Due attrici in stato di grazia e un regista cinefilo sono il segreto di un film emotivamente fuori dalla norma. Con Mimmo Verdesca abbiamo parlato del sentimento di Per il mio bene e di due attrici formidabili come Barbora Bobulova e Marie-Christine Barrault.
In sala con 01 Distribution Per il mio bene è il film diretto da Mimmo Verdesca con Barbora Bobulova e Stefania Sandrelli.
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L’inizio di Per il mio bene di Mimmo Verdesca
Le prime due sequenze di Per il mio bene raccontano l’ambivalenza della realtà in cui si muove la protagonista. Nella prima vediamo la donna all’interno della propria casa piegata dal dolore fisico; nella seconda la ritroviamo in fabbrica mentre parla davanti all’assemblea dei propri dipendenti come nulla fosse successo. Il montaggio consequenziale delle scene in questione rimanda all’ambiguità esistente tra pubblico e privato, tra realtà e apparenza, tra genitori e figli.
Esatto, hai colto perfettamente il senso della sequenza e della soluzione che abbiamo trovato insieme al montatore Alessio Doglione, proprio perché quello che avviene nella vita privata di Giovanna, interpretata da Barbora Bobulova, è qualcosa di molto personale, che lei stessa non mostra né agli altri né al proprio nucleo famigliare. Figuriamoci ai collaboratori, ai colleghi, agli amici, ai clienti. La festa che lei tiene in onore del padre è l’occasione per confermare a se stessa e ai propri dipendenti l’apparenza di una vita perfetta, cosa che per lei è fondamentale. Giovanna è una donna determinata, super controllata, dotata di un rigore che cerca di insegnare anche a sua figlia che invece è più libera, soprattutto nel vivere un po’ più le emozioni, cosa che Giovanna invece trattiene. Il non mostrarsi fragile agli occhi degli altri è parte del suo carattere, del suo temperamento e si riflette anche nell’ambiente in cui vive e si muove, come l’azienda che la presenza del marmo fa apparire solida ed energetica.
Il campo lungo con cui riprendi Giovanna impegnata nel discorso ai propri dipendenti è interrotto da un improvviso quanto brevissimo campo/controcampo che, anche per la postura delle persone che compongono l’assemblea, ti serve da una parte per sottolineare la stima dei dipendenti nei confronti della donna, ma soprattutto per rappresentare materialmente la tendenza della protagonista a creare una distanza tra sé e gli altri.
Sì, esatto, assolutamente, è tutto molto strutturato, tutto molto rigoroso e questo lo si vede anche dal fatto che lei sia su questo piccolo piedistallo che in qualche modo la protegge da chi l’ascolta. Una necessità ancora più sentita nel momento in cui la malattia l’ha resa molto più fragile. L’apparire tutto d’un pezzo le serve anche per minimizzare il suo problema di salute. Solo la madre se ne accorge: un po’ perché diversamente dai dipendenti la guarda con occhi materni, un po’ per l’atteggiamento di protezione tipico forse di alcuni genitori adottivi, quello che deriva da un senso inconscio di inadeguatezza per non essere genitori naturali dei propri figli.
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Il rapporto con l’ambiente
Quelle primissime scene sono caratterizzare da una serie di campi lunghi e lunghissimi che mostrano la protagonista all’interno del suo ambiente sottolineandone il rapporto simbiotico. La maniera in cui la mostri è fondamentale per comprendere ciò che avviene quando Giovanna sarà costretta a rinunciare alla bolla esistenziale che si è costruita.
Sì, esatto, lei si sente protetta anche dai marmi che la circondano. Se ci pensi anche la similitudine tra i colori dei vestiti e quelli delle pietre confermano questa tendenza. Per Giovanna il legame con l’azienda di famiglia, punta di diamante dell’imprenditoria veneta nella lavorazione del marmo, rappresenta uno status ma anche la responsabilità che lei ha nei confronti di quello che rappresenta.
Ciò che hai detto si riflette anche nelle scelte fotografiche. Quando pronuncia il discorso iniziale l’ambiente è immerso in un bianco metafisico e all’interno di uno spazio perfettamente ordinato. L’opposto di quello scuro e caotico in cui di lì a poco sarà costretta a spostarsi.
