primo ministro Justin Trudeau si disperdono nella mera formalità, così come le scuse di Papa Francesco, che liquidano rapidamente la questione. Soprattutto queste ultime si coprono di ipocrisia quando scopriamo che, nonostante le richieste di restituzione, i manufatti indigeni rubati in passato dalla Chiesa restano bloccati dietro le teche dei Musei Vaticani.

All’apice della forma documentaristica

Anche dal punto di vista puramente cinematografico, Sugarcane trova la formula più efficace e completa per raccontarsi. Il montaggio di Maya Daisy Hawke e Nathan Punwar unisce le sfere documentali e intimiste con dilaniante tempismo, amalgamando con coerenza le brucianti certezze del presente e l’illusoria apparenza del passato, rappresentata dalle immagini di repertorio tratte dal documentario The eyes of children, prodotto nel 1962 dalla CBC. Il film trova così la giusta chiave per non scadere nel languido voyeurismo e nella sterile strumentalizzazione, tipici della maggior parte dei prodotti true crime contemporanei, permeando la propria cronaca di un sommo e dovuto rispetto.

Grande merito è altresì da riconoscere alla scelta registica di affiancare alla più esperta Emily Kassie uno dei protagonisti degli eventi, Julian Brave NoiseCat, introducendo un’ efficace visione interna data dalla storia di Ed Archie, uno dei bambini sopravvissuti agli stermini della St. Joseph School. Un appunto di grande onestà intellettuale, già visto quest’anno nel toccante Daughters, documentario Netflix su un progetto di paternità nel carcere di Washington, che in regia vede Chad Morris insieme all’attivista promotrice della stessa iniziativa Angela Patton. Un incrocio concettuale tra due film, accomunati dal risultato eccezionale e che, con ogni probabilità, si contenderanno il primato annuale nel genere durante la prossima stagione dei premi.

Sugarcane è in ogni caso un film necessario, inserendosi prepotentemente tra le grandi produzioni che negli ultimi anni danno sempre più voce a una minoranza spesso dimenticata (non a caso in produzione c’è Lily Gladstone, principale attrice nativa americana della scena attuale). Una pellicola di enorme acume, che evita l’aggressiva imputazione alla Chiesa della sua evidente barbarie, per condurre alla riflessione sulle sorti del popolo costretto a raccogliere gli strazianti cocci di un’insopportabile eredità. Perché solo prendendo atto della verità si possono trovare gli stimoli e gli strumenti per fare in modo che l’abominio del passato non possa più ripetersi. Ed è forse questo il modo migliore per raggiungere il significato più profondo di giustizia.

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Sugarcane

  • Anno: 2024
  • Durata: 107 minuti
  • Distribuzione: National Geographic
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Canada, Stati Uniti
  • Regia: Emily Kassie, Julian Brave NoiseCat
  • Data di uscita: 10-December-2024