I giri concentrici dell’umanità che ci sostanzia fanno continuamente avanzare la nostra storia. Ci portano in dote qualcosa della memoria che spesso non smette di dettare idee e suggestioni nel percorso di formazione della nostra coscienza. Anche quando questi sono tremendamente irregolari e ci costringono a sbandare, perderci o a imbrigliarci in un imponderabile Destino, c’è qualcosa che ci connette con quello che era stato il mondo nel quale avevamo puntato le fiche della nostra esistenza. Melanie Shatzky e Brian M. Cassidysi concentrano su questo aspetto e girano un documentario teso a testimoniare quello che è, che è stato e che forse sarà. La vita del sessantasettenne Lloyd, affetto da schizofrenia e da tempo costretto a vivere per strada, diventa una mappa sulla quale tracciare percorsi di sintesi di un tramonto mai enfatizzato e mai veramente ostracizzato. A Man Imagined, prodotto da National Film Board of Canada e da PigeonProjects, era nel concorso riservato ai documentari della quarantuduesima edizione del Torino Film Festival.
A Man Imagined, frammenti di pensiero
Barlumi dell’essere popolano i frame del lavoro di Shatzky e Cassidy. Sono i fatti che lo stesso protagonista, Lloyd, pesca nel suo passato e, con una paradossale naturale distopia, intarsia di ricordi in parte confusi e in parte intellegibili. In questo senso, affillata arma a doppio taglio risulta essere il montaggio eseguito dai due autori con Pablo Alvarez-Mesa. Miscela la costruzione della narrazione filmica con i frammenti di un pensiero, quello del protagonista, che appare sempre pronto a fuggire in un angolo lontano. Un domicilio speciale dei sentimenti, messi da parte o perduti chissà dove. Un’arca di Noè nella quale poter ritrovare ancora qualcosa di se stesso e della propria umanità. Un intenso scambio di possibilità perse o forse mai veramente volute. Tutto raccolto in uno sguardo iconico, profondo, che non sfugge alla macchina da presa e, dietro ogni passo, cela forse una speranza.