Proprio così. Le scelte cromatiche dei due momenti principali del film rappresentano non solo il carattere dei personaggi ma anche uno stato d’animo. Non a caso la freddezza della luce e dei toni che vediamo nella prima parte sono quelle legate all’azienda, alla vita di Giovanna a Verona. Mentre nella sequenze con Anna, nonostante il disordine e le ombre che avvolgono la vita della donna, le immagini conservano un calore inatteso, assente nella prima parte dove il controllo e il rigore prendono il sopravvento anche in termini di tonalità. Il calore della seconda parte è quello che permetterà ad entrambe di aprire il loro cuore verso la speranza.
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Per il mio bene di Mimmo Verdesca: un thriller esistenziale?
Come un thriller esistenziale Per il mio bene è disseminato di indizi rivelatori sul mistero che avvolge la vita di Anna. Pensavo per esempio al percorso emotivo reso attraverso il dettaglio delle mani di Giovanna che all’inizio cercano il contatto con il marmo e alla fine quello del volto della figlia restituendo la protagonista a un sentire a cui non era più abituata.
Più che di thriller parlerei di un intricato viaggio dell’anima, definizione più adatta a un racconto ispirato alla vita reale. Per quanto riguarda le mani il contatto è un termine che mi piace perché esprime bene il modo con cui ci rapportiamo alle cose e alle persone. Nel caso di Giovanna toccare le pietre equivale ad assorbirne l’energia senza considerare che si tratta di un gesto tipico di chi fa quel mestiere. D’altronde anche chi non lo fa quando guarda il marmo ne rimane incantato come fosse un’opera d’arte perché la pietra contiene un’energia che emoziona e destabilizza.
Anche in fase di scrittura la scelta di farle fare quel lavoro non è stata casuale ma suggerito dalla maniera in cui sentivo il personaggio. La cava dal colore rosso per esempio è stata scelta proprio perché rimanda ai legami di sangue che esploro. Questo a conferma all’interno del film di immagini spia, come le chiamo io, che anticipano lo sviluppo del racconto. Penso per esempio a quella dello sgretolamento della pietra durante il sopralluogo alla cava. Giovanna ne rimane colpita non perché non abbia mai assistito a quella operazione ma perché ha la percezione di qualcosa che va contro quell’ordine su cui ha impostato la sua vita. Il contatto con le mani è importante in ospedale quando Giovanna va a trovare Anna e nel momento in cui tornando a casa ritrova sua figlia.
Anna e Giovanna sono due personaggi: per ragioni diverse entrambe tengono lontane le persone.
Sì, assolutamente sì e nonostante questo finiscono per cercarsi. Giovanna è spinta all’incontro dalla necessità di trovare il donatore giusto per il trapianto. Senza quella motivazione probabilmente non l’avrebbe cercato e di fronte ad Anna si ritrova in una situazione più difficile di quella immaginata. Per lei il tentativo di rompere le barriere psicologiche erette dalla donna si trasforma nel bisogno di essere ascoltata e soprattutto accettata.
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Una rinascita per Giovanna
In una sequenza riprendi dall’alto il viso di Giovanna immerso nell’acqua della vasca da bagno. Considerando che questo avviene anche dopo l’incontrato con Anna l’atto assume un significato ancestrale e simbolico, segnalando la dimensione di rinascita vissuta dalla protagonista.
