Il mondo può essere piacevole e bello, ma non per tutti.
Come si trova un senso all’insormontabile peso del lavoro, del matrimonio, della vita? Sono queste le tematiche esistenziali che troviamo negli scorci di vita raffigurati in Cataract (Katarakta), presentato in questi giorni al Rome International Documentary Festival.
La sezione è SHORT-DOC, dedicata ai cortometraggi documentaristici sotto i 30 minuti e già disponibile online sul sito di mymovies.it. Il regista, Łukasz Iwanicz, fotografo polacco e nuovissimo rampollo della Warsaw Film School, si è laureato proprio con quest’opera, già presentata al 45° Cairo International Film Festival poche settimane fa.
L’antologia di Cataract
Il cortometraggio ha natura apertamente antologica, anzi triplice: vediamo infatti una sequenza di interviste a tre diverse donne polacche, separate ed isolate in tre diverse località. L’anima, però, è unitaria. Da un luogo a un altro, da un corpo a un altro, sentiamo sempre una voce stremata dal tempo che sussurra la propria storia, un punto di partenza per tornare poi a riflettere sulla propria esistenza davanti alle scale di grigi della propria routine.
L’ombra del passato…
La voce di ogni donna ci accompagna per tre, quattro minuti nella loro vita, ognuna gravemente segnata dai propri trascorsi. Sono sospiri solitari e anonimi: le protagoniste non si presentano mai per nome e nessuna domanda esterna interviene ad interrompere i loro discorsi. Quelle che sentiamo nel minutaggio sono delle confessioni, e come tutte le confessioni sono borbottate e prive di titolo o volto.
Nonostante l’apparente distanza fra ogni personaggio, però, rapidamente notiamo un fil rouge (forse sarebbe più corretto dire fil gris…) che le collega tutte. Ci vengono poste davanti donne andate ben oltre la mezza età, qualche volta negli effettivi anni e qualche volta solo nell’anima, nei segni del corpo. Sono donne stanche e affaticate, che sembrano rimuginare tristemente sulla propria vita, quasi già larve ultraterrene. E queste vite sono anche tristemente simili: in ognuna c’è un matrimonio nel fiore degli anni, un uomo che le ha portate nella fase successiva della loro vita, senza sapere però di starle anche trascinando nel baratro. Relegate nelle case popolari, cacciate dal proprio nido, vedove, qualunque sia la tragica vicenda, ognuna di queste vecchie ragazze è stata irrimediabilmente macchiata dal vincolo stretto da giovane. Da cui non sembrano ancora sapersi liberare.
…e il fardello del quotidiano.
Le storie raccontate in Cataract sono puramente orali, sospese. Ad esse si accompagna, parallelo ed unito, il piano visivo. Iwanicz segue ogni storia con una sequenza di immagini, con inquadrature perlopiù completamente fisse che racchiudono perfettamente i mondi vissuti dalle protagoniste. Una tecnica insolita ma incredibilmente raffinata, che anche il cinema nostrano ha dimostrato di saper utilizzare con il recente Vermiglio. Ecco quindi che il cortometraggio sembra procedere per assoluti: vediamo intimi dettagli, come un piedino che si stiracchia, una mano che stringe le coperte, un ripostiglio sporco. O anche alienanti campi lunghi: un uomo lontano che lavora la terra, code infinite di automobili, orizzonti oceanici. Queste visioni rendono le figure delle donne delle semplici briciole, spezzate e disperse per tutta l’opera: tutto ciò che ci è concesso vedere nella confessione. Che è una confessione pudica ma anche rigorosa, severa, come dimostra l’elegante bianco e nero utilizzato dall’inizio alla fine.
Con questa lunga sequenza di quadri, il regista sembra volerci descrivere al meglio la realtà fisica e contemporanea vissuta nella routine delle tre donne, la fatica quotidiana che si fa perfetta incarnazione della loro condizione e avversaria dei loro ricordi malinconici. Iwanicz ci delinea così le giornate delle protagoniste, tutte accompagnate dalla ripetitività stancante del lavoro: galline da visitare, vestiti da piegare, aspirapolveri da passare. Alle immagini si accompagna anche una precisa cura del suono che echeggia sullo sfondo di queste fatiche, sia esso il rimbombo di una lavatrice o l’abbaiare di un cane.
Questi dettagli riportano a terra una narrazione altrimenti troppo lontana e dispersiva, ancorandola anche ai più disparati luoghi che l’accompagnano. Passiamo infatti con facilità dalle polverose campagne polacche all’alveare brutalista di una città post-sovietica, arrivando infine ad una casa in riva al mare. Una vista anche fascinosa, se non fosse per il vento che sibila sullo sfondo, o le pale eoliche che nascondono l’orizzonte. Non a caso, è qui che troviamo il climax dell’opera: la donna più anziana, più stanca, più cinica. La storia più triste.
Un’opera crepuscolare
Il mondo è bello, tutto ciò che servono sono buone persone.
Il cortometraggio comunque tramonta con un raggio di speranza. Nonostante la tragicità della vita, il peso di ogni giorno, nonostante tutto, le tre donne sembrano ancora nascondere un barlume di ottimismo sulla vita; quasi tutte, almeno. E così, davanti allo specchio lunare che accompagna i titoli di coda, le immagini di vita che abbiamo compatito e quelle invece fotografiche che abbiamo ammirato si uniscono in una cosa sola: siamo venuti al mondo per avere un po’ di felicità, e la felicità, come dice una delle tre voci alla fine, è fatta di piccole cose. Le stesse piccole cose, non a caso, che abbiamo osservato per tutta l’opera.
Cataract è un’opera di grande cura, il frutto di uno studio visibilmente rifinito, che con eleganza e delicatezza riesce a ritrarre delle vite, vite dalla gravità apparentemente infinita. Una piccola promessa arrivata fino a Roma dalla Polonia.