La terza edizione del Rome International Documentary Festival (RIDF), cofondatore da Emma Rossi Landi, è iniziata in questi giorni, celebrando il documentario in tutte le sue forme artistiche. Fino al 9 dicembre 2024, il Nuovo Cinema Aquila di Roma ospita la proiezione di trenta documentari provenienti da tutto il mondo, suddivisi in tre sezioni di concorso: internazionale, italiano (Ita-Doc) e cortometraggi (Short-Doc). Inoltre, il festival propone una selezione di cortometraggi visibili online su MyMovies, gratuitamente accessibili da tutta Italia, rendendo così il documentario fruibile a un pubblico più ampio, dando voce a questa forma artistica.
Tra gli appuntamenti in programma, ci sono anche masterclass con ospiti internazionali di grande prestigio, come la premio Oscar Eva Orner e il regista ucraino Sergei Loznitsa, oltre a eventi speciali con proiezioni fuori concorso che arricchiscono ulteriormente l’esperienza del pubblico.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare la filmmaker Emma Rossi Landi, co-fondatrice e direttrice artistica del festival dell’edizione 2024, insieme a Christian Carmosino Mereu. In questa intervista, abbiamo esplorato le novità del festival, le tematiche sociali emerse dai film e le riflessioni che scaturiscono dal momento storico che stiamo vivendo.
Evoluzione del RIDF: obiettivi e sfide della terza edizione
Il RIDF è ormai giunto alla sua 3° edizione, come vedi l’evoluzione del festival rispetto agli inizi e quali obiettivi vi siete posti quest’anno?
Iniziare questo festival è stata una vera e propria scommessa, soprattutto perché è nato subito dopo un periodo difficile come quello del Covid. Io e Christian Carmosino, avevamo già esperienza pregressa nel ruolo, avendo organizzato il Mese del Documentario, un’iniziativa che facemmo dieci anni fa.
Come documentaristi, capisci presto che la problematica non è fare altri bei film, ma farli vedere, quindi la soddisfazione che sta dando a noi un festival del genere sta proprio nel portare bei film al pubblico e vedere che c’è una risposta. Non è vero che non esiste un pubblico per il documentario. Anzi, la gente viene, si appassiona, si emoziona. È appunto, un’esperienza che avevamo già fatto e volevamo ripetere, proprio perché a Roma non c’era un altro festival dedicato esclusivamente al documentario creativo.
In più, essendo tutti filmmaker – dalla direzione artistica alla responsabile dell’ospitalità – siamo persone che hanno lavorato nel documentario in prima persona, per cui l’approccio è davvero quello della passione, di voler far vedere quei film che avremmo voluto fare noi stessi. È questa secondo me la cosa che ci caratterizza e ci distingue.
La prima edizione è stata fatta con risorse limitate, in fretta e in un periodo difficile, ma è stato un inizio. Oggi, siamo più esperti nella ricerca dei fondi e abbiamo una squadra di lavoro rodata, quindi riusciamo a gestire tutto in modo più naturale. Il pubblico risponde bene, questa terza edizione sta andando bene, e speriamo solo che arrivino maggiori finanziamenti. Purtroppo il mercato per il documentario creativo langue, e non possiamo rivolgerci alla televisione o alle piattaforme. Questi film bellissimi che esistono, non hanno la possibilità di essere visti se non attraverso noi, per questo il festival ormai è diventato una vera e propria missione.
Storie intime e temi urgenti: l’evoluzione delle selezioni del concorso
Nel programma di quest’anno vediamo un forte accento sulle storie intime, relazioni familiari, oltre a temi urgenti come i conflitti, le disuguaglianze e la violenza dei diritti umani. Come si è evoluto il tipo di storie che selezionate per il concorso, e come questi temi si riflettono sulla realtà globale attuale?
Il documentario creativo e narrativo, secondo me, ha la capacità di esplorare tematiche universali, proprio come fa la letteratura, la musica o il cinema di finzione. Racconta i conflitti dell’essere umano, le battaglie che tutti noi affrontiamo quotidianamente. Non c’è una ricerca precisa, ma in realtà è il tema stesso a emergere naturalmente. Ci sono anni in cui un argomento si fa più urgente di altri, ma generalmente i film che selezioniamo trattano sempre la ricerca dell’identità, il desiderio di capire chi siamo e il legame con gli altri. Quest’anno il tema della famiglia è molto presente, ma con un’interpretazione più aperta: possiamo parlare della famiglia di sangue, ma anche di quella degli amici o di altri tipi di legami. Questi sono film che esplorano la nostra natura umana, il nostro rapporto con il prossimo. E questo è ciò che fa l’arte in generale: indagare su chi siamo.