Come la pietra anche l’acqua è un elemento importante per Giovanna perché trae energia anche da quella. Nel film si capisce che l’apnea le dà un senso di liberazione, di reset, perché quando lo fa, come nella scena di cui mi hai chiesto, è come se tornasse nella pancia della madre per poi rinascere ogni volta. Sulle prime è un gesto istintivo, poi capisce che serve per compensare qualcosa che inconsciamente le è sempre mancato. Non a caso quando entra nella stanza segreta e vede la fotografia di Anna incinta è come se si riconoscesse per la prima volta in qualcuno. A quel punto il bisogno di trovare una nuova identità, quella vera, diventa una priorità che mette tutto il resto in secondo piano, compresa la malattia. La sua necessità è di capire chi è e a chi appartiene. Nel momento in cui vede quella pancia, Giovanna si riconosce in Anna e comincia a immaginare che tutta la sua esistenza poteva andare diversamente. Inizia a pensare che la madre non voleva abbandonarla ma sia stata costretta a farlo. Inizia a desiderare che tutto possa ricominciare e che quel rapporto si possa sistemare. Ecco allora che l’acqua diventa per lei fonte di rinascita. L’apnea la rimette al mondo ma ora lo fa in modo diverso. Se ci fai caso dopo la telefonata alla figlia si immerge nuovamente nella vasca ma lo fa assumendo istintivamente una posizione fetale perché in quel momento lei non è più madre ma torna a sentirsi figlia.
Nella scena finale è ancora l’acqua a trasmettere ai fatti ulteriore significato. Anche lì si può parlare di rinascita perché quando Anna si immerge nel lago lo fa con una consapevolezza nuova e conciliante sia nei riguardi di Giovanna che di se stessa. L’acqua suggella un finale catartico che regala ai personaggi un finale meno drammatico di quello che sembra.
Assolutamente sì, anche quella è una rinascita. Anna fa una scelta molto dura ma questa le restituisce ciò che aveva perduto: la vita. Il finale aperto ci lascia una grande speranza e a quel punto l’acqua diventa il sigillo di un incontro che ha reso le due donne un’unica persona. Donandole l’organo Anna regala a Giovanna una nuova esistenza e nel contempo rimette in moto la vita che aveva fermato dopo una profonda tragedia. Quella che aveva trasformato la sua casa in una specie di tomba, con lei sepolta dagli oggetti accumulati nel corso del tempo. In questo senso il finale sancisce l’incontro tra la vita e la morte, ma sempre a favore della vita.
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Per quello che racconta il film e seppur con diversità che riguardano personaggi, ambiente ed epoche storiche Per il mio bene mi ha fatto pensare a La scelta di Sophie. Entrambi raccontano in maniera struggente la scelta più tragica per una madre, quella di decidere chi dei due figli deve sopravvivere.
Certo, perché nei due film c’è un dilemma anche etico molto forte rispetto a quello che è giusto o meno fare in determinate situazioni, quindi sì, assolutamente è un paragone che ci può stare.
Le due protagoniste del film di Mimmo Verdesca
Come si faceva una volta, Per il mio bene è costruito sulle facce delle attrici, in particolare di quelle di Barbora Bobulova e di Marie-Christine Barrault. Volevo chiederti del modo in cui le inquadri, facendone una sorta di ritratto pittorico.
Mi fa piacere perché stai citando termini che io e i miei collaboratori abbiamo utilizzato nella fase di preparazione. Pittorico è il concetto che abbiamo pensato con il mio direttore della fotografia, Federico Annicchiarico, per decidere che veste dare alle immagini che volevamo realizzare. È vero che il film si concentra molto sui volti perché è da lì che nascono le emozioni. Nei miei documentari che hanno preceduto questo film sono sempre andato alla ricerca degli aspetti emotivi pur utilizzando materiale reale e non ricostruito.
Per me l’emozione è fondamentale, è qualcosa che mi appartiene anche quando lavoro ed è qualcosa che cerco in tutti i modi di trasmettere al pubblico. L’emozione la racconti attraverso un’espressione, uno sguardo, un gesto, anche piccolissimo, in apparenza insignificante. Per esprimerle non servono le parole. Nel volerle raccontare ho sentito che l’unica strada era l’essenzialità, la semplicità, perché solo attraverso uno stile minimale avrei potuto esaltare il sentimento senza che questo fosse filtrato da qualcos’altro. I primi piani sono fondamentali, perché, come ti dicevo, l’emozione la trasmetti attraverso uno sguardo, un’espressione, un viso anche segnato, ma vero.
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Come la Monna Lisa di Leonardo da Vinci il viso di Marie Christine Barrault è altrettanto fermo ed è questo a creare il mistero che si nasconde dietro il suo sguardo. Volevo capire se c’è stato da parte tua questo ragionamento?
