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Rome International Documentary Festival

“Non sopravvaluto il potere di un documentario, ma…” Intervista alla regista Eva Orner

Eva Orner, regista e produttrice australiana Premio Oscar nel 2008, è una delle voci più importanti del documentario contemporaneo. In occasione del RIDF di Roma parla di presente e futuro del genere e del valore di trasmettere qualcosa allo spettatore

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Eva Orner Oscar Winning Producer Director Brandy Hellville RIDF roma

Durante la terza edizione del RIDF, Rome International Documentary Festival, la produttrice e registra australiana Eva Orner ha tenuto una masterclass incentrata sul dietro le quinte di un documentario di successo. La Orner è tra le più interessanti autrici del panorama documentaristico mondiale e vincitrice del Premio Oscar nel 2008 con Taxi To The Dark Side, film che fece luce sulle torture perpetrate dall’esercito statunitense nelle proprie prigioni di massima sicurezza.

In questa intervista, Eva Orner parla del suo ultimo progetto: Brandy Hellville – l’Inferno del Fast Fashion. Campione d’ascolti in patria e recentemente approdato in Italia, su Sky Documentaries, racconta l’oscura macchina fatta di sfruttamento, disastri ambientali, sociali e una cultura tossica promossa del brand italiano Brandy Melville e dal suo controverso fondatore. Descrive poi la sua visione sull’industria odierna con gli occhi di chi la vive dall’interno, proiettandosi a un futuro di grande cambiamento.

Eva, la tua carriera nel cinema documentario è iniziata parlando d’intimità, quella delle donne in particolare (Untold Desires, 1994), di micro realtà, sentimenti. Mentre ora i tuoi film si distinguono per il loro forte e ampio impatto sociale. Riflettono il tuo impegno nei confronti di questioni ambientali e sociali come la migrazione, la crisi climatica e i lati oscuri della globalizzazione, (Chasing Asylum, 2016 o Burning, 2021) in un modo che va oltre il semplice reportage. Anche la tua carriera è invidiabile e ancora in evoluzione, ma in questa fase ti vedi più come una regista, produttrice o un’attivista che usa il potere dei mezzi audiovisivi per dare voce a questi problemi?

Non ho mai pensato a me stessa come a un’attivista, mi considero a tutti gli effetti regista, certo penso di aver avuto un piccolo ruolo nel mutamento di certe politiche, o nel cambiare il modo di pensare delle persone verso determinati argomenti, ma cerco sempre di non sopravvalutare il mio lavoro e il potere dei documentari. Credo però che far cambiare idea, anche solo a una persona, sia già un piccolo successo, anzi penso spesso si possa cambiare la mente di tante persone o per lo meno farli pensare, parlare di qualcosa di importante, e questo può avere degli effetti a lungo termine sulle loro vite o quelle di qualcun altro.

Sono partita come produttrice e circa 15 anni fa ho iniziato a occuparmi anche di regia, quindi ho prodotto e diretto la maggior parte dei miei film anche se continuo a lavorare con altri colleghi e case produttrici. Un filo conduttore tra i miei lavori è sicuramente l’impronta giornalistica, investigativa, mi piace smascherare. Mi piace scoprire storie su persone che vengono travisate o non rappresentate correttamente, e denunciare i torti che subiscono, che provengano dai governi, dalle politiche o da persone davvero cattive, come nel caso di Brandy Hellville e Bikram.

Quindi penso che si possa guardare alla mia carriera e dire che sono un attivista, ma non mi considero tale, perché lavoro su un argomento per un po’ e poi passo a qualcos’altro, mentre molte delle persone con cui Lavoro nei miei film dedicano la loro vita su un problema, facendo solo quella cosa. Sento di non voler togliere nulla all’incredibile compito che svolgono. Io in un certo senso mi approprio di quella storia per un paio d’anni e poi vado avanti.

Eva Orner Burning 2021

Eva Orner durante le riprese di ‘Burning’ (2021)

Fare documentari, specialmente d’inchiesta, investigativi come i tuoi a un livello internazionale, può significare essere in bilico tra la grande e opaca industria cinematografica e i problemi invece più tangibili, reali, del mondo.

Come ti muovi tra queste due versioni della realtà? Può esserci un equilibrio?

Per alcuni dei film che ho realizzato in passato, ho dovuto trascorrere molto tempo in paesi come l’Afghanistan e l’Iran, luoghi davvero impegnativi e quando sei in quei posti, fai parte di quel mondo e sei totalmente immerso nel film. Poi, vivendo a Los Angeles, faccio anche parte della più ampia comunità cinematografica, è questo che intendi quando parli di stare a cavallo tra due mondi diversi? Già, ma come ho detto penso che quando stai facendo un film, ne sei davvero dentro, è il tuo unico focus.

Inoltre, storicamente, i documentari erano piuttosto separati dagli altri settori dell’industria cinematografica, ma grazie allo streaming e al vasto pubblico che ora possono ottenere, le cose sono cambiate. Adesso il nostro lavoro è considerato parte importante dell’industria. Ci sono molti aspetti attraenti nei documentari per le piattaforme streaming e le grandi reti, perché hanno un budget relativamente basso rispetto ai film e alle serie TV, ma possono avere lo stesso successo. Il documentario è diventata una parte davvero vitale del settore, il che è fantastico.

