Vena di Chiara Fleischhacker è stato presentato in concorso al Torino Film Festival, nella sezione Lungometraggi. Il film segue la vicenda esistenziale di Jenny, una giovane madre che sta affrontando la sua seconda gravidanza. Il tema della maternità emerge con forza, e s’impone tra le scene, tra le mille difficoltà affrontate dalla protagonista che, insieme al nuovo compagno Bolle, consuma abitualmente droga.
Quando Jenny scopre che la creatura che porta in grembo sta vivendo uno sviluppo fisico ritardato dovrà necessariamente compiere una scelta: continuare a vivere solo per se stessa, oppure assumersi la responsabilità delle proprie azioni, che comprendono l’esistenza stessa del suo bambino.
Il tema della dipendenza affettiva
Vena esplora il tema della dipendenza affettiva nelle sue derive più dolorose, evidente nel rapporto tra Jenny e Bolle. I due fidanzati sono in attesa del loro primo figlio, che si scoprirà essere una bambina, ma sono più che mai smarriti e soli.
Bolle assume droga, partecipa a feste, fuma e vive spesso fuori casa; Jenny osserva tutto ciò che accade, a volte prendendovi parte, altre rifiutando la vita che lei stessa contribuisce a creare, e altre ancora perdendosi in essa. Insieme, i due creano un microcosmo esclusivo di fughe e ritorni, che diventa presto quotidianità, e inquina anche i rapporti esterni alla coppia. Jenny non ama Bolle e Bolle non ama Jenny: ognuno ha solamente bisogno dell’altro, perché vede in questo la soddisfazione di propri bisogni che sono stati negati in precedenza e – questo lo spettatore lo può solo immaginare – specie nel periodo dell’infanzia.
La cinepresa di Fleischhacker riesce a delineare il vortice di dipendenza affettiva all’interno del quale Jenny e Bolle sono intrappolati attraverso riprese che mostrano la coppia in casa, nelle loro azioni quotidiane. Ancora, si concentra sui loro volti, costantemente tesi uno verso l’altro, e da ultimo – quando raramente riprende l’esterno – la coppia impegnata in qualche uscita, sempre riferita però a una socialità tossica, fatta di festini, droghe e alcool.
La figura centrale di Marla
Vena è un film i cui protagonisti sono un uomo e una donna alla deriva, ma è anche il film della possibilità, del seme della speranza. Quest’ultima è impersonata dalla figura di Marla, un’ostetrica di famiglia, che segue il caso di Jenny insieme a un assistente sociale. La donna entra in punta di piedi nella vita della protagonista, l’ascolta, non esprime giudizi, ma neppure la difende. Espone i dati di fatto a proposito di una gravidanza già compromessa, perché il suo obiettivo è quello di mettere Jenny nella posizione di vedere la realtà per com’è, affrontarne le conseguenze e dunque assumersene la piena responsabilità.
Jenny al principio è diffidente, ha paura di chiedere aiuto, perché probabilmente nessuno glielo ha mai insegnato, ed è terrorizzata dalla possibilità che qualcuno possa privarla delle sue cose e dei suoi affetti. Emblematiche da questo punto di vista le sequenze in cui Marla convince per la prima volta Jenny a mostrarle la pancia: il gesto non è immediato, ma graduale. Jenny mostrando la sua pancia a una sconosciuta sta mostrando se stessa, e il terrore di essere tradita è forte.
Marla è in grado di entrare nell’intimità di Jenny, di assicurarle un appoggio sicuro, di fornirle lo spazio e il tempo per chiedere aiuto. É una figura preziosa, che gode di un’interpretazione profonda, intima e delicata da parte di Friederike Becht, perfettamente calata nei panni di una professionista, che, ancora prima di svolgere il suo lavoro, è in grado di creare un rapporto empatico con la sua paziente.
Libertà come sinonimo di scelta
Pare che la cinepresa di Fleischhacker, insieme allo spettatore, segua con trepidante attesa la vicenda esistenziale di Jenny, con la speranza di coglierne un momento di cambiamento. Le emozioni della protagonista sono così intense da riempire lo schermo e arrivare dritte all’interiorità dello spettatore. Grazie al supporto di Marla, Jenny impara ad aiutare se stessa, ma in primis a scoprirsi, e uscire così dal circolo vizioso della dipendenza affettiva.
Solo quando Jenny comincia a vedere se stessa come un’entità separata da Bolle, capisce che deve e può prendersi cura di sé, per poter offrire anche una vita migliore alla sua bambina. In questo senso la cinepresa di Fleischhacker è testimone di un vero e proprio viaggio trasformativo che la protagonista compie nella propria interiorità, guidata dall’amorevole Marla, attraverso l’elaborazione di traumi passati che l’hanno resa così diffidente e solitaria nel presente.
In un movimento ancora una volta duale, la cinepresa riprende due grandi trasformazioni interiori ed esteriori della protagonista: Jenny smette di assumere droghe, e riesce per la prima volta a sentire la sua bambina muoversi nella pancia. É per la prima volta in contatto con la piccola, ma solo perché prima ha scelto di entrare in contatto con se stessa. Un’importante forma di libertà, per una vita, sul finale, ancora tutta in salita.