Franco Piavoli nasce il 21 giugno 1933 a Pozzolengo (Brescia). Dopo gli studi classici si laurea nel 1954 in legge presso l’Università di Pavia ed esercita per alcuni anni la professione di avvocato. Dall’inizio degli anni Sessanta insegna diritto in un istituto tecnico senza mai smettere di coltivare interesse per l’arte figurativa, la letteratura e le scienze naturali.
Il ruolo della fotografia
Per poter inquadrare il regista all’interno del paesaggio del macrocosmo cinematografico occorre tracciare il percorso di un artista che all’età di nove anni riceve in dono una macchina fotografica da suo padre, medico a Pozzolengo. La macchina fotografica concretizza l’inclinazione naturale di un bambino educato all’osservazione del ciclo vitale delle più piccole forme di vita, incoraggiato da “questa bella d’erbe famiglia e d’animali” la cui intrinseca bellezza non può che svelarsi agli occhi di chi sa coglierla.
Le prime fotografie di Piavoli sono espressione di un talento precoce, portato avanti casualmente e in parallelo a quello di amici che condividevano la stessa passione, in particolare il grande fotografo Ugo Mulas.
Nell’autunno del 2006 Centro Coscienza promuove la mostra e il catalogo “Franco Piavoli. Il dono dei sensi”, presentando più di sessanta fotografie scattate da Piavoli tra il 1951 e il 1953 e i dipinti a olio del 1978 realizzati come storyboard raffinato di una sequenza dell’alba di Il pianeta azzurro.
Le fotografie dell’epoca rivelano un’accorta ricerca della luce e dell’inquadratura, gli oggetti e i soggetti sono ritratti in funzione di cogliere ed evocare emozioni diverse a seconda della luce e della sua inclinazione. Amici e amiche, paesani e contadini restituiscono un ritratto sfaccettato della vita in paese.
Ad eccezione della sequenza dell’alba, molti dei quadri e dei pastelli ad olio – la maggior parte realizzati in funzione di un film – presentati e venduti in occasione di piccole mostre a Brescia, sono andati perduti.
I primi cortometraggi del cineamatore
All’età di vent’anni Piavoli gira Ambulatorio (1954), cortometraggio in bianco e nero su pellicola 8 mm, ambientato nella sala d’aspetto dell’ambulatorio di suo padre.
L’intento del film è quello di cogliere, attraverso i volti tesi dei pazienti che aspettavano di essere ricevuti, l’aspetto umano nel rapporto tra il medico e i pazienti, tra i pazienti stessi e il loro disagio o malattia.
Questo interesse per la vita del suo paese, già approfondito attraverso la passione per la fotografia, si riversa spontaneamente in Ambulatorio e caratterizza anche altri due cortometraggi d’esordio: Uccellanda (1953) e Incidente (1955).
La sera del dì di festa
Le stagioni e Domenica sera – rispettivamente mediometraggio e cortometraggio a colori su pellicola 8 mm – sono spesso accostati, per i temi sviluppati e gli schemi entro cui si svolgono, a due lavori successivi: Voci nel tempo e Il pianeta azzurro.
Le stagioni (1961)
In Le stagioni una ragazza corre metaforicamente attraverso le stagioni dell’anno; la protagonista è interpretata da Neria Poli. Da aiuto regista a scenografa e ancora costumista e poi moglie, la sua collaborazione si rivela presto preziosa: anticipa le intenzioni del regista, offre soluzioni ingegnose che compensano la mancanza di una grande produzione. Ma soprattutto “può collaborare grazie a una profonda complicità che esclude il resto del mondo, a volte specchio che assorbe e chiarisce, a volte maieuta che stimola e suscita”.
Il film viene presentato al Festival di Montecatini, ottenendo la coppa Fedic per il miglior commento sonoro. Un premio significativo e in qualche modo profetico, se si considera lo spessore che il sonoro assumerà in tutti i suoi lavori.
Domenica sera (1962)
In Domenica sera è rappresentato lo svolgimento di un arco temporale che va dal tramonto al crepuscolo.