Nella prima edizione, in pieno periodo Covid, ci siamo concentrati sul tema della solitudine. Questo ha fatto sì che, l’anno scorso, la ricerca dell’identità fosse centrale. Quest’anno, forse, sta predominando il tema della famiglia. Però, di fondo, sono tutti argomenti universali che riflettono il viaggio dell’uomo, che muta in base al contesto sociale con cui si rapporta.
Il documentario italiano: resilienza e lotta sociale raccontate attraverso il cinema
Cosa pensi distingua il documentario italiano contemporaneo, rispetto ad altri paesi, nel raccontare storie di resilienza e lotta sociale? C’è qualcosa che emerge da questi film che ci aiuta a capire meglio la direzione che sta prendendo il nostro cinema documentario?
C’è un problema di mercato. Cosa chiede oggi il mercato al documentario italiano? Film che siano in grado di andare bene sulle piattaforme, che siano adatti alle reti televisive, magari con una formula già consolidata. Ma cosa vuole davvero raccontare il documentario italiano?
Il documentario italiano ha una vocazione più intima e profonda, che si avvicina alla nostra contemporaneità. Parliamo di temi che toccano nel profondo la società, come l’immigrazione, l’identità, la ricerca del futuro, ma anche lo spaesamento dei giovani. Sono tutte questioni strettamente legate al presente, a ciò che le persone vivono ogni giorno, e che spesso faticano a comprendere. Non sapere chi sei, non sapere dove stai andando, è una condizione che riguarda tutti, ma che oggi è particolarmente evidente tra i giovani. Questo sentimento di incertezza è una realtà che sentiamo molto in Italia.
Ecco perché ci sono molti film che trattano questi temi. Un esempio significativo è il documentario di Riccardo Cremona e Matteo Keffer, Come se non ci fosse un domani, prodotto da Ottavia Virzì e presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Il film si concentra proprio sulla condizione dei ragazzi di ultima generazione. Racconta quella sensazione di mancanza di futuro, ma anche la ricerca di una speranza, di un cambiamento, di un futuro diverso da quello che sembra essere già segnato. Un futuro che, per certi versi, sembra essere già stato imposto, ma che questi ragazzi vogliono provare a riprendersi, a riscrivere secondo le loro regole.
Cortometraggi in sala e streaming: l’accessibilità e la sperimentazione narrativa
Quest’anno il festival prosegue l’inclusione dei cortometraggi in sala, oltre la proiezione in streaming su Mymovies. Credi che questo approccio possa aumentare l’accessibilità dei cortometraggi documentari che spesso faticano a trovare una distribuzione adeguata?
Pensi che la selezione di corti con questo formato più visibile, contribuisca ad aumentare la sperimentazione narrativa?
Guarda, ultimamente sto sviluppando una grande passione per il cortometraggio documentario. È una forma molto diretta e concentrata, che riesce a raccontare molto in poco tempo. Sono rimasta davvero colpita dai documentari di quest’anno. A livello distributivo, l’anno scorso erano disponibili solo online, ma il documentario merita davvero di essere visto in sala. Online non rende allo stesso modo. Sono felice di vedere che c’è un mercato per questo genere, un mercato che cresce e che è più forte rispetto a prima. Questo, credo, possa anche favorire la sperimentazione nei linguaggi.
Se posso dare un consiglio, inviterei chiunque voglia approcciarsi al cinema, a provare con un cortometraggio documentario. A differenza del cortometraggio tradizionale, ti permette di immergerti in una realtà che altrimenti non conosceresti, e ti offre la possibilità di sviluppare un racconto indipendente, ricco di spunti. Inoltre, è un’occasione fantastica per sperimentare, giocare con forme e approcci narrativi. E per i giovani, è davvero un’opportunità interessante.
Innovazioni tecniche nel documentario: come la tecnologia sta cambiando la narrazione
Nel corso degli anni, l’industria del documentario ha adottato nuove tecnologie. Nel 2024, quali innovazioni tecniche o stilistiche vedi emergere tra i film selezionati, e come pensi che la tecnologia stia cambiando il linguaggio del documentario, sia in termini di narrazione che di distribuzione?
