Rome International Documentary Festival

‘La Meccanica delle Cose’, un emozionante viaggio attraverso le ferite del corpo e dell’anima

Un racconto sospeso tra speranza, illusione e accettazione

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La Meccanica delle Cose, documentario di Alessandria Celesia, è in concorso nella sezione ITA-DOC al Rome International Documentary Festival, in programma a Roma dal 5 al 9 dicembre 2024.

La trama di La Meccanica delle Cose

Tito, il gatto di Alessandra Celesia, è caduto dall’ottavo piano di un palazzo ed è rimasto paralizzato.

La filmmaker, però, non si arrende all’idea che il suo piccolo amico non possa più camminare con le zampe posteriori, e perciò decide di farlo operare in Cina, dove pare ci siano alcuni scienziati in grado di rigenerare il midollo spinale attraverso una cura sperimentale.

Alessandra e Tito non sono soli: assieme a loro c’è un gruppo di persone giunte dalla Francia che sperano di riacquistare l’uso delle gambe.

Nel frattempo, la regista è alle prese con le conseguenze psicologiche di un incidente stradale che ha risvegliato in lei alcuni sensi di colpa legati alla depressione del padre.

L’analisi di La Meccanica delle Cose

Il concetto di ferita e cura ricorre spesso nel cinema di Alessandra Celesia, autrice dallo sguardo intimo e poetico, sovente focalizzato su esistenze difficili, passati dolorosi, percorsi di rinascita alimentati da sogni e speranze.

Ne è un esempio il precedente film della regista e attrice valdostana, Anatomia del Miracolo (2017), in cui il rapporto malattia/guarigione veniva messo in relazione con le istanze d’intercessione divina.

La Meccanica delle Cose (2023) – nel titolo internazionale, The Mechanics of Things – si inserisce all’interno di questo discorso spostando il termine di riferimento dal sovrannaturale alla scienza, e partendo dal presupposto che, se quest’ultima è stata in grado di portare l’uomo sulla luna, non vi è ragione per cui non possa trovare una cura per farlo tornare a camminare.

Un racconto sospeso tra speranza, illusione e accettazione

Ci si muove, insomma, sul crinale della diade speranza/illusione e del vitale orizzonte di senso che essa dischiude.

Eppure, non sembra tanto essere questo il nucleo centrale di La Meccanica delle Cose, quanto piuttosto quello legato ad un percorso di accettazione dei propri e degli altrui limiti. Un percorso che Celesia, abbandonato il punto di vista dell’osservatore esterno e calatasi direttamente nelle viscere del racconto, propone attraverso le sue vicende private. Le stesse che, prendendo le mosse dall’incidente di Tito e dal suo viaggio della speranza in terra d’Oriente, la conducono all’interno di un cammino introspettivo volto a sciogliere i nodi irrisolti della sua esistenza.

Sono i nodi legati alla propria infanzia e a un padre depresso che sente di non essere riuscita a curare/salvare. Da qui, i suoi sensi di colpa e l’assillo odierno di dover “riparare” ogni ferita a tutti i costi, come in una sorta di cura traslata che, proiettandosi al di là dello spazio e del tempo, l’illuda di guarire per interposta persona il proprio genitore, “…l’unico che vorrei che si rialzasse”.

La Meccanica delle Cose e la parola-chiave “riparare”

“Riparare”, dunque, è la parola-chiave su cui poggia la struttura di La Meccanica delle Cose. Riparare non soltanto per “aggiustare” Tito e tutti coloro che a cui si vuol bene, ma anche per liberare se stessi dalle proprie ossessioni. Per curare le lacerazioni dell’anima attraverso percorsi interiori che aiutino a superare le proprie angosce.

Ed è questa la ragione per cui Celesia costruisce il proprio racconto mescolando le immagini del suo amato gatto, in attesa di un improbabile miracolo della scienza, con i filmati delle sue sedute psicanalitiche (nuovamente utilizzate – pur se attraverso terze persone – nel suo ultimo docufilm The Flats), quelle nel corso delle quali sembra convogliare il proprio senso d’impotenza verso una nuova consapevolezza: che non ogni ferita – dello spirito o del corpo – si può curare, e che tutto sommato va bene così, perché, in fondo, “siamo tutti fracassati […], e però cerchiamo di starci dentro”.

Si tratta, in un certo modo, del suo intimo viaggio dell’eroe, dell’arco di trasformazione che la porta ad una riconciliazione con se stessa, ad uno sguardo focalizzato su quel che c’è, piuttosto che su quel che manca. Ed è, in tal senso, lo stesso Tito, assurto a simbolo di resilienza, ad aiutarla/curarla con la propria naturalezza. Una naturalezza che non tende ad un impossibile rewind, ma ad una concentrazione di energie per vivere al meglio l’oggi.

Tra reportage e flusso di coscienza

Montato con riprese dai vari formati che alternano il viaggio in Cina – dove vengono raccolte le commoventi testimonianze di pazienti e scienziati – e il percorso interiore della stessa Celesia, La Meccanica delle Cose finisce, in tal modo, per trascendere dall’iniziale format del reportage tout-court per attingere i contorni di un tormentoso, ipnotico flusso di coscienza dentro il quale scorrono – attraverso piani temporali frammentati – immagini a tratti sgranate, nervose, sfocate, chiara testimonianza del disagio emotivo dell’autrice.

Vecchi filmini del padre al timone di una barca nell’azzurro mare d’estate – metafora di un paradiso perduto, ma anche segno di un passato che non può tornare – si uniscono alle sequenze fiction che punteggiano e arricchiscono il racconto di interessanti elementi onirici.

Ne scaturisce un docufilm stratificato e ben amalgamato, in cui dolore e introspezione, speranza e accettazione s’incontrano per raccontarci come sia proprio nelle nostre fragilità che ritroviamo il senso più profondo della parola umanità.

 

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