Torino Film Festival

‘L’Aiguille’, la cruna dell’ago che segna il destino

Un’opera potente e coraggiosa dal respiro universale

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Il secondo lungometraggio di Abdelhamid Bouchnack, L’Aiguille, conquista meritatamente il premio come miglior sceneggiatura al 42° Torino Film Festival affrontando tematiche delicate e scomode.

Una giovane coppia tunisina in attesa del primo figlio scopre che questi è ermafrodita e precipita in un vortice emotivo: ci sono solo tre giorni per decidere il genere del bambino.

La pellicola è ineccepibile nell’affrontare un tema di notevole attualità partendo da una prospettiva locale, quella del mondo arabo – nello specifico tunisino – per approdare a riflessioni e interrogativi applicabili a qualsiasi cultura.

Una società incapace di accogliere il diverso

Un evento di tale portata all’interno del microcosmo famigliare, ed entro i margini della società nel suo insieme comporta scelte, determina destini, solleva dubbi, genera divisioni, rompe equilibri.

Ad oggi l’intersessualità infantile in Tunisia non è protetta da una legge specifica e ciò fa sì che tali bambini possano essere oggetto di mutilazione assecondando orientamenti religiosi, convinzioni scientifiche o, più semplicemente, la volontà genitoriale. D’altro canto, l’alternativa sarebbe attendere l’arrivo della pubertà per inquadrare con maggior chiarezza la collocazione di genere.

Sebbene il regista decida di investigare questioni così complicate partendo dalla realtà del proprio paese, è innegabile che le dinamiche generate dalla nascita di un bambino intersessuale siano simili in una realtà più rivolta a Occidente, soprattutto riguardo alla sfera sociale in cui logiche patriarcali e machiste sono ancora dominanti.

L’Aiguille: Uno sfaccettato universo di personaggi

Un baratro si apre tra Mariem e Dali. Lei, madre amorevole e in grado di accogliere la complessità di genere, sostiene il peso della famiglia, della stanchezza, va oltre le proprie forze fisiche e sfida le imposizioni della legge nel rispetto della creatura a cui ha donato la vita. Lui, schiacciato dall’onta della diversità, nervoso, distaccato, incapace di contatto fisico con il figlio, intento a nasconderlo e a risolvere il problema in maniera definitiva, tra sigarette sempre accese e scoppi d’ira.

Intorno si muovono altri personaggi. La famiglia di Dali che, anche in virtù dell’età, passa dallo sconvolgimento iniziale al senso di affezione/protezione nei confronti del nipote. L’imam che, rappresentando il dogma coranico, è impreparato a eventualità di questo tipo e rimette tutto al volere di Allah. La comunità, le sue ipocrisie, la finta normalità.

Abdelhamid Bouchnack racconta questo dramma con uno stile asciutto e ossessivo e una tensione crescente accostabile al thriller psicologico, mutuata certamente dal lungometraggio d’esordio Dachra, film horror presentato alla Settimana della Critica al Festival di Venezia del 2018.

Una fotografia algida accompagna tutta la storia, tra case bianche dai muri scrostati e interni sbiaditi, ove alla realtà soffocante fanno contrappunto incubi ancora più devastanti.

I protagonisti sono interpreti magistrali e offrono respiro a una pellicola che – oltre al tema centrale – parla di solitudine, convenzioni, gabbie sociali.

Fatma Sfarr (Mariem) incarna a perfezione lo smarrimento di qualsiasi madre dinanzi al mistero della nascita e al tempo stesso il legame carnale insito nella maternità. Gli sguardi impietosi e gelidi si tramutano in urla disperate e versi da animale ferito che ogni donna sente propri, indipendentemente dalla condizione di madre.

Bilel Slatina (Dali) è abilissimo nel rendere la figura di padre ferito nell’orgoglio virile, isolato nell’egoismo maschilista, pressoché indifferente ai bisogni della famiglia.

Un film perfetto che merita attenzione e nuovi riconoscimenti, L’Aiguille è una voce vivace e autorevole del nuovo cinema arabo.

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