«Cara Maria, mi sono sistemato in un albergo che mi costa pochissimo e ci dormo benissimo. Non è necessario che torni lunedì 21. Puoi restare fino alla fine. Le camicie e gli abiti me li puliscono in albergo… State bene. Io sto bene, come un pesce nel ghiaccio». Cesare Pavese
Si apre così, ripercorrendo in bianco e nero, con gli ultimi giorni e luoghi vissuti a Torino da Cesare Paese,Il mestiere di vivere di Giovanna Gagliardo presentato nella sezione Concorso Documentari del Torino Film Festival e arrivato in questi giorni a Rimini nella cornice del C-Movie Film Festival
Giovanna Gagliardo
I rintocchi netti della sua macchina da scrivere ripercorrono con passione e ingegno, le visioni, i luoghi, i compagni di penna, gli amori e il lavoro di uno tra i più importanti scrittori del Novecento, che nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950 decise di togliersi la vita, con dieci bustine di sonnifero, in un albergo nei pressi della stazione di Torino, “la città dove era nato spiritualmente”. Ne parla apertamente lui stesso in una delle tante lettere scritte in quegli anni che la regista ci fa ascoltare grazie alla voce fuori campo che rievoca quella dello scrittore.
Ancora oggi le sue parole di addio ci raccontano di un autore che ha saputo prima di tutto parlare ai suoi lettori con una modernità rara, lasciandoci orfani del suo immenso talento e della sua straordinaria sensibilità con una sola annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza. «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Cesare Pavese uno di noi
Cesare Pavese è stato un uomo di grande visione e in questo documentario ne ripercorriamo in modo puntuale i momenti salienti, come capitoli, creando un compendio visivo dal Diario omonimo da cui è tratto: La confraternita della “Banda di Monti” dove con Cesare Pavese c’erano tra gli altri: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Argan, Chabod, Giulio Einaudi, Massimo Mila.
L’autore dedito e instancabile per il suo lavoro, a detta del compianto Franco Ferrarotti: la colonna portante di Einaudi, il più bravo di tutti. Quello che si sporcava le mani d’inchiostro in redazione ma reticente sulle posizioni politiche perché, a differenza di tutti, elaborava e raccontava il suo orrore per la guerra e la politica attraverso il Corrado de La casa in collina, dove emerge l’inutilità e l’incapacità di vivere nella concretezza quotidiana.
Il suo bisogno ancestrale di far parte di qualcosa e di non sentirsi solo lo spingono a cercare risposte nella mitologia, nell’antropologia e nella psicologia. E’ una vera chicca vedere il registro nella biblioteca di Casale Monferrato con le consultazioni (sotto pseudonimo), da cui emerge che uno dei testi più amati era le Imagini delli Dei de gl’Antichi” di Vincenzo Cartari.
La sua prediletta collaborazione con Fernanda Piovano con cui portò la “narrativa americana” in Italia grazie a delle traduzioni che ne interpretavano il tempo e la poetica dell’autore (tra i quali ricordiamo Leaves of Grass(1855) di Walt Whitman e Moby Dick (1851) di Herman Melville).
La sua fissazione per il cinema che riteneva un linguaggio e una forma d’arte essenziali su cui teneva un diario. Il suo coinvolgimento in capolavori del neorealismo italiano come Riso amaro e Fuga in Francia.
Non è solo parlar d’amore
Gli amori sofferti tra cui “La donna della Voce Rauca” dietro cui su cela Tina Pizzardo che al ritorno dal confino da Brancaleone Calabro scoprirà sposata e tra le braccia di un altro uomo. Tradimento che Pavese non riuscirà a sopportare, cadendo in uno stato di solitudine irrimediabile e fatale.
Scrive di lei:
”Ti voglio bene, cara, e ti odio, sei per me letteralmente l’aria che respiro, se mi manchi ti maledico come fa un annegato; mi fa male fisicamente esser lontano da te; non sei per me una donna, sei l’esistenza stessa; dove sei tu è la mia casa, tutto il resto è niente…”
Sarà invece l’ultima donna, venuta dall’America, a dovergli dare un po’ di felicità: l’attrice Constance Dowling, alla quale dedicherà la raccolta di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Un racconto che si perde nel classicismo accademico
Intervallato da molte interviste di chi ha vissuto direttamente o indirettamente Cesare Pavese, Il mestiere di vivere si esprime anche attraverso i luoghi. Dalla città di Torino alle Langhe passando per la Fondazione Cesare Pavese situata nella città natale dello scrittore, Santo Stefano Belbo. Gli spunti narrativi sono a portata di mano, soprattutto per chi conosce Pavese grazie alle letture ma rimangono appesi nel classico racconto con un approccio visivo e narrativo un po’ datato.
Ma oggi cosa avrebbe raccontato Cesare Pavese dei nostri tempi e della sua bella Torino? Cosa ne pensano le nuove generazioni? Sono ancora attuali le sue intime paure e le frustrazioni di vivere?
L’approccio diventa troppo classico e canonico sin dal titolo, con una regia e struttura narrativa debole e accademica, non permettendo di sviscerare mai a sufficienza una figura così complessa come quella di Pavese e lasciando la sensazione di aver assistito a un’occasione sprecata. Superflui e deboli poi i caroselli musicali che dovrebbero rievocare estratti della poetica dello scrittore.
Mi va di ricordare come lo scorso anno al Torino Film Festival, Le belle Estati di Mauro Santini affrontava un Cesare Pavese inedito dando voce a giovani liceali, protagonisti di una docu-fiction davvero splendente, come avrebbe voluto vedere oggi l’autore. Ma questa è un’altra storia.
Il mestiere di vivere è stato presentato in concorso all’interno della sezione documentari del Torino Film Festival.