«Ciò che guida la dimensione della realizzazione dei miei film è sempre una traccia fortemente emotiva, emozionale».
Si potrebbe partire dai numeri per cercare di dare una misura alla carriera, per certi versi straordinaria, di Giorgio Diritti. Il suo film d’esordio, Il vento fa il suo giro, ha ricevuto, nel 2008, ben cinque candidature ai David di Donatello (fra cui Miglior film, Miglior regista esordiente, Miglior produttore e Miglior sceneggiatura) e quattro candidature ai Nastri d’argento. Il film inoltre è diventato un “caso nazionale”, restando in programmazione al Cinema Mexico di Milano per più di un anno e mezzo. L’uomo che verrà, presentato nel 2009 al Festival Internazionale del Film di Roma, ha vinto il Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio D’argento, il Premio Marc’Aurelio D’oro del Pubblico e il Premio “La Meglio Gioventù”. Ha ricevuto poi, nel 2010, il premio come Miglior film e Miglior produttore ai David di Donatello e il Nastro d’argento come Miglior produttore e Migliore scenografia. Volevo nascondermi, presentato al Festival del Cinema di Berlino, con Elio Germano vincitore dell’Orso d’argento come migliore attore, ha ottenuto quindici candidature ai David di Donatello 2021, vincendone sette, tra cui Miglior regia e Miglior Film.
Il suo cinema è quasi una catarsi, fatta di suggestioni, realtà indipendenti e rivoluzionarie. Uno sguardo sul diverso e sulla certezza assoluta che la propria identità sia l’elemento imprescindibile nella realizzazione di un film, come lui stesso racconta in questa intervista.
Ha esordito con il film Il vento fa il suo giro nel 2005, e questo film indipendente l’ha poi trascinata in una maniera incredibile nel mondo del cinema. É partito da un film piccolo e ha raggiunto così il successo. Ricordando i suoi trascorsi e pensando ai giovani esordienti, che consigli darebbe loro?
Bisogna avere determinazione e originalità nell’ambito delle proposte. É necessario mantenere forte la propria dimensione di identità, senza scimmiottare le cose già fatte da altri. È importante cercare di mantenere un proprio punto di vista, un sguardo narrativo, un’identità. Questa mi sembra una delle cose fondamentali. Difendere le proprie convinzioni non vuol dire sicuramente non riuscire a dialogare con le persone con cui si lavora, come ad esempio con un produttore, ma è necessario restare ben fermi sulle proprie convinzioni soprattutto se sono importanti per la storia, per il film e si è convinti di ciò. È importante riuscire a non cadere in quella situazione in cui poi le cose non funzionano o sono diverse da come le avevi immaginate solo perché hai accettato una cosa che non ti corrispondeva.»
Nei suoi film ha raccontato storie e personaggi sempre diversi: mi vengono in mente il pittore e scultore Ligabue, l’artista di strada nel film Lubo e la piccola Martina de L’uomo che verrà. Da sempre lei ha uno sguardo sul mondo che la circonda, e lo osserva con attenzione senza mai giudicarlo. Cosa deve avere una storia per essere raccontata e quanto è difficile questo lavoro di analisi così lucida sul mondo?
«Il lavoro di analisi, per rispondere al tuo ultimo quesito, è una cosa che avviene durante il percorso. Parte da uno spunto iniziale che io considero interessante perché ha dei riflessi molto contemporanei. Possono anche essere storie del passato che però ci raccontano l’oggi. É importante riconoscere quello che è fondamentale raccontare, quali sono gli elementi e le cose che hanno un significato forte per dare una continuità a quella sensazione di un tempo rapportata al quotidiano di oggi. C’è un lavoro di trasposizione, ma soprattutto una forte dimensione emotiva. Ecco, ciò che guida la dimensione della realizzazione dei miei film è sempre una traccia fortemente emotiva, emozionale. Quello che, nella lettura di un libro, nella fotografia di un uomo o in un’intervista mi colpisce, io lo trasformo, lo elaboro, lo utilizzo per andare a trasferire la stessa emozione che ho ricevuto. Il discorso segue un po’ questa traccia, ma è tutto molto più complesso perché poi in un film ci sono tantissime variabili. Ma parte tutto da quell’emozione iniziale che si costruisce pian piano attraverso incontri, interviste, letture: tutti elementi che poi si amalgamano per ottenere il risultato finale.»
