Isabella Ragonese è stata ospite della ventunesima edizione di Corto Dorico, dove ha presentato un volume a lei dedicato, Tutta la vita dentro, insieme al curatore Federico Pommier. Un libro pregevole, che ricostruisce la sua filmografia attraverso una serie di saggi e interviste a colleghi attori come Elio Germano o Valeria Solarino e registi, come Daniele Vicari o Roberto Andò, che l’hanno diretta.
La presentazione è stata l’occasione per incontrarla e fare un bilancio della sua esperienza di attrice, fra teatro e cinema, impegno e sicilianità.
Partiamo dall’origine. Come e quando hai deciso di iniziare la tua carriera di attrice?
Io non credo alle persone che dicono io lì in quel momento ho capito che volevo iniziare tutto. Io penso sia una cosa che sai da sempre, anche se non sai dare nome a quello che vuoi fare. Io ho iniziato con il teatro già al liceo. Non credevo sarei mai arrivata a fare cinema, perché sono di Palermo e vedevo Roma, dove si fa il cinema, una città lontanissima. Mi ci sono trasferita tardi, non così giovane, quando ho iniziato a fare film. Prima ero una che faceva spettacoli teatrali in giro, caricando in macchina le scenografie e montando le luci. E se qualcuno che incontravo per caso mi chiedeva che lavoro facessi, rispondevo studio. Solo dopo, il cinema, mi ha dato più sicurezza nel dire faccio l’attrice, tanto mi sentivo precaria di quel mestiere.
La tua famiglia come ha preso la decisione di fare l’attrice?
Io sono la secondogenita e questo aiuta molto, perché tutte le aspettative erano più su mio fratello. Mi sono iscritta a Filosofia, davo esami ogni tanto, ma ero molto lenta, recitavo, qualcosa guadagnavo. Mi pagavo le tasse di fuoricorso all’università e riuscivo a mantenermi da sola, ma se i parenti a natale chiedevano ai miei genitori del mio lavoro, so che cambiavano discorso. In realtà, la passione per il cinema l’ho ereditata proprio da mio padre, che aveva la casa piena di vhs, quelle che allora si allegavano ai giornali. Insomma, non è che i miei genitori vedessero questa cosa di fare l’attrice così di buon occhio, ne ridacchiavano, ma, sotto sotto, secondo me erano contenti. Poi, riallacciandomi al film Tutta la vita davanti, quel momento della vita, tra i venti e i trent’anni, è sempre pieno di aspettative e di grande depressione, perché ti chiedi che farai del tuo futuro. La mia era già una generazione in cui tutti erano precari, per cui anche gli altri compagni di liceo, che avevano scelto strade diverse dalla mia, alla fine non è che avessero un lavoro così sicuro.
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Tutta la vita davanti
Tutta la vita davanti è, ancora oggi, un film drammaticamente attuale per il mondo del lavoro descritto.
La protagonista Marta è una giovane ragazza che studia Filosofia e, per lavorare, si trova in un grottesco call center. È uno dei pochissimi film che parla di precariato. Io andavo al cinema e vedevo storie in cui ragazzi di trent’anni avevano casa, appartamenti anche enormi e fighi. Erano film completamente fuori dalla realtà. Io devo tantissimo a Tutta la vita davanti, che è diventato generazionale. Ricordo addirittura manifestazioni per il lavoro con cartelli dove c’era il volto di Marta. Tutta la vita davanti ha anche un po’ segnato il mio percorso, perché ho poi dato voce ad aspetti della società che sono magari meno rappresentati al cinema e che ci fa più piacere non vedere.
Del 2010 è La nostra vita di Daniele Luchetti.