Sì, sì, è proprio così. Marie-Christine Barrault è una grande attrice che ho voluto con tutte le mie forze perché mi interessava anche un volto che in Italia non fosse molto riconoscibile e che dunque potesse risultare con più facilità misterioso, per un ruolo respingente ma anche amabile nel momento in cui Anna inizia a cambiare atteggiamento verso il mondo esterno, rappresentato da Giovanna. Anna non è un personaggio positivo e propositivo come lo sono quelli di Stefania Sandrelli a Sara Ciocca. Per certi versi duro è anche quello di Giovanna anche se poi si scoprirà una persona diversa. Questo per dire che Anna aveva bisogno di un viso con una certa intensità espressiva. Essendo una donna che ha smesso di vivere Anna è un personaggio congelato e dunque fermo nel tempo a causa di un profondo e lacerante senso di colpa. Dunque è giusto quello che dici anche se poi questa durezza finirà per ammorbidirsi nel momento in cui Giovanna ha un gesto di attenzione nei suoi confronti. Per riuscire ad esprimere tutto questo Marie-Christine si è messa veramente a nudo.
I volti
A proposito di nudità, sia quello di Giovanna che di Marie-Chistine sono visi senza trucco, segnati come sono dal tempo e dalle rughe. Una scelta fotografica ed estetica che le rende ancora più belle.
Sono visi veri, su cui pesano un passato e un presente molto complicato. Per Anna e per i personaggi che le sono accanto sono andato alla ricerca della verità espressiva, come anche per il personaggio di Leo Gullotta, Luciano.
All’inizio il volto di Giovanna è levigato e perfetto per poi perdere smalto mano a mano che si avvicina alla verità. Al contrario di quello di Anna che inizialmente è sofferente e invecchiato per poi ringiovanire con il ritorno alla vita. È come se i due personaggi si scambiassero i ruoli.
Bravissimo Carlo, è proprio così, è come se Giovanna diventasse Anna e Anna diventasse Giovanna. D’altronde se ci fai caso, i due nomi rimandano a un segno d’unione perché quello di Giovanna contiene il nome dell’altra. Si tratta di due nomi convergenti e se vogliamo anche interscambiabili che diventano uno unico. Questo perché con l’andare avanti della storia Giovanna entra in connessione con Anna, ne condivide le fragilità e si riconosce in questa donna. Soprattutto sente che quella è la sua appartenenza, ritrova la sua vera identità e quindi si strucca, si toglie la maschera perché non ha più bisogno di mostrarsi, di apparire forse come gli altri si aspettano da lei. Diventa se stessa. Anna, invece, nel momento in cui percepisce l’attenzione di qualcun altro, in questo caso di Giovanna, comincia a ritrovare la sua “bellezza”: inizia cioè ad amarsi dopo anni in cui si è odiata e per questo trascurata. Lasciarsi accudire, addirittura pettinare e truccare da Giovanna, significa ricominciare a fidarsi degli altri. Solo dopo capisce quanto sia importante amarsi, tant’è vero che quando va all’appuntamento finale si trucca e si pettina.
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Sembra ringiovanita
Sì, esatto, è perché ha ritrovato vita.
Il 2024 di Barbora Bouboluva
Bobulova e Barrault si rendono protagoniste di due performance straordinarie in un anno in cui la prima è stata sullo schermo anche con Il sole dell’avvenire e Iddu.
Premetto che ho avuto la fortuna di lavorare con tutti gli attori a cui avevo pensato in fase di sceneggiatura. Molto del merito lo si deve al testo scritto insieme a Monica Zapelli e Pierpaolo De Mejo perché poi è stato questo che li ha convinti ad accettare il ruolo. Prima delle riprese abbiamo avuto il tempo di prepararci con una serie di letture a tavolino con tutti gli attori e per questo ringrazio la Rodeo Drive, nelle persone di Marco Poccioni e Marco Valsania che, con Rai Cinema, hanno prodotto il film, perché avere la possibilità di farlo oggi non è scontato. Questo tipo di film però ne aveva bisogno, quindi con Stefania Sandrelli, Sara Ciocca, Leo Gullotta, Marie-Christine e Barbora Bobulova ci siamo immersi nella lettura a cui hanno partecipato anche gli attori che avevano una sola scena perché era necessario che tutti si sentissero coinvolti e fossero a conoscenza di ciò che stavamo raccontando.