Secondo me, non è tanto il mezzo a fare la differenza, quanto la storia che vuoi raccontare. Non sono contraria all’intelligenza artificiale, né al cellulare come strumento. Quello che davvero conta è il messaggio che vuoi trasmettere. Un esempio che mi viene in mente è un film in concorso al RIDF quest’anno: 1489, della regista armena Shoghakat Vardanyan. Questo racconta la ricerca, condotta dalla regista e dai suoi genitori, del fratello Soghomon, che stava per completare il servizio militare obbligatorio quando è scoppiata la guerra del Nagorno-Karabakh e non è mai tornato. Il film è girato in casa, non ci sono riprese in 4K super definite, ma il risultato arriva molto più forte e intimo di quanto potrebbe fare un film con mezzi più sofisticati, che invece rischierebbero di renderlo freddo e distante. Per me, il mezzo deve essere funzionale al messaggio che si vuole dare. Puoi usare qualsiasi tecnologia o strumento ti piaccia.
La scelta del mezzo riflette una visione personale della storia. Certo, la tecnologia sta andando avanti, ma ogni forma di sperimentazione è ben accetta, purché la visione rimanga intima e personale. Dobbiamo saper integrare la tecnologia, usarla quando è utile, ma anche imparare a farne a meno quando non è necessaria.
Masterclass e democratizzazione della cultura cinematografica: il ruolo del RIDF
Quest’anno il RIDF offre gratuitamente delle masterclass per permettere al pubblico un contatto diretto con maestri del genere nonché registi di fama mondiale. In che modo eventi come questi possono abbattere le barriere tra il grande pubblico e i professionisti del settore, e come pensi che il festival stia contribuendo alla democratizzazione della cultura cinematografica?
Questa è una delle missioni principali del nostro festival: facilitare lo scambio. Se ho l’opportunità di confrontarmi con un professionista del settore, posso considerarla un’esperienza vincente, a prescindere dal risultato. Soprattutto quando ti relazioni con persone che fanno lo stesso mestiere, non esistono barriere. Che tu abbia vinto a Cannes o che io sia un giovane che sta iniziando, l’importante è il confronto. Per me, il vero senso del festival è proprio abbattere queste barriere, creando uno spazio in cui tutti possiamo condividere la passione per il cinema del reale e vedere cosa ne emerge. Magari in una serata o durante una conversazione informale, qualcuno ti dice qualcosa di semplice, ma quella riflessione ti fa cambiare completamente la percezione del tuo lavoro. Il valore di questa esperienza, sta proprio in questo: soprattutto per un giovane che esce da una scuola di cinema e che, magari, riceve un consiglio che non aveva mai preso in considerazione. Il significato dell’essere umano risiede nella connessione, quindi dobbiamo connetterci. E così anche per il documentario è la stessa cosa.
La giuria internazionale del RIDF: nuovi sviluppi per il festival e i giovani cineasti
Anche le giurie del concorso quest’anno collaborano con alcuni dei nomi più importanti del panorama documentaristico, in che modo la presenza di questi ospiti contribuisce a tracciare nuove linee di sviluppo per i giovani cineasti ?
Per noi è un tema importantissimo. Un festival di documentario che funziona è un luogo di scambio, dove i registi si confrontano e c’è dialogo. Fare documentari è una forma di accettazione dell’altro. E allora, se un festival non accoglie i registi e non crea occasioni di scambio, che senso ha?
Prima del RIDF abbiamo organizzato a questo proposito, anche un corso di formazione dedicato a progetti incentrati sui diritti umani, selezionandone dieci, particolarmente significativi. Questo concorso si è concluso il 7 novembre al Teatro Palladium ed è stata, senza dubbio, una delle esperienze più belle e gratificanti di quest’anno per me. Quello che mi ha colpito di più è stato vedere ragazzi così giovani, dai 18 ai 24 anni, apprendere, ascoltare, e mettersi in gioco, in un mondo completamente nuovo per loro. Anche se in futuro potrebbero scegliere di non diventare documentaristi, questo tipo di esperienza ha permesso loro di entrare in contatto con il settore. Questi momenti di scambio sono quelli che favoriscono una crescita non solo professionale ma anche umana, perché si crea un’atmosfera che va oltre la mera formazione tecnica. È proprio in questo tipo di contesto che il documentario acquisisce valore.