Il film introduce il tema delle prime attrazioni e degli amori giovanili, che allora in paese erano possibili durante i balli allestiti nelle aie, specialmente la domenica sera.
La colonna sonora è affidata ai suoni dell’ambiente, che compenetrano e amplificano i sentimenti posti sul piano visivo.
Il film vince il trofeo Fedic al Festival di Montecatini, con menzione speciale per il “sensibilissimo uso del colore”, e l’Airone d’oro, assegnato da una giuria di giornalisti.
L’aspetto sociale e antropologico: precarietà e alienazione
Nella realizzazione dei cortometraggi Emigranti ed Evasi, Piavoli si avvale nuovamente del bianco e nero su pellicola 8 mm, per dipingere e raccontare un paesaggio prevalentemente urbano.
Emigranti (1963)
Per girare Emigranti Piavoli sale su un treno diretto a Milano, nella carrozza di seconda classe, e documenta lo smarrimento, la stanchezza e lo sradicamento dalla terra natale degli operai costretti a lavorare all’estero.
Nel film si possono distinguere tre movimenti: la prima parte, caratterizzata da un ritmo lento e cadenzato dal suono del treno sulle rotaie, vede una sequenza di primi piani sui passeggeri; alcuni riposano, altri consumano il proprio pasto, qualcuno osserva il paesaggio piovoso dal finestrino.
L’arrivo alla stazione segna il passaggio alla seconda parte, il cui ritmo si fa frenetico; i passeggeri si affrettano incalzati dalla voce dell’altoparlante, affaticati con le valige a spalla sulle banchine affollate.
L’ultima parte riprende la sala d’aspetto della stazione, e la desolazione di altri passeggeri in attesa del convoglio successivo. Le inquadrature statiche e l’assenza di movimento nella sala prendono il posto del montaggio serrato della parte precedente; gli unici suoni che si percepiscono provengono da una persona che tossisce, infine il pianto di un bambino fuori campo.
“I richiami confusi dei viaggiatori, la voce ossessiva dell’altoparlante e i lamenti nella sala d’aspetto rendevano meglio di ogni dialogo il dramma dello smarrimento”.
La critica ha posto l’accento su un possibile richiamo neorealista del film.
Il film ottiene il trofeo Fedic al Festival di Montecatini, il premio Unica al Festival Internazionale del Cinema d’Amatore a Copenaghen e il Mascherino d’oro al Festival di Salerno.
Evasi (1964)
Evasi si avvale prevalentemente di primi piani, per cogliere l’essere umano nei momenti di alienazione e aggressività.
Il tifo dello stadio – ripreso tra Bologna, Brescia e Mantova – è contrapposto alla figura di una bambina che con indifferenza si distrae nell’osservare il passaggio di un aereo.
Il tifo sfrenato sfocia in una manifestazione di violenza repressa, ora sollecitata dalle circostanze.
Il film si chiude con una sequenza di immagini che rivelano uno stadio vuoto e cosparso di rifiuti. Tra questi, dei giornali stracciati dai cui titoli emergono le parole “catastrofe” e “bombardamento”.
Il film si avvale di un ritmo meno serrato rispetto a quello della seconda parte di Emigranti. La frenesia è resa infatti dall’indugiare delle inquadrature impietose sui volti dei tifosi, colti all’apice della tensione e contratti in una smorfia grottesca.
A proposito del commento sonoro Piavoli dice:
“Con Evasi ho voluto sottolineare la sopravvivenza barbarica e selvaggia nella voce umana”.
Il film ottiene il trofeo Fedic al Festival di Montecatini.
L’era del cinema polifonico: Il pianeta azzurro (1982)
Quando Silvano Agosti negli anni Settanta vide Le stagioni, propose a Piavoli di realizzare un film più ampio sulla stessa traccia visiva, e gli portò una vecchia Arriflex, la moviola e la pellicola, dandogli carta bianca su tempi e scelte. Inizialmente la pellicola consisteva delle code delle pellicole delle produzioni ufficiali, successivamente di chassis interi grazie a dei finanziamenti. Il risultato fu un lungometraggio a colori della durata di 90’ su pellicola 35 mm.