Quel film fa parte di un periodo in cui ho lavorato tantissimo, perché volevo conoscere questo mestiere, che è anche molto artigianale, bisogna capire delle cose proprio meccaniche. Daniele Luchetti voleva raccontare la storia di una coppia in pochissimo tempo e poi la storia di una mancanza, perché la donna che interpretavo moriva. Nel film c’è, in particolare, una scena che non scorderò mai. Era girata in un centro commerciale, che a me sembrava l’inferno. Stavamo lì in questo posto, con due bambini piccoli, che cadevano, se ne andavano in giro e noi non sapevamo se le macchine da presa c’inquadravano o no. Era tutto molto realistico. Anche quando arriviamo in ospedale per il parto, Daniele Luchetti ci seguiva con una piccola telecamera e siamo andati in un vero ospedale, con un infermiere che ci ha aperto e non si è accorto, all’inizio, che stavamo girando un film. Quando l’ha capito ci ha mandato…
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Sole, cuore, amore
A proposito di lavoro, penso anche alla protagonista di Sole, cuore, amore di Daniele Vicari.
Quel film è come se fosse un passaggio successivo a un ulteriore peggioramento nell’ambito lavorativo. Se Tutta la vita davanti era ispirato all’esperienza di Michela Murgia che, laureata, aveva lavorato in un call center e raccontato tutto questo nel romanzo autobiografico Il mondo deve sapere, Sole, cuore, amore si rifaceva alla storia vera di Isabella Viola, il cui cuore aveva ceduto a 34 anni. È l’evoluzione di Marta, anche se sono due persone completamente diverse. Si parlava di una donna che lavorava tantissimo in un bar. Per questioni economiche, viveva fuori Roma ed era costretta a farsi due ore di mezzi pubblici per raggiungere il posto di lavoro, dove veniva sfruttata e sottopagata. Di storie e famiglie così ce ne sono tantissime, anche se questo è un caso estremo per come va a finire. Il dramma è che queste persone non possono farsi curare o mettersi in malattia, perché si trova sempre uno che è più disperato di te e si prende il tuo posto. Molti lavoratori non hanno realmente più diritti, neanche alla salute. La protagonista è una donna che ha tre figli, di cui uno piccolo, in un Paese dove si parla tanto di maternità, ma che sembra più interessato ai diritti dell’embrione che ai problemi dei figli quando nascono.
Nonostante tu sia di Palermo, hai interpretato pochi personaggi siciliani, solo una piccola parte in Nuovomondo (2006), prima di Solo per passione – Letizia Battaglia fotografa, di Roberto Andò, nel 2022.
Una delle cose straordinarie di questo film è stato poter conoscere Letizia Battaglia e raccontare la storia incredibile di una donna che ha vissuto almeno due vite, che dopo i 40 anni si è reinventata, ha seguito la sua passione ed è diventata fotografa. C’è questa dinamica sulla Sicilia, io penso riguardi tutti i siciliani, di grande odio e grande amore. Palermo, in particolare, è una città che ti può frustrare molto profondamente. Poi, per il mio aspetto fisico, non mi sentivo desiderata in ruoli da siciliana. A un provino una volta mi dissero preferiamo prendere una bresciana mora a cui insegnare il siciliano. Il mio primo ruolo al cinema è stato, come ricordavi tu, Nuovomondo di Emanuele Crialese, ma poi, con la Sicilia cinematografica, c’è stata questa specie di amore non corrisposto, che finisci per abbandonare. Allo stesso tempo, io ero anche un po’ contenta, perché quando sono cresciuta era un’epoca di mafia invadente. Nel periodo delle stragi io ero alle scuole medie e questa cosa ti segna. Cioè, tu fingi di vivere una vita normale, vai con gli amici, esci, ma, in realtà, per le strade c’erano i militari, si vedevano blindati ovunque e tu chiedevi a tua madre ma com’è stato possibile che saltasse in aria un’autostrada e nessuno abbia visto che seppellivano il tritolo. È una domanda che ancora oggi mi faccio. Poi a Palermo ci torni ed è una città talmente bella, ricca, creativa. È una cosa che mi fa dannare. Non faccio finta che sia una città normale. Ti fa dire basta e si fa desiderare.
