Monica Taboada – Tapia porta sullo schermo con Alma del desierto, temi quali l’emarginazione, la giustizia, l’accettazione e l’identità. Ambientato nei paesaggi desertici di La Guajira, Colombia, Georgina è un’anziana donna transgender dell’etnia Wayúu che, sapendo di non avere più molto tempo a disposizione vuole cambiare la sua vita.
Inizia così il viaggio, apparentemente senza meta e senza scopo, di Georgina che attraverso enormi distese di sabbia, racconta la storia di una donna determinata ad affermare la sua identità, a ricostruire legami famigliari e, allo stesso tempo, denunciare le falle di un sistema burocratico colombiano che pare inasprire disuguaglianze sociali ed economiche.
Alma del desierto, dopo Venezia, arriva a Roma in occasione del Rome international documentary festival dal 5 al 9 dicembre al Nuovo Cinema Aquila.

Immagine dal sito de La Giornata degli Autori
Da Jorge a Georgina
Nei primi minuti si presenta l’alma a cui fa riferimento il titolo: prima Jorge, poi Georgina Epieyú. E immediatamente si viene trascinati nel caos di un ufficio anagrafe colombiano dove, Georgina, vuole semplicemente riuscire ad ottenere un documento che rispecchi la sua identità di genere. Questo le permetterebbe, dopo 45 anni di lotte, di votare con il nome di Georgina, lasciandosi definitivamente alle spalle i panni e la pelle di Jorge.
Da qui si apre un intero mondo, fatto per lo più da un vagabondare per le sconfinate terre colombiane. Un pellegrinaggio che sembra non avere né meta né scopo, ma che racchiude nei chilometri fatti e nelle persone (r)incontrate la forza e la caparbietà di Georgina.
Attraverso il viaggio che la protagonista decide di iniziare si disarticola la sua storia e quella del proprio paese. L’incontro con i fratelli che l’hanno da sempre ostacolata e scoraggiata, arrivando a diseredarla; ripercorre l’episodio durante il quale gli abitanti del villaggio dove sperava di trovare rifugio provarono a dare fuoco a lei e alla sua abitazione per evitare il disprezzo che avrebbe potuto creare alla comunità stessa.
Le persone che incontra e le terre che attraversa riflettono la storia frammentata della Colombia, segnata da povertà ed emarginazione. Georgina viaggia nella penisola de La Guajira, terra di confine tra Colombia e Venezuela, abitata dagli Wayuu, un popolo abbandonato e sfruttato dall’industria capitalistica per l’estrazione mineraria e l’energia eolica.
In Alma del desierto, Georgina non è solo l’anima che dà vita alle terre aride de La Guajira. La sopravvivenza di Georgina, all’interno di un ambiente così ostile nei suoi confronti, rappresenta una sorta di censura. Si cerca in tutti i modi di censurare e limitare l’esistenza di Georgina Epieyú, non le viene permesso per decenni di lasciare andare quella parte identitaria che non ha mai sentito sua; viene nascosta e disconosciuta dalla legge e dalla sua stessa famiglia.

Immagine dal sito de La Giornata degli Autori
“Ce ne sono altre come me?”
Con una fotografia calda e avvolgente che riprende il deserto il quale diventa co – protagonista della narrazione, Monica Taboada – Tapia e Georgina ripercorrono le proprie storie. La regista ha avuto la possibilità di indagare le origini della famiglia materna; Georgina, grazie alla voce che la regista le regala, ha l’opportunità di raccontare la sua storia che, in qualche modo, non è più solo sua, ma si presta a racconto universale e condiviso.
Il documentario si pone pertanto l’obiettivo di colmare quello che manca, e che è sempre mancato, nella vita di Georgina. Offre solidarietà umana e affetto, rompe un silenzio durato per troppo permettendole di provare ad essere finalmente libera.
È un viaggio che mostra la resilienza e l’empatia di questa donna che, pochi minuti prima del buio finale, si chiede se ci sono altre persone come lei e che, nonostante tutto, non hanno mai smesso di essere sé stesse.
Smetterò di essere così il giorno che morirò
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