A proposito delle ragioni che portarono alla realizzazione del Pianeta azzurro – l’azzurro del titolo fa riferimento al colore della terra se osservata dallo spazio – nell’intervista allegata all’edizione italiana in DVD Piavoli dichiara: “Ho voluto ritagliare un fazzoletto di questa terra e cercare dentro questo piccolo territorio di rivisitare tutti i passaggi e i momenti essenziali della vita vegetale, animale e umana: descrivere questi passaggi nell’arco di un giorno partendo dall’alba, per arrivare alla sera, alla notte e all’alba successiva per dare questa elementarità quotidiana dei comportamenti umani e animali. Nello stesso tempo però ho voluto inserire questo ciclo di ventiquattro ore in un arco temporale più ampio, nell’arco appunto dell’anno, delle quattro stagioni e poi ancora ho voluto dilatare il tempo per cercare di dare la sensazione, specialmente all’inizio, di partire da ere ancora più lontane; con le prime inquadrature che descrivono i ghiacci e poi lo scioglimento dei ghiacci ho voluto riportarci alle origini”.
La natura delle cose
Il film, frutto di tre anni di lavoro (un anno e mezzo per girarlo e un anno e mezzo per il montaggio finale e per la post-produzione), si apre con una citazione di Lucrezio: “Il nascere si ripete di cosa in cosa e la vita a nessuno è data in proprietà ma a tutti in uso”. Un testo fondamentale nella formazione artistica e spirituale del regista:
“Il De rerum natura è un testo di riferimento essenziale per tutto il mio cinema, un’opera che ritengo anticipatrice delle teorie moderne di Darwin. Penso che ogni mio film ne sia in qualche modo permeato”.
Il pianeta azzurro si svolge nell’arco di tre piani temporali: un giorno nelle sue ventiquattro ore, un anno suddiviso in quattro stagioni, e diecimila anni se si considera il termine dell’ultima glaciazione.
La prima sequenza di inquadrature, girata nella palude poco distante dalla casa del regista, rimanda piuttosto ai paesaggi della Penisola Antartica. Sono ripresi pazientemente i movimenti delle bolle d’aria sotto la superficie gelata di un corso d’acqua, e al movimento brulicante delle acque dopo il disgelo è accostata l’immagine delle onde causate dal vento su un campo di grano. Poi, sulla superficie di uno stagno eutrofizzato di un verde acceso, l’ombra distorta di un albero con intricate ramificazioni che rimanda alla paleoflora di un’altra era geologica.
Il montaggio sonoro
Accanto al piano visivo dello scorrere delle stagioni – dalla sensualità dell’esplosione erotica insita nella primavera e accostata al periodo della giovinezza alla maturità dell’estate, intesa anche come maturità del raccolto – un ricco contrappunto sonoro, mai sottofondo ma sempre protagonista sullo stesso piano delle immagini, articolato come una partitura musicale: la successione dei suoni determina il ritmo della sequenza visiva e viceversa.
L’infinito
Per Piavoli “l’esempio più alto di montaggio visivo-sonoro lo troviamo ne L’infinito di Giacomo Leopardi”, – il nome del poeta e di Darwin sono citati nei titoli di coda come collaboratori – sostiene infatti che “la percezione profonda del concetto di infinito è resa con la tecnica del montaggio per stacco di piani diversi. Nel montaggio visivo “questo colle e questa siepe” (primi piani visivi) sono accostati per stacco a “ultimo orizzonte” (campo lunghissimo). Nel montaggio sonoro lo stormire delle fronde e “questa voce” (primi piani sonori) sono accostati per stacco a “l’infinito silenzio” (campo lunghissimo sonoro). Considero mio grande maestro Giacomo Leopardi; credo che la sequenza finale de Il pianeta azzurro non possa essere intesa prescindendo dall’infinito leopardiano”. Sequenza in cui è presente l’unico brano musicale del film, una Messa di Josquin Desprez, scelta dal regista per infondere le immagini di “arcana religiosità”. Una religiosità che la critica ha spesso interpretato come una visione “panica” della vita, la stessa visione che probabilmente porta il regista a rifiutare l’uso della parola nel suo valore denotativo, sostituito ora da quello fonico.