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Il primo incarico
Con Giorgia Cecere hai girato due film, Il primo incarico (2010) e In un posto bellissimo (2015).
Giorgia Cecere fa un bellissimo lavoro sugli stereotipi dei ruoli femminili. La maestrina, la donna, la moglie tradita. E su questi costruisce con una profondità che, di solito, viene lasciata bidimensionale. E fa un gioco di specchi molto interessante con le controparti maschili. Mi aiuta moltissimo il lavoro che faccio con Giorgia Cecere, perché è una regista che nasce come sceneggiatrice. Io ho sempre provato a scegliere personaggi che non offrissero stereotipi sulla donna. Nei due film di Giorgia Cecere che citi, il primo racconta una donna volitiva, che decide di andar via, lavorare, scegliere chi le piace; l’altra è una donna tradita, sottomessa. Il problema, secondo me, del femminile, è che ancora oggi ci facciamo dire troppe volte (ancora si permettono) cosa una donna dovrebbe fare, come dovrebbe essere, quali dovrebbero essere le sue scelte, come usare il suo corpo, la sua vita. Non le si lascia una sua individualità. Il cinema può fare tantissimo per raccontare che esistono tante donne diverse. Per esempio, io mi innervosisco quando mi chiedono com’è lavorare con registe donne, ma come sono queste registe donne? Tutte completamente diverse, ovviamente! Nessuno mi chiede com’è lavorare con un regista uomo, mai.
C’è anche un tuo personale impegno sul ruolo della donna nella società.
C’è stato un momento d’impegno sulla questione femminile in cui mi sono esposta, ho fatto parte di Se non ora quando. Ricordo una manifestazione enorme, a Piazza del Popolo, che ho aperto. Poi sono arrivata alla conclusione che, in realtà, tutti noi, nel nostro lavoro, dobbiamo dimostrare nei fatti il nostro impegno, quotidianamente. Io penso che, nel mio piccolo, sarà pure una cosa microscopica, ho tentato di farlo, non girando per forza film sulla violenza sulle donne, perché il problema nasce a monte: nella cinematografia c’è un utilizzo oggettivo della donna? Cioè che funzione hanno nel racconto? C’è l’uomo protagonista e poi c’è una moglie che lo aspetta? No grazie, non accetto il ruolo. Il cinema d’azione è pieno di donne al telefono: «Caro, sono qua che ti aspetto! Torna da me!». È chiaro che il mio lavoro è anche… accettare la parte. Però ho detto di no a cose che non mi sembravano giuste.
Tu hai continuato sempre ad alternare cinema e teatro.
Il teatro è il mio primo amore. Pensavo, anzi, di fare solo quello nella vita. Diciamo che il cinema è stato più un amante, che viene nella notte, poi però torno sempre a casa. Ho sempre pensato che bisognerebbe fare sia teatro che cinema. Personalmente è come nel rapporto tra le due mie città: quando sono a Roma mi manca Palermo, quando sono a Palermo non vedo l’ora di tornare a Roma. Ho sempre questa tensione. Quando fai teatro ti torna la voglia di fare cinema, sono due passioni che si alimentano. E poi ricordo la prima volta che ho fatto uno spettacolo dopo la pandemia: piangevamo tutti, eravamo stati troppo tempo separati. Lì c’era la gente, persone vive, che tossivano, scartavano caramelle, ridevano e piangevano insieme. Il teatro mi dà molta gioia, anche il set, ma mi annoia di più, perché ci sono le attese, le tempistiche sono diverse. Io amo i luoghi, ce ne sono rimasti così pochi, dove possiamo stare con delle persone a piangere o ridere per la stessa cosa, chiacchierare dopo lo spettacolo. A teatro vedi l’attore che fa una cosa ogni sera un po’ diversa, magari sbaglia, ma è vivo, non è una scena tagliata e rifatta fino alla perfezione. Teniamocelo stretto il teatro.
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In un posto bellissimo