Ho visto che la diversità, quindi l’essere straniero è un po’ la caratteristica dei suoi personaggi. Perché?
«Probabilmente perché è un punto di attenzione che viene da esperienze anche personali, ma che è anche lo stato psicologico in cui ognuno di noi si sente in certi momenti, perché siamo tutti diversi. Magari non ci sentiamo adeguati o siamo in difficoltà. Anche chi sembra esuberante sicuramente ha dentro una parte di insicurezza e forse quell’esuberanza è dettata da un’insicurezza ancora più radicata. Credo che ci sia da un lato l’universalità di questa sensazione che si trasferisce ed è presente in ogni essere umano; dall’altro invece, entrando un po’ nelle storie dei film che racconto, l’attenzione verso la diversità o verso certe situazioni diventa necessaria. Raccontare le storie di personaggi considerati marginali come Ligabue diventa l’occasione per dare voce e una possibilità di riscatto a quelle persone che non si sentono adeguate. Allo stesso modo, lo sguardo di Martina nel film L’uomo che verrà, è sì la dimensione della scoperta della brutalità della violenza e della guerra, ma è al contempo anche la capacità di assumersi la responsabilità del futuro, prendersi carico delle cose più difficili per avere un futuro migliore per tutti. Questa cifra è presente un po’ in tutti i miei film. Anche nel viaggio di ricerca di Jasmine Trinca in Amazonia, nel film Un giorno devi andare, si respira questa dimensione di marginalità, che poi è quella che lei vive nella sua solitudine, nella sua difficoltà.»
Tornando al film Il vento fa il suo giro e soprattutto in riferimento a un film che nasce indipendente e poi si inserisce nel circuito del mainstream, cosa è cambiato tra il suo esordio e quello che è il cinema adesso?
«Beh, diciamo che è cambiata molto la fruizione perché allora le piattaforme erano una cosa quasi inesistente. Sì, c’era già questo circuito ma non era ancora un vero e proprio mercato. Di conseguenza la sala era tutto, e aveva un peso specifico diverso sia nella distribuzione che nei risultati d’incasso. Questo è uno degli elementi base e, da un lato, ha favorito anche quello che è stato poi il cammino de Il vento fa il suo giro. Oggi si può anche vivere questo tipo di percorso, ma bisogna tenere presente l’ipotesi delle piattaforme su cui alla fine spesso anche film che non hanno fortuna o sono poco conosciuti ottengono uno spazio di visibilità e, comunque, arrivano al pubblico. Quindi, per rispondere alla tua domanda, direi che è un po’ cambiato il mondo del cinema per queste ragioni.»
Da sempre ha uno stretto rapporto con il Porretta Film Festival. Tra l’altro ha appena ricevuto un premio in questa ultima edizione.
«Porretta è un festival attento ai nuovi attori ma anche ai film particolari, ha una sua storia importante. Fa parte di quel circuito di sale e di festival che sono poi il pilastro per l’uscita di opere magari prime e seconde dove si trova un pubblico attento, intelligente, sensibile. C’è una direzione molto ben curata sia dal punto di vista organizzativo che qualitativo. Il direttore, Luca Elmi, è una persona di particolare sensibilità. Questa è un po’ la sensazione che ho di questo festival. Oltre a un ricordo affettivo anche forte che poi mi lega a quelle zone, in relazione anche al film L‘uomo che verrà.»
Lei segue la scia dei grandi e da sempre cerca di alzare la sua visione di cineasta. Fa un po’ fatica a scendere a compromessi per mantenersi indipendente nello sguardo. È una mia impressione o c’è del vero in questa mia affermazione?
«Diciamo che spesso non seguo la strada più comoda perché credo che sia importante seguire la strada che si sente primaria, ovvero fondamentale per quello che si vuole raccontare. È più che altro una specie di esigenza che uno sente, un desiderio, una voglia, una determinazione. E questi elementi poi si fondono su un dato progetto. Quindi, sulla base di questo, capita anche di dover lottare per anni, di andare incontro a tanti no magari o, in altri casi, di trovare subito una risposta positiva. Per il mio lavoro è fondamentale essere coerente con questo tipo di approccio, e avere una convinzione vera di quello che faccio.»