“La forza di comunicazione e di persuasione del verbo amare, ad esempio, non risiede tanto nel suo valore denotativo, quanto in quello fonico, tonale e cioè musicale. Quasi sempre nella fase decisiva della seduzione erotica l’uomo abbandona il linguaggio articolato e si affida ai suoni puri. Così avviene anche quando è in preda alla paura, quando si lamenta per esprimere il dolore, quando piange, quando urla per aggredire o per difendersi”.
Il montaggio visivo
La struttura del montaggio è articolata rispettando sia la successione temporale (le ore del giorno e l’ordine delle stagioni), sia dei criteri analogici; l’accostamento visivo di due o più inquadrature è infatti espediente frequente ed efficace, e permette al regista di inquadrare l’essere umano nell’ambito della fauna e della flora del paesaggio, sia sul piano visivo che su quello sonoro.
I notturni, ripresi soltanto con la luce naturale del chiaro di luna, sfruttano e richiamano la pittura magrittiana; le scene di convivialità osservate attraverso le porte e le finestre illuminate di una casa sono contrapposte al silenzio e all’immobilità della notte, la luna si sporge appena dalle fronde di un albero.
La sequenza autunnale del film indaga le manifestazioni del male nella vita dell’essere umano; sui toni spenti di questa stagione si svolge una lotta tra fratelli, divisi per un palmo di terra.
“È questo uno dei momenti più dolorosi del film, che però ho voluto esplicitare. Ritengo che proprio questa componente aggressiva sia un elemento costitutivo essenziale della vita umana”.
La pioggia è l’elemento di transizione tra le scene che vedono l’essere umano in preda alle sue manifestazioni più furiose, e le riprese che catturano la trasformazione degli ambienti umani attuata dal tempo e dall’abbandono.
“Dopo il litigio, nelle sequenze finali del film, si vede la casa abbandonata, si vedono gli strumenti superstiti come di un mondo ormai in decomposizione, un mondo che sta per finire”.
Nella nebbia la voce di una donna si confonde con l’ululare di un lupo.
Andrej Tarkovskij a proposito del film scrisse queste parole:
“Il pianeta azzurro: poema, viaggio, concerto su la natura, l’universo, la vita. Un’immagine diversa da quella sempre vista. Vero e proprio anti-Disney”.
Nostos. Il ritorno (1989)
Il film (lungometraggio a colori della durata di 87’ su pellicola 35 mm) – girato tra Sardegna, Campania e Lombardia – si ispira al poema omerico sul ritorno di Odisseo dopo i massacri e gli orrori della guerra. Nostos/Odisseo (interpretato da Luigi Mezzanotte) e i suoi compagni, dopo aver incendiato una città, approdano a un’isola.
Le prime immagini del veliero sul mare, con la foschia che confonde la linea dell’orizzonte, richiamano inequivocabilmente la pittura impressionista.
Antichi dialetti mediterranei
Nostos prosegue in solitudine fino all’ingresso di una grotta e dopo essersi addentrato tra le rocce pronuncia, con il tono di un’invocazione, la parola latina mater.
I dialoghi del film, come per i precedenti lavori, assumono un valore fonico piuttosto che denotativo. Il parlato è il risultato di una rielaborazione di antichi dialetti mediterranei, che attinge al retaggio linguistico del latino, greco e sanscrito.
Quando Nostos si avvia verso i suoi compagni e la nave ormeggiata, fa esperienza di un ricordo d’infanzia – immagine che gli appare anche in sogno in una delle inquadrature che aprono il film – di un bambino che rincorre un cerchio. La stessa immagine, presente anche nella sequenza finale, si ripete assumendo sia una valenza simbolica che stilistica, conferendo maggiore unità al racconto; il cerchio rappresenta così la successione del tempo, ma anche il desiderio di Nostos del ritorno ai luoghi dell’infanzia.
Durante la ricerca dei compagni avviene l’incontro tra Nostos e Circe, orchestrato da un passaggio di Circles di Luciano Berio.
Nostos e i suoi compagni, ancora una volta per mare, vivono nella notte la tragedia del naufragio.