Devo dirti che gli attori si sono lasciati guidare da me. Erano tutti molto in ascolto e pronti al confronto reciproco per cui siamo arrivati sul set con le idee chiare. Tutti sapevamo cosa volevamo fare, tutti sapevano quale fosse il mio obiettivo, quale fosse il risultato che volevo ottenere, quindi si è trattato soltanto di elevare il livello di quello che già avevamo preparato. Anche per la troupe. Il processo è stato bellissimo e posso dirti che sono orgoglioso del risultato. Per quanto riguarda Barbora posso dire che dal film di Ozpetek non era stata più protagonista assoluta di un film. Qui invece torna a esserlo ed emana una luce nuova, matura, bellissima. La stessa cosa è successa con Stefania Sandrelli. Con lei abbiamo lavorato molto in sottrazione, sugli sguardi, accentuando i silenzi. Nel film gli sguardi di Stefania sono molto perforanti esprimendo più di ogni parola il suo stato d’animo, quello di una donna che vive un senso di colpa per la grande menzogna che si è portata dentro per 45 anni e che resta poi in attesa del ritorno di questa figlia tanto amata, con la paura che ciò non avvenga.
Marie-Christine è un’attrice di grande temperamento, sempre in attività. Una volta indossato il cappotto e il foulard rosso di Anna non se li è più levati. Il suo ruolo era difficilissimo perché borderline, di quelli che lì per lì respingi e che poi finisci per amare.
Aggiungo che attraverso la storia e i suoi personaggi volevo anche suggerire delle riflessioni. Ad esempio contro il pregiudizio. Spesso si giudicano negativamente le condizioni degli altri soltanto perché diverse dalle nostre, senza cercare di capire cosa ha portato a quella condizione. Giudichiamo una cosa giusta o sbagliata senza considerare che nessuno può stabilire con certezza da che parte sta la verità.
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Richiami
Devo dirti che la prima immagine mi ha fatto pensare subito a Cuore Sacro anche in considerazione che la protagonista del film di Ozpetek compie un cammino abbastanza simile a quello di Giovanna.
Essendomi nutrito da sempre di cinema, faccio scelte anche romantiche, come lo è l’idea di pensare a dei personaggi e di proporli ad attori che sono stati protagonisti di film appartenenti alla storia del cinema e che hanno lavorato con maestri da me particolarmente apprezzati. Quindi ti posso dire che siccome Ferzan Ozpetek è un regista che amo molto perché lavora sulle emozioni come piace a me l’idea di avere nel mio film Barbora già protagonista di Cuore Sacro è stato quasi naturale così come scritturare Sara Ciocca che ha lavorato ne La dea Fortuna. Avere con me Stefania Sandrelli, icona del cinema italiano e attrice e protagonista de Il Conformista, uno dei miei film preferiti e ancora Leo Gullotta che ha partecipato a Nuovo Cinema Paradiso, film che da bambino ho amato prima di tutti, per non dire di Marie-Christine Barrault musa di Eric Rohmer è stato come coronare un sogno. L’idea di omaggiare nel mio film la storia del cinema attraverso loro, per me è stata una cosa bellissima ed emozionante.
Il cinema di Mimmo Verdesca
Parliamo del cinema che ti piace.
Come avrai capito amo i film che mi emozionano. Non c’è forma che tenga, non c’è visionarietà che possa sostituirla. L’emozione è quella che porta la gente al cinema, che ti fa riflettere, che ti fa sorridere, che ti fa piangere, che ti fa entrare in empatia con quello che stai guardando. Ti parlo come spettatore perché prima di essere un regista, uno sceneggiatore, sono uno a cui piace andare al cinema. D’altronde i film che faccio sono quelli che vorrei vedere in sala come spettatore.