Una tragica casualità e una splendida empatia artistica per uno dei documentari più potenti degli ultimi anni. In concorso internazionale al Rome International Documentary Festival.
Miglior film e premio della giuria FIPRESCI nel 2023 a IDFA, il più importante festival di cinema documentario europeo, 1489 è il film d’esordio dell’armena Shoghakat Vardanyan.
Plasmare immaginari; lavorare con il visivo e il sonoro; costruire opere cinematografiche all’interno del panorama sociale umano. Questo, per un filmmaker, è il lavoro. E come ogni professione richiede un numero definito, anche se costantemente variabile, di capacità che possono essere strutturate secondo parametri oggettivi: scrittura, regia, fotografia, montaggio, suono, produzione, post-produzione. Azioni, gesti, attenzioni e movimenti che possono essere insegnati e acquisiti.
Ciò che è inafferrabile è però un certo non so che. Una potenza leggiadra che deriva da un mix di casualità e intuito. Una qualità umana nelle zone liminali tra curiosità, riflessione e sguardo empatico.
In 1489 sono proprio una tragica casualità e una splendida empatia artistica gli ingredienti di quel non so che che rende il documentario dell’armena Shoghakat Vardanyan uno dei film più potenti e delicati degli ultimi anni.
Scrive la regista:
“Ero una musicista che non aveva mai studiato cinema, ma le emozioni che avevano travolto la mia famiglia mi spinsero a usare il telefono per riprendere e documentare tutto ciò che stavamo vivendo. Nessuno immaginava che queste riprese sarebbero diventate un film…”
Vardanyan ci conduce così, con delicatezza, nel cuore della sua esperienza familiare, quella della scomparsa del fratello minore durante la guerra dell’Artsakh del 2020, trasformando il proprio dolore in una riflessione visiva densa, apparentemente scarna ma in realtà pregna di poesia, accompagnata da un titolo che diventa monito e simbolo di perdita.
“Il numero 1489, sta per ‘Disperso durante un’azione militare’. Questo numero ha chiuso in modo amaro la nostra storia, ma ha messo la parola fine. Cosa che a molte famiglie ancora manca.”
Nel recuperare le fila di questa perdita 1489 diventa cella di contenimento del dolore, verso religioso, confine geografico dell’assenza.
La camera nel farlo rimane all’altezza degli occhi fraterni di Vardanyan, interagendo con lo spazio e le persone con familiarità profonda. Lo spettatore diventa tutt’uno con l’autrice e percorre il suo tentativo di staccarsi dalla sofferenza e diventarne ella stessa semplicemente spettatrice.
La camera non diventa solo strumento di registrazione, ma diario personale: finestra da cui si osserva, sperando che il dolore arrivi così più ovattato.
Lo spettatore insieme a Vardanyan diventa testimone silenzioso di momenti strazianti e di una ricerca che è tanto pratica quanto simbolica: trovare un fratello scomparso, ma anche un nuovo senso all’interno di una vita, personale e familiare, spezzata.
Questo non è (solo) un film sulla guerra
La guerra dell’Artsakh è la guarra trentennale di una regione a maggioranza armena ceduta all’Azerbaijan durante l’Unione Sovietica. Una guerra per l’autodeterminazione nazionale che va avanti dal 1988, tra periodi di relativa stabilità e altri di attività militare intensa.
La guerra però, in 1489, non è mai protagonista diretta. Rimane distante: una presenza costante ma che si insinua senza palesarsi, attraverso voci di telegiornale e immagini sullo sfondo. È incomprensibile perchè parla una lingua sconosciuta, fuori campo o semplicemente ignorata: come un armistizio presentato come un evento freddo e burocratico di cui però non si capisce il senso profondo. Un armistizio che non porta sollievo, ma solo ulteriore perdita: comunitaria e familiare.
Le politiche della guerra sono nel film voci fuori campo, facce lontane dentro una televisione. Sono dove le famiglie delle vittime della guerra le vedono: distanti e costanti. Fuori campo il loro dolore ma persistenti nella loro quotidianità.
1489 è un film che nel trattare il conflitto come la sofferenza, i legami umani come le crisi personali, è investito di una sobria bellezza. Ogni gesto, anche il più banale, si carica di energia che non esplode, ma anzi rimane sotto pelle: come quando da un furgone con dei giovanissimi militari si allontanano verso il fronte passiamo a una macchina da cucire che mitraglia in primo piano una federa per cuscini.
O come quanto sbirciamo un Natale passato e uno presente uno di seguito all’altro: uno dove Soghomon c’è e uno dove c’è invece sua sorella, i capelli rasati, e la speranza in un ritorno che non verrà.
Il dolore è sempre presente, ma raccontato con quella compostezza che non cede mai alla retorica.
1489 non è un film sulla guerra. È un atto d’amore.