Il giorno seguente, quando Nostos realizza di essere l’unico sopravvissuto, è messo di fronte alla realtà del dolore che ha causato durante la guerra e al rimorso che lo perseguita.
“Ho voluto dare questa lettura di un Ulisse che vive una fase di riflessione sull’aggressività, ed è una fase che l’uomo contemporaneo sta attraversando: ormai è da tempo che l’essere umano si interroga sui propri impulsi aggressivi”.
Nella solitudine della spiaggia deserta Nostos sfoga il suo dolore in un urlo straziante, che si mescola al rombo sordo del vento.
Il Paradiso terrestre
La sequenza successiva vede l’incontro amoroso con Calipso.
“Ho voluto ricreare la mia immagine del Paradiso terrestre; le scene dell’amore le ho girate in Sardegna ma la ricchissima fioritura che circonda i protagonisti è frutto del montaggio: i melograni sono i miei del giardino e così pure i cachi, e gli altri frutti con cui volevo dare l’idea di un’abbondanza, di una ricchezza naturale straordinaria”.
Gli animali catturati in queste immagini sono quasi sempre seminascosti dalla vegetazione, in questo modo la corsa dei fenicotteri sull’acqua, il volo della gru e i movimenti dei pavoni possono essere meglio espressi attraverso la traccia sonora: il crepitio delle foglie, il fruscio delle ali e lo scorrere incessante delle acque al momento dell’apparizione di Calipso – a sua volta seminascosta nel verde – sono accompagnati dal suono dell’arpa.
Nella notte Nostos e Calipso conversano a lungo alla luce naturale del chiaro di luna; seppur pronunciato nella lingua enigmatica adottata dai personaggi, il discorso assume la sfumatura di un addio. Nell’abbandonarsi al sonno ancora una volta l’immagine di un bambino, presumibilmente Nostos, che corre dietro a un cerchio.
Il ritorno
Nostos è nuovamente per mare, non più sulla nave ma su una zattera rudimentale, il cui movimento sull’acqua è accentuato dal debole ondeggiare della cinepresa.
“Quando si scioglie la zattera, Nostos è disperato perché mentre lotta con le onde è perseguitato dai lamenti delle donne ferite in guerra. Le voci umane sono mescolate con le grida, che ho registrato, delle diomedee, degli uccelli simili ai colombi diffusi nelle isole Tremiti – una specie rara – che emettono urla lancinanti. Nella disperazione infinita che lo assale, come ultima ancora di salvataggio, si rivolge alla luna con una preghiera: nuota e mormora una preghiera e a un certo punto entra nella luna”.
Lo scenario nelle inquadrature seguenti, nell’ottica della straordinaria abilità del regista di rivoluzionare i rapporti di distanza, appare così, nella sua rocciosità e nell’ampiezza degli spazi, una rappresentazione ideale del paesaggio lunare. Nostos riconosce in questo paesaggio le rovine della sua isola, ma una sovrimpressione della sua figura ancora in balia del mare suggerisce che l’intera sequenza precedente è frutto della sua immaginazione.
Si compie infine il ritorno alla terra natia e ai suoi affetti; il suono dei campanacci proveniente da un gregge è il segno familiare grazie al quale Nostos realizza di essere tornato a casa.
La sequenza finale del film è accompagnata dal lento incedere del Magnificat di Monteverdi.
Voci nel tempo (1996)
Il film (lungometraggio a colori della durata di 86’ su pellicola 35 mm) – girato tra Castellaro, Solferino e altri paesi dei dintorni – copre l’arco temporale di un anno in un ritorno ciclico che accosta, per analogia, il percorso delle stagioni a quello della vita; al ciclo delle stagioni è sovrapposto quello circadiano di quattro giornate.
Nella sequenza iniziale il campanile scandisce l’ora dell’alba; alla luce dei colori tenui del mattino sono accostate l’inquadratura di un gattino e quella di un neonato. Il suono delle fusa del gatto è sovrapposto ai vagiti del bambino, in un primo dialogo senza parole tra il neonato e sua madre, i suoni provenienti dall’ambiente domestico e quelli degli animali. Un altro bambino sale una scalinata gattonando: nella parte finale del film la stessa scala verrà percorsa da un vecchio cui mancano le forze, una delle metafore più evidenti nel film.