Possiamo dire che l’interessamento crescente verso il genere documentario stia avvicinando queste realtà?

Quando realizzo questo tipo di film, sento che il mio obiettivo principale è raccontare bene la storia. Rappresentare bene le persone che appaiono e ottenere il più vasto pubblico possibile, perché senza pubblico starei facendo un qualcosa per il nulla. Questi film parlano del tentativo di cambiare le cose nel mondo o le opinioni delle persone. Quindi per me è anche una questione di pubblico. I miei ultimi quattro film sono stati realizzati per le principali piattaforme di streaming, Netflix, Amazon Prime VideoHBO, il che ha portato un vasto pubblico.

Ma significa anche muoversi in un campo molto più ampio, lavorare con i network sapendo che questo porta a scendere a compromessi. Non è un progetto indipendente, stai facendo film per una Corporation. Certo, se riesci a realizzare un prodotto impattante, significativo e fedele a ciò che stai cercando di dire, beh quello è un risultato. Ma è sicuramente diverso rispetto al fare un film indipendente.

Ho appena terminato un altro grande progetto per HBO che uscirà l’anno prossimo, riguarda lo scandalo dell’Ohio State University che coinvolse un medico tra gli anni ’70 e ’90 il quale abusava degli studenti, l’università lo sapeva e non fece nulla.

Brandy Hellville - L’inferno del Fast fashion

‘Brandy Hellville – L’inferno del Fast fashion’ (Eva Orner, 2024)

In un mondo in cui ormai tutto viene filmato, postato su TikTok e consumato a una velocità insostenibile e i ‘documentari’ vengono realizzati da YouTuber, qual è la vera sfida nel crearne uno di valore e farlo apprezzare al grande pubblico?

È davvero una bella domanda ed è difficile trovare una risposta perché le cose stanno cambiando a una velocità vertiginosa. Il modo in cui le nuove generazioni fruiscono dei contenuti è interessante ma anche un po’ preoccupante, direi quasi spaventoso per i registi. Credo che i giovani non abbiano più la soglia dell’attenzione per guardare un intero film o leggere un libro lungo ad esempio, non leggono affatto.

TiktTok, poi, è terribile, uno step oltre Instagram, lì puoi postare foto, si basa ancora prevalentemente su quello e può anche essere carino. Ma TikTok mi sembra molto più basato sulle opinioni, dà alle persone l’idea che la loro voce conta e che hanno una piattaforma globale sulla quale farla sentire. Creano contenuti, odio questa parola (content n.d.r), e lo fanno per un’audience molto ridotta a differenza di quanto credono. Insomma da una parte è estremamente democratico che ognuno possa avere questa opportunità, dall’altra tira fuori il narcisismo dalle persone, ognuno è convinto che la propria opinione sia valida e importante. Non da meno la piattaforma propone prevalentemente video di ragazze molto giovani che parlano del nulla o promuovono prodotti senza neanche rendersene conto. Ragazze di 12, 14 anni parlano di skincare, non dovrebbero nemmeno interessarsi alla skincare!

È come se questo esercito promuovesse prodotti per le multinazionali ed è semplicemente incredibile. È geniale da parte delle aziende, ma penso che i genitori debbano intervenire un po’ e controllare ciò che fanno i loro ragazzi.  Far sì che il loro cervello si sviluppi un po’ meglio. Un altro esempio è quello che è accaduto a Twitter da quando Elon Musk lo ha comprato trasformandolo in X, era un’ottima fonte di notizie e conversazioni, ora è semplicemente insopportabile.

In questo contesto esiste ancora uno spazio per i documentari più impegnati? E come evolverà, secondo te, il genere in un prossimo futuro?

Sì, penso che al momento molte persone stiano ancora guardando i documentari, Brandy Hellville è un ottimo esempio. Il film è rivolto alle ragazze giovani su TikTok perché si tratta di un marchio che amano e su cui creano content continuamente. Quando è stato rilasciato il trailer, nei primi cinque giorni, ha avuto tre milioni di visualizzazioni, il che è sorprendente per un documentario. Quando Bikram (film del 2019 n.d.r.) uscì su Netflix cinque anni fa, nella prima settimana raggiunse 50.000 visualizzazioni, all’epoca era considerato davvero buono. Insomma, non l’ho fatto apposta ma conoscevo il pubblico, sapevo che ci sarebbe stata questa vita, su TikTok, per il film.

Ciò che ha reso Brandy Hellville attraente e finanziabile è il fatto che si tratta di un’enorme denuncia, grazie al suo contenuto riesce a coinvolgere queste ragazze, il mio cinema sovversivo le trascina in questa orribile realtà e le espone anche al mondo più ampio del Fast Fashion, ai danni all’ambiente e ai lavoratori. È stato il film più visto su HBO Max per 4 settimane.