Ritornando a Il Vento fa il suo giro, il titolo si rifà ad proverbio secondo cui “tutto ritorna”. É ancora convinto del fatto che tutto torni?
«In un certo senso sì. Il Vento fa il suo giro si rifà proprio al proverbio che dice che ogni cosa prima o poi ritorna, ed è così. Nell’ambito della dimensione della vita spesso c’è una ciclicità che fa parte, forse anche in senso astronomico, dell’alternarsi. L’avvicendarsi del giorno e della notte, così come nell’ambito delle nostre dimensioni, delle valutazioni, delle scelte; c’è una ciclicità che ritorna. E, all’interno di essa, cerchiamo di capire quale sia la strada giusta da percorrere. Poi, nell’ambito del film Il vento fa il suo giro, il discorso è più concentrato su una dimensione in cui il forestiero non viene accettato e questa cosa avviene ripetutamente nel tempo.»
C’è una storia che non ha ancora raccontato ma vorrebbe farlo e tiene chiusa nel cassetto?
«Ce ne sono alcune: sono storie affascinanti ma impossibili da raccontare per la complessità e i costi che ne derivano. Una figura che mi ha colpito molto e mi piacerebbe raccontare è Matilde di Canossa perché è la storia di una donna che visse in epoca medievale acquistando un grande potere. Ma, allo stesso tempo, è una figura legata alla spiritualità, è piena di contraddizioni interne, è una guerriera, una donna forte, risoluta, molto generosa. Ecco, questo è uno dei film che custodisco nel cassetto e spero di realizzare, un giorno. Poi ci sono altre storie. Adesso sono interessato alla contemporaneità. Mi interessa analizzare la dimensione di una società che è sospesa, soprattutto in relazione alle giovani generazioni che non sanno bene che direzione prendere, né che possibilità effettive abbiano nell’ambito del lavoro e della realizzazione di sé.»
Ma pensando a Giorgio Diritti del 2005, quello degli esordi, e arrivando oggi a Lubo, suo ultimo lavoro, quanto è cambiato il suo cinema e in che cosa soprattutto?
«Credo che i miei film siano tutti un po’ fratelli, si assomigliano. Sono diversi, ma hanno una matrice comune. Sicuramente è cambiata molto la dimensione tecnologica. I primi due film sono stati prodotti praticamente dalla società mia e dei miei soci. Diciamo che allora fu veramente una scommessa. Dopo che tanti produttori avevano rifiutato i film, un po’ per le tematiche, un po’ perché non ero ancora conosciuto, c’è stata questa nostra determinazione che, unita poi anche a un pizzico di fortuna, almeno dal punto di vista del risultato qualitativo dei premi e dell’incasso di questi primi due film, ci ha aperto una strada che è diventata molto più semplice per tanti aspetti. Oggi ci sono produttori che hanno sentito e desiderano lavorare con me, io sono amante delle coproduzioni sugli altri film, e questa cosa mi rende orgoglioso perché spesso ci sono dietro sforzi economici importanti.»
Pensando ai giovani cineasti, quanto ritiene che siano importanti i festival e quanto, effettivamente, possono aiutare i giovani ad avvicinarsi al mestiere?
«Penso che oggi i festival sono molto importanti. È vero, ci sono le piattaforme, ma i festival hanno quella dimensione diversa che ti permette di portare il tuo lavoro davanti a un pubblico un po’ più attento, più abituato ad andare al cinema, e quindi più sensibile. E già questo ha un suo valore e poi hai la possibilità di incontrarlo che è una cosa non da poco. Soprattutto in festival come quello di Porretta o altri che definirei un po’ minori, c’è un bel pubblico abituato ad andare al cinema a vedere i film che poi viene a cercarti perché ha bisogno di saperne di più su quello che ha visto. E questa diventa una buona occasione per capire cosa ha funzionato di più, di meno, quali sono i punti di forza per acquisire una consapevolezza maggiore sul lavoro che si fa. E tutto ciò, nell’ambito delle opere prime e seconde, è davvero molto utile.»
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