Lunedì 9 dicembre è stata la giornata finale del Rome International Documentary Festival al Nuovo Cinema Aquila che, giunto alla terza edizione, è diventato ormai una manifestazione di culto nel panorama festivaliero e cinefilo romano.
Il RIDF si è concluso con la proiezione di Real di Adele Tulli, seguito dalla masterclass Che cos’è il reale? dove l’autrice, in dialogo con Giacomo Ravesi, ha raccontato dell’equilibrio tra realtà fisica e virtuale ricercato nel suo film. Real, infatti, incarna un cinema del pensiero che scruta nuove forme del reale, sconfinamenti di sguardi che si avverano nella composizione di mosaici filmici, tra la distanza della ricerca e l’empatia dell’estetica.
Dopo la conversazione di qualche giorno fa con Adele Tulli, abbiamo avuto l’opportunità di dialogare ancora con l’autrice su questioni come la genesi pandemica di Real e i suoi molteplici stili di regia, ma anche l’approccio tra teoria ed estetica e le ispirazioni cinematografiche della regista che, ammette, trova l’estro in tutti quegli immaginari che stimolino il pensiero.
Le immagini alla base di Real
Ciao Adele, oggi al RIDF abbiamo visto il tuo ultimo film Real, la cui idea è nata durante la pandemia, come tu hai spiegato. Ma c’è stata un’immagine o una suggestione visiva ad averti spinta a realizzare questo film?
Una sola dici? (ride). In realtà, essendo il film un mosaico di situazioni lontane ce n’è più di una, però durante la pandemia ho scoperto dei siti raccoglitore dove si poteva vedere la live delle telecamere di sorveglianza puntate nelle varie città. Era suggestivo in quei giorni, in cui eravamo chiusi nelle case, guardare le telecamere puntate sulle grandi piazze come Time Square, Piazza di Spagna o Puerta del Sol. Nelle città deserte in questa atmosfera apocalittica dove non c’erano più esseri umani se non qualche macchina della polizia o dei rider, che erano le uniche figure che attraversavano gli spazi fisici in quel periodo. La sensazione di essere tutti nel mondo, chiusi dentro le case ma con la possibilità di interagire tra di noi solo attraverso dispositivi digitali.
Quindi le immagini che mi hanno ispirata sono quelle dei luoghi fisici di città abbandonate che ci ricordano i film apocalittici e allo stesso tempo le interazioni – le riunioni, gli aperitivi con gli amici, la classe di yoga – che, poco prima erano la nostra socialità mentre in quel momento hanno rappresentato l’umanità a forma di quadratino zoom dentro uno schermo.
L’uso del digitale
Tu parli di “mosaico” che è un termine molto calzante per parlare dei tuoi film, Normal e Real. In quest’ultimo c’è una grande varietà di linguaggi e di sguardi, come il VR, la ripresa verticale dello smartphone e quella di sorveglianza, i vlog su Youtube. Però nel tuo modo di guardare il digitale non c’è mai allarmismo, piuttosto curiosità e mi sembra anche un pizzico di ironia. La scelta di adottare questo tono era già presente in fase di scrittura o è nata durante il montaggio?
Diciamo che nei miei lavori scrittura e montaggio si equivalgono perché gran parte delle intuizioni iniziali avvengono al montaggio. Quindi, è lì, che compongo il mosaico e capisco meglio le riflessioni che il film cerca di portare avanti. E poi l’ironia è già di per sé un modo di guardare il quotidiano: può essere un’arma di difesa, una resistenza o uno sguardo critico. Nel mio caso, l’ironia è una chiave che credo mi appartenga, non necessariamente superficiale o leggera, ma una chiave che permetta di ragionare sugli aspetti del contemporaneo. Poi mi interessava riflettere sul tema delle tecnologie digitali senza entrare nella narrazione tecnofobica e apocalittica ma nemmeno prendere una posizione integrata e tecnoutopista, piuttosto cercare di abitare le complessità che stanno nel mezzo tra questi due estremi.

Tra ricerca ed estetica
Entrando invece nello specifico dei tuoi lavori, si tratta spesso di film che nascono da una ricerca di studio. C’è un’idea anzitutto teorica che poi diventa artistica. Ma qual è, per una regista, il confine tra la distanza della ricerca e l’empatia dell’estetica?
È una bellissima domanda. Penso che questa linea molto fragile e sottile tra empatia e distanza sia un l’esercizio di funambolismo che cerco di fare nei miei lavori. In Normal indagavo il modo in cui gli enormi stereotipi di genere abitano le nostre identità e come le aspettative sociali influiscano sulle nostre vite. In Real cerco di ragionare sulle varie problematicità e difficoltà di gestire il nostro rapporto con le tecnologie digitali. C’è sempre il tentativo di essere, da un lato, in profonda empatia con dei bisogni molto umani, dall’altro osservare molte dinamiche del quotidiano con uno sguardo estraniante, alieno e distante che ci restituisce questa realtà un po’ deformata facendoci interrogare. Chiedo anche al pubblico di riconoscersi ma allo stesso tempo estraniarsi per interrogarsi, e la dimensione della ricerca aiuta il tentativo di trovare questa non facile posizione di confine.
Le ispirazioni di Adele Tulli
Con Real, infatti, hai realizzato un documentario molto antropologico nel raccontare il rapporto tra noi umani e un mondo digitale. A livello puramente cinefilo c’è un autore o un’autrice del documentario che ti ha ispirato particolarmente?
Mi ispirano veramente tante cose. In questo lavoro, in particolare, devo dire che ho guardato tante opere d’arte contemporanea e videoarte dove il rapporto con il digitale è un tema indagato da molto tempo, forse più che nel cinema. In generale, mi stimola tutto ciò che tenta di mettere in discussione una narrazione lineare stimolando lo spettatore in una visione scomoda che richieda uno sguardo attivo di ragionamenti e immaginari. Nel cinema penso ad Agnès Varda, Lanthimos, così come molti autori del documentario italiano, ad esempio Minervini. Le ispirazioni sono davvero tante pur non essendo connesse al mio lavoro, ma tutte le persone che lavorano con il linguaggio audiovisivo e creano immaginari che stimolino il pensiero mi accendono.