Le piattaforme di streaming però pianificano in un modo che le reti televisive non hanno mai adottato, con valutazioni, dati demografici e studi sugli spettatori, regolano di conseguenza i loro prodotti e, al momento, stanno spingendo molto sui documentari true crime, sulle celebrità, sport e musica. C’è poco spazio per film davvero seri, inchieste politiche, documentari che sfidano lo status quo e penso sia preoccupante perché viviamo un’epoca in cui le cose sono molto precarie e abbiamo bisogno di quei film, del giornalismo investigativo dettagliato, più che mai. Le cose potrebbero migliorare ma dipenderà tutto da ciò che le persone decideranno di guardare. Siamo totalmente nelle mani del pubblico e questo indubbiamente spaventa.

Bikram: Guru dello yoga, predatore sessuale

Bikram: Guru dello yoga, predatore sessuale (Eva Orner, 2019)

Trovo particolarmente interessante, come tu stessa hai detto, il caso di Brandy Hellville – l’Inferno del Fast Fashion. Hai identificato un argomento che interessa le nuove generazioni e le spinge a scostarsi dal finto mondo di TikTok o per lo meno a porsi delle domande.

Lo vedi il potere di tutto questo? Molte persone sono scettiche e critiche riguardo al fare film sulle grandi multinazionali. Ma è questo il mondo ora. Se riesci a realizzare un documentario che attrae un vasto pubblico, includendo temi sottili, sovversivi e di grande impatto, penso sia davvero un buon modo di procedere. Ed è proprio quello che cerco di fare, nemmeno in modo così sottile. Il film si chiama Brandy Hellville – l’Inferno del Fast Fashion (Cult of Fast Fashion in lingua originale n.d.r.), è un titolo molto chiaro. Così come Bikram: Guru dello yoga, predatore sessuale (Yogi, Guru, Predator).

Non sono sottile, ma penso che in questo mondo per distinguersi bisogna essere un po’ diretti. Credo che si debba provare a forzare il pubblico. Una sorta di negoziazione tra il creare un prodotto commerciale, finanziariamente sostenibile e dire qualcosa d’importante che possa rendere le persone migliori, penso che ne abbiamo bisogno adesso.

Si può dunque dire che questo è lo scopo finale nel realizzare documentari come i tuoi.

Lo è, ma è complesso. L’industria è come un pendolo e sono circa 10 anni che si è fermato in una fase di sovrapproduzione di contenuti causata dell’impennata dello streaming. All’inizio erano tutti entusiasti ma si è prodotto tanto, forse troppo. Penso che questo pendolo tornerà presto a oscillare dal lato opposto, fermandosi da qualche parte nel mezzo, certo ci vuole tempo. Sono stati fatti errori e siamo in un periodo di cambiamento dove le cose sono abbastanza precarie, vedremo.

Per concludere, mi piacerebbe sapere, da un occhio critico e allenato come il tuo, cosa ne pensi della situazione dell’Italia attuale? Sia a livello culturale che cinematografico nello specifico.

Conosco la situazione problematica al governo, le tendenze di destra che stanno avendo i paesi europei preoccupano. Ma è molto difficile per me, arrivando dagli Stati Uniti, parlarne seriamente. Abbiamo appena rieletto Donald Trump ed è disgustoso, sapevo sarebbe successo ma era difficile da credere. Vengo spesso in Italia, il mio compagno è di Roma, viviamo a L.A. ma non vogliamo invecchiare in America.

In termini cinematografici è un momento molto interessante per il cinema europeo perché, proprio come in Australia, qui non esiste uno Studio System. Si può contare sul Tax Credit, i fondi statali, le co-produzioni. Inoltre le piattaforme di streaming stanno ampliando i loro orizzonti, se vuoi fare qualcosa di più stimolante, è il momento giusto per essere qui.

Io amo l’Italia e sicuramente questa cosa mi offusca la vista. Ma penso davvero che rispetto all’America si possa vivere e lavorare meglio, anche con meno. C’è molta solitudine e isolamento negli Stati Uniti, mentre qui si percepisce un senso di comunità. Dall’altra parte un mucchio di milionari controlla il paese e i prossimi 4 anni si prospettano tristi. Voglio restare qui il più possibile e non voglio certo essere arrestata per il lavoro che faccio, molti giornalisti e registi sono preoccupati per questo.

Lavoro molto con gli informatori, i whistleblowers, che trovo persone coraggiose e semplicemente fantastiche. Adoro il loro impegno perché, senza di loro, la democrazia sarebbe in grossi guai. Mi preoccupo per il futuro, visto che giornalisti e informatori sono sempre più sottoposti a restrizioni. Le persone ora hanno paura a parlare davanti alla telecamera. Temono di essere fermati e magari di finire in prigione, il che è orrendo in una democrazia.

Taxidrivers al RIDF 2024

Lost in translation: questa intervista è stata realizzata in inglese, tradotta e successivamente approvata dall’intervistata, alcune frasi potrebbero non rispecchiare le esatte intenzioni o sfumature del dialogo originale.

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