Primavera
La prima giornata è scandita dalle voci acute che caratterizzano gli infanti, dalle nenie e dalle filastrocche recitate, il gioco del nascondino e quelli con la palla; questi elementi sono contrapposti al mondo rigido degli adulti.
Le corse dei bambini nelle piazze e le loro grida sono in contrasto con la lentezza nel passo dei vecchi e con il loro silenzio, la conta del nascondino è svolta inconsapevolmente sulla targa di un monumento ai caduti. Nonostante ciò, è proprio durante questi giochi spensierati che si svela, per la prima volta agli occhi dei bambini, la dimensione simbolica del sacro: una bambina si intrufola furtivamente nella penombra di una stalla, ma al suo gesto impertinente segue lo sbigottimento e la meraviglia alla vista di un vitello appena nato. Un pallone è calciato per sbaglio verso un gruppo di persone riunite in preghiera durante un funerale, ed è quasi con pentimento e mortificazione che un bambino corre a riprenderlo e si allontana velocemente. Alcuni ragazzi corrono verso un convento, e al loro ingresso nella chiesa ascoltano assorti un coro mistico rinascimentale: è rappresentato così il primo richiamo all’istinto della spiritualità.
Estate
Durante la seconda giornata, nel corso della festa del borgo, si svolge il rito del corteggiamento; nella terza giornata è rappresentata una festa di matrimonio.
In Voci nel tempo più che negli altri film il regista, nonostante la predilezione per la macchina fissa, si avvale del movimento di macchina. La scelta è funzionale al fine di rendere la dinamicità intrinseca della giovinezza; la scena in cui dei ragazzi in motocicletta corteggiano delle ragazze girando intorno al pozzo su cui sono sedute è resa da una camera-car.
Anche le inquadrature in campo lungo o lunghissimo dall’alto hanno una funzione relativa alle situazioni rappresentate: “è un momento che serve a distanziare lo sguardo del regista e dello spettatore, permettendo una riflessione più distaccata, uno sguardo meno partecipato. Ho lavorato così anche in chiusura dell’età della giovinezza, quando i due amanti al chiaro di luna sono sdraiati, ed è come se fossero visti dalla luna, o dagli dèi, che chiosano con lo sguardo il rapido passaggio di un’esistenza umana”.
I primi e primissimi piani permettono di cogliere efficacemente le sfumature dell’espressività del volto degli anziani; durante la scena del matrimonio una donna osserva i giovani amici degli sposi con uno sguardo che esprime una sensazione di nostalgia e rimpianto. Nostalgia che è espressa in modo efficace dal brano El castel de Mirabel – canto popolare di tradizione padana eseguito dal coro parrocchiale di Pozzolengo – e da altri canti folcloristici.
Autunno
La quarta giornata indaga la malinconia della vecchiaia, accostata per analogia alla stagione autunnale.
Un uomo disteso sul letto volge lo sguardo verso un orologio, mentre il ticchettio delle lancette accompagna l’intera scena; a questo suono è sovrapposto il rintocco delle campane che segnano l’ora e ancora un picchiettio meno regolare che è quello della pioggia.
Lo scorrere del tempo è scandito da tre ritmi diversi, che nel loro insieme sottolineano il senso di attesa, la quiete e l’immobilità. Il ticchettio delle lancette dell’orologio prosegue nell’inquadratura successiva e si perde in una lenta dissolvenza acustica, fino a venire completamente sostituito dal suono di un corso d’acqua. L’immagine che accompagna questi suoni è quella di un barcaiolo che remando si allontana nella nebbia, inequivocabile riferimento a Caronte.
Il film, come a voler suggerire la ciclicità insita nello scorrere del tempo – che sia il tempo biologico, il ciclo circadiano o il ritmo circannuale – si chiude con un’ultima inquadratura che racchiude la figura di un vecchio e quella di un bambino che, tenendosi per mano, avanzano sulla neve verso la luce del tramonto.
“Mi rendo conto che in Voci nel tempo utilizzo dei cliché. Non faccio che applicare delle regole espressive elementari. Non vedo per quale motivo queste dovrebbero essere capovolte o ricusate semplicemente perché sono luoghi comuni che ci accompagnano da secoli nella visione e nell’interpretazione del mondo. Questi elementi mi servono per poter impiegare un linguaggio che travalichi le lingue nazionali”.
Vent’anni dopo Piavoli realizzerà Festa (2016), mediometraggio che ripropone gli stessi temi di Voci nel tempo, ma trasferiti nella contemporaneità.
Al primo soffio di vento (2002)
Se Il pianeta azzurro ha concesso all’essere umano di reintrodursi, al pari degli altri esseri viventi, nel contesto naturale del mondo, Nostos. Il ritorno ha permesso di raccontarlo nella forma classica del mito; ancora, Voci nel tempo è una ricerca sull’essere umano e sulle dinamiche che caratterizzano una comunità attraverso riti e convenzioni sociali.
La dimensione approfondita dal regista in questo film – Al primo soffio di vento: lungometraggio a colori della durata di 89’ su pellicola 35 mm – è quella dell’incomunicabilità. Il film copre l’arco temporale di un’unica giornata estiva e coglie la solitudine di una famiglia i cui membri, padre, madre, due figlie, la zia e il nonno, raccontano ciascuno il proprio isolamento.
Solitudini
Il padre, dopo aver dato un’occhiata ai suoi poderi e ai lavoratori stagionali, in prevalenza africani, si ritira nel suo studio e scrive al computer alcune riflessioni sulla genetica e sugli elementi che diversificano il mondo vivente. L’esito di queste riflessioni si concretizza in queste frasi: “L’insieme del mondo vivente è come un gigantesco meccano. Con gli stessi elementi, le stesse unità, il mondo vivente si è diversificato nel corso dell’evoluzione. Noi siamo allo stesso tempo tutti parenti e tutti diversi. È questa combinazione infinita di geni che rende unico ciascuno di noi. Ma è questo che fa sentire a ognuno di noi la sua diversità. E la sua solitudine”.
Poi è ripreso davanti alla televisione, in cui appaiono pochi fotogrammi di Evasi, del momento in cui i tifosi inveiscono violentemente da dietro le reti metalliche del campo da gioco.
La dimensione onirica
Nel momento in cui si abbandona al sonno, una sequenza rivela le immagini della sua dimensione onirica, in parte catturate attraverso un vetro smerigliato per poter rendere l’inconsistenza delle forme tipica del sogno: sagome umane, in particolare quelle dei braccianti africani che accedono alla biblioteca della casa e si aggirano tra gli scaffali, alternate a quelle di animali selvatici, animali provenienti da allevamenti intensivi e corpi degli stessi animali macellati, ma anche associazioni infelici tra le immagini viste durante lo zapping televisivo di bambini in condizioni di estrema povertà che accostano le labbra sull’inferriata dieto cui si trovano e gli animali prossimi al macello accalcati dietro le sbarre del recinto.
A proposito di questa ambigua sequenza di immagini Piavoli dice: “I neri prima sono ombre potenzialmente minacciose, poi acquistano tratti più chiari, diventano riconoscibili. Entrano per cercare di acculturarsi, di conoscere i contenuti di questa casa-simbolo dell’occidente. Il protagonista maschile, tuttavia, è angosciato: la preoccupazione maggiore del capitalismo occidentale è che gli ‘altri’ si impadroniscano degli strumenti culturali, che sono quelli che ci permettono di perpetuare il rapporto servo-padrone”.
L’isolamento
Le inferriate sono un elemento ricorrente nel film, dettaglio già presente in Lucidi inganni (1986), mediometraggio a colori commissionato dalla Provincia di Mantova. Appaiono non soltanto nella sequenza onirica, o durante lo zapping televisivo, ma anche in altre forme, per rappresentare metaforicamente la condizione di isolamento, voluto o meno, in cui si trova ciascun personaggio.
La figura della madre è spesso colta in primissimo piano, mentre osserva fuori da una finestra, dietro un’inferriata. La donna, respinta dal marito, si ritira nella contemplazione del ricordo. È il suo personaggio – interpretato da Mariella Fabbris – che in vari momenti del film sussurra, prima frammentariamente, poi in modo completo, poi ancora interrotto, i versi tratti da Le Argonautiche di Apollonio Rodio e dall’epilogo de La Tempesta di Shakespeare fusi insieme, da cui il titolo e l’anima del film: “Rimase immobile, i suoi piedi erano inchiodati alla terra. Si guardavano, muti senza parole, l’uno vicino all’altra, come le querce che hanno radici nei monti e sono immobili. Ma al primo soffio di vento si agitano e sussurrano senza fine. Così a quel modo iniziarono ad amarsi. Ora ogni incantesimo è finito. E la debole forza che mi resta è solo mia”.
Il dolore
“La zia, che vaga alla ricerca di un non meglio precisato Jean, esprime il dolore anche fisico della solitudine”. Nella sequenza in cui la zia sosta nella sala d’attesa di una stazione ferroviaria, ritroviamo la stessa desolazione che caratterizza la terza parte di Emigranti; i primi piani sui volti dei passeggeri in attesa, e in sottofondo il suono dei treni di passaggio. Una delle inquadrature del personaggio della zia è ripresa attraverso le sbarre del cancello del giardino, vista dall’interno; il suo racconto si svolge infatti quasi del tutto in esterni.
La figura del nonno, il cui isolamento dipende dalla malattia, è protagonista di una delle poche sequenze in cui è presente un accenno di sensibilità e contatto umano: “Nel film tutti hanno i loro problemi, solo la domestica, sebbene sia chiamata a compiere determinati atti per dovere, li fa con sensibilità”.
L’incomunicabilità
La figlia minore, che trascorre l’intera giornata nel bosco, in riva a un fiume, incarna la vitalità della giovinezza. È evidente il contrasto tra il buio delle scene ambientate all’interno della casa o i toni grigi dei paesaggi urbani visitati dalla zia, e i colori della vegetazione in cui la ragazza si trova immersa. La sua dimensione di incomunicabilità è espressa dalla solitudine in cui trascorre l’intero pomeriggio. Inizialmente attirata dalle voci di alcuni bambini – che tuttavia non incontrerà – decide di uscire; successivamente, cerca senza successo di catturare l’attenzione di un ragazzo che nuota nel fiume.
Il commento sonoro è dato principalmente dal personaggio della sorella maggiore, che suona il pianoforte per quasi l’intera durata del film. Ripropone gli stessi malinconici temi musicali, tra cui le Gnossiennes di Satie, Le gibet da Gaspard de la nuit di Ravel e le Variazioni su un tema di Gervaise.
Non solo i membri della famiglia presenti in casa, ma anche la zia e la sorella minore sono accompagnate dalla musica che si presenta sia come elemento diegetico, che extradiegetico.
Le cicale compongono il paesaggio sonoro della prima sequenza del film, che si sofferma sul lavoro agricolo dei braccianti.
Nell’ora del tramonto e fino al crepuscolo, il ritmo tribale accompagna il calare del sole sui campi. “Anche gli africani sono calati in una forma di solitudine, però testimoniano come l’emarginazione stessa si possa superare, per esempio nel ballo tribale”.
Il film restituisce le variazioni cromatiche presenti nell’arco di un pomeriggio estivo, fino alla notte e al buio, in una lunga panoramica del cielo stellato. Nella sequenza finale “il coro di grilli vuole invece costituire il concerto notturno che accompagna la vasta distesa delle stelle nello spazio”.
Bibliografia
Franco Piavoli. Immagine e suono, a cura di Costanza Lunardi, Grafo, Brescia, 1997
Lo sguardo in ascolto, a cura di Alessandro Faccioli, Kaplan, Torino, 2003
Franco Piavoli. Il dono dei sensi, a cura della Fondazione Tullio Castellani, Edizioni di Maieutica, Milano, 2007
Filippo Schillaci, Il cielo, l’acqua e il gatto. Il cinema secondo natura di Franco Piavoli, Artdigiland, Dublino, 2020